domenica, marzo 14, 2010

Quando un comunista fa il presidente....

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giovedì, marzo 11, 2010

Un paese va a puttane


Gian Marco Chiocci per "il Giornale"

Comprate per comprarsi funzionari dello Stato. A pagare - e questa è la novità - non sarebbe stato solo e sempre Diego Anemone, il deus ex machina del gruppo interessato a fare business coi soldi pubblici. Ma anche «qualcun altro», vicinissimo a Balducci, sostengono gli investigatori, «e agli ambienti politico-economici di ben precisi personaggi finiti sott'inchiesta».Trecentocinquanta escort a una media di 500-700 euro «a botta», per dirla con uno degli indagati dell'inchiesta sugli appalti del G8. Tante sono le prostitute d'alto bordo collegate all'organizzazione di Angelo Balducci finite agli atti del procedimento fiorentino. Squillo contattate via internet, attraverso ambienti definiti «sicuri» dagli inquisiti, oppure nel giro che conta della Roma bene frequentato da politici, calciatori, imprenditori, attori. Ragazze italiane soprattutto. Poi russe, centroamericane, cubane, brasiliane o dell'est Europa. Signorine per tutti i gusti, e le misure espressamente richieste.
BALDUCCI ANGELO CON DIEGO ANEMONE DA UNA FOTO DEL ROS DAL MESSAGGERO
Al filone bis della prostituzione si è arrivati seguendo le «gesta» erotiche di Fabio De Santis, il pluriraccomandato provveditore alle opere pubbliche della Toscana, sorpreso - in pedinamenti e intercettazioni - a intrattenersi di continuo con giovani e avvenenti fanciulle a pagamento. Per lui, ad esempio, si prodiga l'imprenditore Guido Ballari che organizza un incontro con una squillo in un appartamento al quartiere romano della Balduina. L'indomani, al telefono, i due commentano divertiti.
ANGELO BALDUCCI - DIEGO ANEMONE E MAUDO DELLA GIOVAMPAOLA (DAL GIORNALE)
Fino a quando Ballari, con una battuta, non gela l'amico De Santis: «Ehi Fabio, non sai quanto sei stato fortunato. Cinque minuti dopo che sei uscito dall'appartamento è rientrato il marito», ovviamente all'oscuro del doppio lavoro dell'amata consorte. Il nuovo rivolo d'indagine va a confluire nel mare di intercettazioni che hanno portato alla luce l'esistenza di una sorta di «fondo cassa» riconducibile ad Anemone dal quale attingere, a mo' di bancomat del sesso, fino a 5mila euro per accompagnatrici di gran classe, con cui fare bella figura ai ricevimenti, e divertirsi dopo.
Com'è capitato sempre con De Santis e con Mauro Della Giovampaola, funzionari del Dipartimento per lo sviluppo e la competitività del turismo, intercettati a Venezia dov'erano andati per il festival del cinema, e protagonisti della famosa telefonata in cui si lamentavano della qualità della «lucciola» rimediata dai compari di giro («aho, quella è 'na robetta da tangenziale»).

Rossetti si mette subito all'opera. Chiama qua, telefona di là. Alla fine invia un sms a un amico: «Due zoccole per Venezia si rimediano». Sempre Daniele Anemone si raccomanda con Rossetti che le ragazze da portare in camera dei due funzionari non diano troppo nell'occhio («mi raccomando, vestite normali»).In quell'occasione Daniele Anemone, fratello di Diego, al telefono fa presente che a Simone Rossetti (il collaboratore di Diego Anemone protagonista del giallo dei massaggi a Guido Bertolaso al Salaria Sport Village) servono non meno di 4mila euro per prendersi cura della «confortevole permanenza» a Venezia di De Santis e Della Giovampaola («senti tu forse mi devi passare da Simone... gli servono un po' di soldi... gli servono 2 o 3 mila euro, anche 4»).
Rossetti è scientifico nella richiesta: «Ok calcola che a me me ne servono due ... io le faccio dormire al Gran Palace di Venezia costa 1.500 euro al giorno solo la stanza e poi in più si beccano 1.500 cadauno». E ancora: «Una è una topa da paura... c'avrà 22-23 anni.. è una russa... occhi azzurri, capelli biondi. Una non è la Schiffer però è una che col cavolo... cioè hai capito ... poi parlano poco perché comunque son russe non sono... non sono tipe che sbroccano e fanno casino».

mercoledì, marzo 10, 2010

Le barzellette del Tronchetto

E certo, adesso le divisioni dei grandi gruppi lavorano per conto loro senza avvisare nessuno. Bum!



Fonte corriere


Tronchetti Provera al giudice:
«La security agiva da sola»

L’imprenditore testimone: mai ordinato i dossier illeciti

MILANO
 - Le divisioni Security di Telecom e Pirelli guidate da Giuliano Tavaroli erano una entità autonoma e autoreferenziale — sostiene Marco Tronchetti Provera —, Tavaroli utilizzava il mio nome che nelle dinamiche aziendali è un buon alibi per far passare come urgenti cose che non lo sono, io l’ho visto solo 1 o 2 volte al mese per un totale di 55 volte in 4 anni, mai ho ordinato o saputo di dossier illeciti formati dalla struttura e dai fornitori privati di Tavaroli (come il detective Emanuele Cipriani) con soldi dell’azienda, e laddove sembra che ciò sia accaduto io non so il perché. Nelle prime tre ore di deposizione, richiesta dall’imputato Cipriani e ammessa dal giudice Mariolina Panasiti nell’udienza preliminare sul dossieraggio illegale Telecom-Pirelli, il teste Tronchetti, presidente di Pirelli ed ex azionista di controllo di Telecom, non muta posizione rispetto a quanto affermò ai pm già il 27 giugno 2008. Su nessun tema.
Il dossier Oak Fund: «Tavaroli venne a dirmi che, se volevamo, poteva avere informazioni su un fondo che faceva capo a D’Alema e altri. Io gli dissi che non mi interessava. E comunque, qualora le trovasse rilevanti, di portarle in Procura». L’indagine sull’arbitro di calcio De Santis: «Sarà stata una iniziativa autonoma, di cui non sono a conoscenza. Sicuramente non fu una iniziativa di Moratti, perché il presidente dell’Inter, se ci fosse stato qualche sospetto, sarebbe subito corso in Procura dal pm Boccassini». Gli accertamenti sull’intestazione di una casa (già del primo marito di Afef) comprata a Parigi: «Non ho idea nell’interesse di chi siano stati fatti». Quelli sul politico pdl Brancher prima di un incontro con Tronchetti: «Non ne ho idea, non li ho ordinati io». La fattura da 30 mila euro che l’agenzia d’investigazioni Polis d’Istinto di Cipriani (che Tronchetti ribadisce di non aver mai conosciuto) recapita a casa di Tronchetti per i propri servizi di sicurezza il giorno del matrimonio della figlia Giada: «L’avrò data alla mia segreteria da pagare con soldi personali, non è che conosco tutte le persone dalle quali ricevo fatture. E ne ricevo talmente tante che, se dovessi vederle una a una, passerei la giornata a farlo».
L’attacco informatico sferrato dal Tiger Team della Security di Tavaroli ai pc dell’allora amministratore di Rcs Colao e del giornalista del Corriere Mucchetti: «Non avevo alcun interesse, il giornalista non perdeva occasione per screditarmi, ma glielo avevo contestato direttamente, non ho ordinato indagini su di lui e non ne ero al corrente. Fu il presidente Rcs Marchetti a dirmi che c’era stato un attacco informatico e che esistevano voci che lo attribuivano a Telecom. Io chiesi un rapporto a Tavaroli, che mi mandò un memo sintetico con allegato un appunto di Ghioni, di cui vedevo per la prima volta il nome».
Il cosiddetto «fondo del Presidente »: «Non c’era un conto, non era una cassa, ma una appostazione contabile». Margherita Fancello, la consulente della Security che incassa circa 1 milione di euro, asseritamente per opera di accreditamento nella Roma politica: «Mai conosciuta. Come presidente di Telecom non avevo certo bisogno di farmi accreditare da lei: soldi per introdurre Tronchetti? Sarà stato un altro Tronchetti» (riferimento forse a un cugino che lavorava nell’azienda di Fancello). Il sospetto che i tabulati telefonici che la Security estraeva dal sistema Radar fossero anche nell’interesse di Tronchetti: «È il contrario, Radar l’abbiamo trovato e denunciato noi in Procura».
Dopo Cipriani e Ghioni, gli altri imputati e le parti civili dei dossieraggi interrogheranno il teste Tronchetti martedì 16.Quello sin qui riportato è il senso delle sue risposte ieri, almeno per quanto si è potuto ricostruire incrociando decine di versioni all’uscita dell’udienza preliminare, tenutasi come tutte in camera di consiglio, cioè a porte chiuse, sebbene il 12 febbraio il giudice abbia anticipato un pezzo di processo con l’esame di 6 testimoni chiesti da Cipriani. Il rischio di errori e incompletezze, insito nei racconti riferiti fuori dalla porta chiusa, con danno per i lettori e per le parti, si era già palesato il 2 marzo all’audizione dei primi due testi, sicché ieri il cronista presentava in cancelleria un’istanza affinché il giudice, sulla scia di quanto abbozzato dalla norma che regola invece il giudizio abbreviato in camera di consiglio, all’inizio chiedesse se tutte le parti prestavano consenso alla presenza in aula di giornalisti. Persino le contrapposte difese di Cipriani e di Telecom- Pirelli assentivano alla richiesta, pur priva di precedenti. Ma in un secondo giro, sollecitato dal giudice consultatasi «con il mio capo» (o dei gip o dell’intero Tribunale), l’avvocato Vincenzo Carosi per l’imputato Marco Bernardini (ex Sisde) si è opposto, seguito a quel punto dal pm Piacente, e con ciò ha stoppato l’istanza.

martedì, marzo 09, 2010

Orlando come Rourke


Paolo Conti per il "Corriere della Sera" del 6 febbraio 2010
BIGELOW STREISAND
«Se continua così, la Mostra cinematografica di Venezia diventerà un cineclub per pochi intimi che premierà sconosciuti registi thailandesi... la vera industria, quella americana, non ne vorrà più sapere niente. Anzi, già non ne vuole più sapere niente».
Sandro Parenzo è prima di tutto un veneziano autentico. Poi è l'anima della Videa-Cde, solida casa di distribuzione cinematografica. Ma perché Parenzo attacca così la Mostra veneziana? Fu lui, nel 2008, a offrire in concorso al curatore Marco Müller il film The Hurt Locker di Kathryn Bigelow, proprio la pellicola sull'Iraq che ha sbancato alle nomination degli Oscar di quest' anno con ben nove candidature:
MARCO MULLER
«Comprai quel film sulla carta, leggendo la sceneggiatura, come ormai avviene per tutti. Ci ho creduto subito. E in quanto veneziano ho pensato alla Mostra, sicuro che la rassegna avrebbe potuto "scoprire" un grande film. Invece niente: un' opera che ora contende ad Avatar la corsa per i principali Oscar ha lasciato Venezia senza nemmeno un riconoscimento della giuria. Assurdo. E non lo dico perché si tratta di un "mio" film. Ma perché nel festival italiano si respira sempre provincialismo, chiusura, aria di accordi preventivi...».
Come andarono le cose, Parenzo? «Quando ebbi il film pronto, ne parlai con Marco Müller che oggettivamente fece di tutto per averlo».«Certe cose non sono possibili. Ma era chiaro che un grande film americano accetta di concorrere a Venezia se può contare su una certa attenzione. Insomma, io convinco la regista a partire e con lei partono anche i due protagonisti, entrambi ora "nominati" all'Oscar con la Bigelow. Si arriva a Venezia, il film viene proiettato e accolto molto bene in sala. Eravamo tutti certi di un' affermazione».
E poi, cosa è accaduto? «È accaduto che il premio al miglior attore "doveva" assolutamente essere assegnato dall' inizio a Silvio Orlando. Nelle ultime ore arrivò The Wrestler con Mickey Rourke. E tutti capirono che sarebbe stato assurdo premiare Orlando e non Rourke. L'unica strada che venne individuata fu gettare a mare The Hurt Locker per premiare come miglior film The Wrestler. Una barzelletta solo a pensarci, la solita trama sul pugile suonato».
Il bello (Parenzo non lo dice, ma basta rileggere le cronache apparse sul nostro giornale) è che Rourke avrebbe voluto a tutti i costi il premio come miglior attore e, nelle ore della premiazione, era furioso al punto tale da minacciare di lasciare subito Venezia. Poi restò, convinto dal regista Darren Aronofsky.
 
«Io penso che qui non siamo di fronte a una questione di gusti. Venezia ha cestinato un film che ora può valere nove Oscar. C' è qualcosa che non funziona lì alla Mostra, o sbagliano i votanti dell' Oscar? E al di là della mia personale polemica di distributore dico: attenzione, la vicenda di The Hurt Locker sarà nei prossimi mesi la peggiore pubblicità possibile per la Mostra italiana tra la gente del cinema americano».

Quando boicottare il Made in Italy è giusto


Stefano Lorenzetto per "Il Giornale"
Lo chiamano made in Italy, ma è più sfatto che fatto. Diciamo pure marcio. In cima alla scala ci sono i signori della moda. Venerati e intoccabili: ci mettono la faccia. Un gradino sotto stanno i terzisti. Carne da macello: ci mettono il sangue. Giancarlo De Bortoli, 61 anni, titolare della Herry's confezioni di Pramaggiore, dove il Veneto sfuma in Friuli, era un terzista. Lo hanno vampirizzato:
Io lo conoscevo bene Giancarlo De Bortoli. Era uno dei migliori su piazza, fidatevi. Faceva le camicie su misura persino per i 9 piloti della flotta aerea privata dei Benetton. Pochi riuscivano a lavorare la seta, il raso, lo chiffon, la crêpe georgette come lui. Ma nessuno doveva sapere che dalla sua fabbrica uscivano i capi d'alta moda per signora con cucite sopra le etichette delle più grandi maison d'Italia: Gucci, Prada, Max Mara, Miu Miu, Etro, Sportmax, Costume National, Duca d'Aosta, Cividini.De Bortoli un fallito? Com'è possibile, in nome del cielo? Sa fare come pochi il suo mestiere, ha sempre sgobbato 12 ore al giorno, praticava prezzi concorrenziali, era arrivato a produrre 20.000 capi l'anno, non contraeva debiti, non s'è arricchito, era oculato, pagava regolarmente gli stipendi, versava i contributi previdenziali, non evadeva le tasse, nello stabilimento aveva messo per le sue operaie il climatizzatore e l'impianto stereo. Che altro ancora si può chiedere a un imprenditore? Spiegatemelo voi.
«Ho prodotto camicioni per conto di Stella McCartney, figlia di Paul, il cantante dei Beatles, la stilista che ha fatto l'abito da sposa di Madonna. Ma la casa per cui ho lavorato di più in assoluto è stata Jil Sander. Per una decina d'anni la fondatrice, Heidemarie Jiline Sander, da Amburgo mi mandava l'ordine per le camicie che indossava lei stessa, i suoi stampi erano conservati qui da me in azienda».E poi Giorgio Armani: «Ho dovuto comprare sette tenaglie per spezzare nei punti di cucitura le perle che ricoprivano una sua giacca». E poi Valentino: «Trecento pigiami ordinati attraverso il maglificio Nigi di Mogliano Veneto, eh sì, c'è anche il terzista del terzista». E poi le sorelle Fendi: «Duecento tailleur tempestati di paillettes, il solo pantalone sarà pesato 10 chili». E anche griffe straniere, perché in fatto di contoterzismo tutto il mondo è paese: Emanuel Ungaro, Apara, Pringle of Scotland, Strenesse, Tse cashmere.

Maledetto il giorno in cui De Bortoli diede retta al padre Antonio, che aveva visto emigrare verso la Svizzera tutti i suoi figli. «Ero elettrotecnico alla Brown Boveri di Baden, stipendio ottimo. Papà mi telefonò: "È mai possibile che di tre figli debba morire senza averne almeno uno qui vicino a me?". Tornai a Motta di Livenza. Era il 1968. Sposai Maria Paola. Entrai nel ramo tessile con un amico. Volevo chiamare la nostra azienda Harry's, in onore di Ernest Hemingway, assiduo frequentatore dell'Harry's bar di Venezia.Io lo conoscevo bene Giancarlo De Bortoli. Ma ora non lo riconosco più. La barba di un giorno, gli occhi arrossati, la voce tremante. «Ti vengono strane idee. Se non fosse per mia figlia e per le mie due nipotine...», e la mente va allo stilista inglese Alexander McQueen, già pupillo di Romeo Gigli e Givenchy: «Gli fornivo le camicie. Avrebbe compiuto 41 anni fra qualche giorno. È morto a Londra l'11 febbraio scorso. Suicida». Dall'estate del 2008 sono ben 13 gli imprenditori veneti che si sono ammazzati dopo aver visto naufragare la loro azienda: quasi uno al mese.
E i fatti quali sono?È così, De Bortoli?
«Certo i signori della moda non sono fessi e sanno come cautelarsi da ogni genere di responsabilità in caso di violazioni lungo la filiera produttiva. Come ha dichiarato il colonnello Pascucci, in linea teorica e da un punto di vista etico chiamare in causa il committente è logico, ma provarne le colpe è quasi impossibile, perché le leggi in materia sono "troppo morbide e facilmente aggirabili", parole sue. Io comunque sto ai fatti».
«Che nel 2009 in Veneto sono falliti 240 laboratori tessili. Che nello stesso anno la Guardia di finanza ha scoperto quasi 600 operai irregolari nel solo Trevigiano. Che il responsabile tecnico di una grande griffe alla vigilia della ricorrenza dei defunti mi disse: "Sa, De Bortoli, lei è un privilegiato, perché in giro troviamo chi ci fa il suo lavoro per 5 euro e ce lo fa anche bene"».

Le aziende devono badare agli utili, si sa. Proprio per non finire come la Herry's.Alcune case di moda potrebbero ignorare che i loro vestiti vengono subappaltati a laboratori clandestini.
«Va bene, ammettiamo che sia vero. Anch'io, in fin dei conti, per salvarmi mi sarei potuto rivolgere a qualche sfruttatore all'insaputa dei committenti. Ma quando un celebre stilista impone prezzi assurdi, all'insegna del "prendere o lasciare", sa in partenza che servono gli schiavi, non può ragionevolmente ritenere che un imprenditore italiano in regola con le leggi sia in grado di lavorare a quelle condizioni. Prova ne sia che io sono fallito. E questa a casa mia si chiama responsabilità morale».
«Sì, ma dev'esserci una misura anche negli utili. Guardi questa scheda: è per un abito foderato di Jil Sander, stagione 2010. Cuciture aperte, cuciture chiuse, pince, orli ripiegati, orli riportati, orli surfilati, scollatura, giri, fodere, impuntura di sbordatura non visibile al dritto, 14 pieghe che si rincorrono in senso antiorario sulla gonna... Saranno una trentina di operazioni. Ci volevano 96,5 minuti di lavoro per un abito così. Sa quanto me l'hanno pagato? Al netto dell'Iva, 40 euro. E hanno avuto anche l'impudenza di consegnarmi l'etichetta col prezzo al pubblico da metterci sopra: 890 euro».
Inaudito.
«E questa camicia per donna? Servivano 97 minuti. Mi è stata pagata 24 euro. Nelle boutique la trova a 490 euro. Devo continuare?».

«Esatto. Sempre sperando che le cose si raddrizzassero. Ce l'ho messa tutta, mi creda. Dicevo agli stilisti: ma a questi prezzi non ci sto dentro, venite a controllare di persona, rimanete per un giorno in azienda e insegnatemi voi quali economie di scala posso fare. Mi hanno spremuto fino all'osso. "Tanto", è stato il commento di uno di loro quando ha saputo che ero spacciato, "per un laboratorio che chiude ne aprono altri cinque". Sottinteso: stranieri».

E così lavorava in perdita.Prego.

«Questo fax arriva dalla Svizzera. Gruppo Gucci. Mi chiedevano una camicia per 34,54 euro. Sono riuscito a strappare un aumento di 1,50 euro per la difficoltà nell'applicazione dei bottoni. Lei vede che il prezzo totale è di 41,73 euro. In realtà poi mi trattenevano 3,50 per il collaudo e 2,19 euro per il bulk, che sarebbero gli accessori forniti da loro. Non è finita: un appendino di Gucci può costare 3 euro. Me ne mandavano uno scatolone e me lo fatturavano. Avanzavo 20 appendini? Me li facevano pagare lo stesso. Avrei potuto restituirli. Ma le procedure per il reso mi sarebbero costate mezza giornata di lavoro di un'impiegata. Tanto valeva rinunciare».
Ma quand'è cominciata la crisi?
«Nel 1997, per una camicia, Jil Sander mi dava dalle 70.000 alle 80.000 lire, l'anno scorso in media 16-22 euro, cioè dal 55% al 47% in meno. Un terzista ci mette la pura manodopera e per legge va pagato a 30 giorni. Hanno cominciato a saldare a due mesi, a tre mesi. Poi hanno trasferito le produzioni all'estero: Romania, Slovenia, Tunisia, Portogallo. Infine hanno delocalizzato nei seminterrati italiani. Laboratori-lager. Non c'è provincia che ne sia immune.
La Riviera del Brenta e la Marca trevigiana ne sono impestate più di Prato. Gli schiavi non vengono pagati a tempo, bensì un tot a capo. Non importa quanto c'impiegano a finirlo: lavorano lì, mangiano lì, vivono lì. Emergono un'ora al giorno, come i sommergibili, e subito tornano sotto, alla luce artificiale. Dormono tre ore per notte. Non conoscono ferie, Natale, Pasqua, Capodanno, Ferragosto. Non smettono mai e si accontentano di un niente».
I suoi colleghi come si salvano?
«I più fortunati, quelli che avevano da parte i soldi per i trattamenti di fine rapporto, hanno contenuto i danni, chiudendo subito».
Perché non ha fatto lo stesso?
«Perché non potevo pagare le liquidazioni ai lavoratori. La metà delle piccole imprese del Veneto l'hanno bruciato da tempo, questo accantonamento. L'ultimo Tfr, 24.000 euro, sono riuscito a versarlo a una dipendente tre anni fa. Scaglionato in 12 rate».
Quanto fatturava?
«Nel 1995 ero arrivato a 3 miliardi di lire, cioè 2 milioni di euro d'oggi. Nel 2007 ero sceso a 684.000 euro, l'anno dopo a 596.000. Nel 2009 il disastro: appena 288.000 euro».
Perdoni la brutalità, lei avrebbe dovuto dichiarare fallimento parecchi anni fa.
«Lo so da me. Però chi era? Confucio? a dire che quando un uomo cade dalla rupe si aggrappa ai rovi? Ho venduto la mia villetta a schiera e sono andato a stare in affitto per portare un po' di soldi nella ditta. Dal 2004 ho smesso di farmi lo stipendio, ho dato fondo a tutti i risparmi. A Natale ho capito che era finita: in dicembre avevo fatturato 18.000 euro e fra stipendi, tredicesime, contributi e Irpef me ne servivano 90.000».
Che cos'era per lei il lavoro?
«Tutto. Mi alzavo dal letto la mattina, recitavo le preghiere e poi venivo qui, fiero di me stesso. Però negli ultimi tempi dicevo a Stefania Dal Ben, che è in azienda da 21 anni: entriamo ad Auschwitz... È blasfemo anche solo pensarlo, ha ragione. Ma il sentimento era quello. Umiliazioni, umiliazioni, umiliazioni, e non sapere se saremmo arrivati vivi a sera. Non c'è di peggio, per un imprenditore, che non riuscire a pagare lo stipendio ai propri dipendenti. Io ho smesso a luglio. Andavo avanti ad acconti. Un fornitore può aspettare, ma una famiglia no. Non riuscivo più a reggere lo sguardo delle operaie, nonostante fossero loro stesse ad incoraggiarmi: "Andiamo avanti, signor Giancarlo, noi ci fidiamo di lei"».
Oggi che cosa prova quando vede un défilé in televisione?
«Repulsione. Nell'ultima sfilata di Dolce e Gabbana c'era un maxi schermo che rimandava le immagini delle sartine con ago e ditale, per mostrare che l'alta moda è tutta italiana. Non è vero, non può essere vero. Altrimenti io non avrei dichiarato fallimento. Ma dove vivono questi due signori? Ma lo sanno o no che il contratto dei tessili è parificato alle lavanderie? Ma lo sanno o no che la scuola Calligaris di Treviso e quella di Azzano Decimo, dove s'insegnavano taglio, cucito e modellistica, hanno chiuso una vita fa? L'ultima apprendista che venne a suonarmi il campanello per essere assunta si chiamava Aurora, aveva 16 anni, e per avviarla all'haute couture me ne sono serviti cinque. Sono passati tre lustri da allora. Oggi le sarte si accontentano di pulire i cessi nelle aree di servizio: guadagnano di più».
Eppure le griffe spopolano.
«La gente cerca gli status symbol, crede di rendersi presentabile con un abito. Ma non sa neanche che cosa compra. La qualità è l'ultimo pensiero. Nessuno controlla, i politici per primi. Ma dài, lo sanno tutti da dove viene fuori l'alta moda italiana che italiana non è! Basterebbe andare a vedere le bollette dell'elettricità. Ci vogliono i 380 volt, mica i 220, per far marciare un laboratorio».
Non salva nessuno?
«Roberta Furlanetto e Luisa Beccaria, due stiliste milanesi che fanno produrre tutto in Italia da mani italiane. Pretendevano le finiture sartoriali e me le pagavano il giusto».
Prova vergogna?
«Tanta. Però giro per strada a testa alta. Chi mi conosce sa che non ho mai rubato».
Adesso che farà?
«Non ne ho idea. Sono un fallito. Che cosa può fare un fallito? Confido nella clemenza del giudice. Secondo l'avvocato mi sequestrerà un quinto della pensione di reversibilità di mia moglie, che è di 800 euro mensili, e mi pignorerà i mobili, lasciandomi il letto e il fornello. Questo è ciò che ho avuto dalla vita. Ma almeno sono morto in piedi».