Trascritto da Repubblica:
Dalla Svizzera intermediario d´affari per elicotteri armati in Africa e Asia
Uscito praticamente indenne dall´"incidente" di Cavallo
L´incontro segreto di Maria José con Pertini per il ritorno
leonardo coen
ORA CHE lo hanno sbattuto in gattabuia, tanto per usare un gergo assai poco principesco, sarebbe facile e scontato ricordare che tra Vittorio Emanuele e la giustizia c´è sempre stato un continuo batti e ribatti, un giocare a nascondino, un contenzioso eterno da vita sul filo del rasoio. Già negli anni ´70 ebbe noie grosse a causa d´un traffico d´armi scoperto dal giudice Carlo Mastelloni di Venezia ma fu il magistrato che finì per avere la peggio: venne trasferito a Roma, aveva osato ficcare il naso su affari che coinvolgevano lobbies troppo potenti e protette.
Tutto si concluse nella solita bolla di sapone. Di certo, in quel giro c´era chi spendeva il nome di Vittorio Emanuele, e qualcuno gli avrà pur detto che poteva farlo: del resto, l´erede al trono dei Savoia si era fatto una reputazione vendendo allo Scià Reza Pahlevi, di cui era buon amico, elicotteri prodotti dal conte Corrado Agusta che poi riapparivano armati di tutto punto in Sudafrica, a Singapore, in Malesia, a Taiwan, triangolazioni che l´Onu metteva spesso sotto accusa. Lui si difendeva: sono solo un intermediario d´affari, vendo persino aerei da carico russo. Nel suo piccolo ufficio di import-export, a Ginevra, un giorno mi mostrò con orgoglio il modellino di uno Yak sovietico, «questo velivolo è robustissimo, costa poco, trasporta molto».
Andò peggio una sera d´estate del 1987 in quel di Cavallo, isolotto per vacanze miliardarie e per faccendieri ozianti come Silvano Larini, amico di Silvio Berlusconi e cassiere dei conti segreti di Bettino Craxi. Vi erano affinità, diciamo così, da affiliazione: alla P2 di Licio Gelli, visto che il principe vi figurava col numero 1621. Savoia e massoneria, un´antica storia di affari e intrallazzi, avevano scritto maliziosamente i giornali.
Quanto a Larini, Vittorio Emanuele lo frequentava, e anche questa coincidenza - più tardi rivalutata da Mani Pulite - avrebbe dovuto allarmare chi non crede al caso e pensa sempre al peggio (Andreotti docet). Ma stavolta la cronaca si interessò di un´altra burrascosa amicizia, quella con Nicky Pende, playboy e figlio di uno dei medici più noti e ricchi di Roma: Vittorio Emanuele era geloso della bellissima moglie Marina Doria, quella notte si sbronzò e litigò furiosamente con Nicky a tal punto che scese sottoponte della sua barca e ne riemerse armato di un fucile. Sparò e colpì un giovanotto tedesco, Dirk Hamer. Era il 18 agosto del 1987. Il ragazzo non aveva vent´anni. Morirà, dopo atroci sofferenze (gli amputarono persino una gamba pur di salvarlo), il 7 dicembre. Fu una vicenda oscura. Ma qualche anno dopo, nel dicembre del 1991, al processo di Parigi fu assolto dalla Chambre d´accusation: niente omicidio volontario, solo una lieve condanna a 6 mesi con la condizionale per porto abusivo di arma da fuoco.
Erano pure gli anni in cui l´opinione pubblica italiana cominciò a parteggiare per il rientro dei Savoia in Italia: «Ormai sono politicamente inoffensivi». Vittorio Emanuele su questo concordava pienamente: ha sempre disprezzato politica e politici, al massimo gli potevano essere utili per i suoi affari da esule regale. Merito anche del discreto lavorìo diplomatico tessuto dalla madre, la regina Maria José, che culminò nell´incontro segreto a Ginevra con il presidente Pertini (fu proprio Repubblica a svelarne i dettagli). Maria José era un´interlocutrice credibile, non aveva mai celato la sua disapprovazione nei confronti delle scelte di casa Savoia. Non seguì Umberto a Cascais, in Portogallo, rimase coi figli in Svizzera: la chiamarono "regina rossa" per le sue vaghe simpatie socialiste, la contestatrice di casa Savoia. Le sinistre decisero che era venuto il momento di ripensare alla XIII disposizione transitoria della Costituzione che vietava agli eredi maschi dei Savoia di rimettere piede in Italia, e poi Vittorio Emanuele aveva dichiarato pubblicamente di rinunciare al trono, di accettare la Repubblica italiana e la sua costituzione. La suoneria del suo telefonino era l´inno di Mameli. «Vorrei poter morire da italiano in Italia», mi disse una volta, ma poi continuò a preferire la sua Villa Italia, in riva al Lemano. Tutto era pronto per il gran rientro. Ma forse non tutti lo volevano. C´era chi non si fidava della sua conversione repubblicana.
L´occasione per verificarlo fu un lugubre anniversario, quello delle leggi razziali del 1938, sottoscritte dal nonno Vittorio Emanuele III. Il Tg2 volle intervistarlo. Gli chiesero: «Principe, cosa pensa di quella firma che suo nonno appose sotto il decreto delle leggi razziali volute dal Duce? Non crede che sia giusto scusarsi?». Vittorio Emanuele arrossì come sempre gli capita quando si trova in difficoltà. In fondo è un timido. Farfugliò: «No, perché io non ero neanche nato». Invece, a dire il vero, era nato l´anno prima, il 12 febbraio del 1937. Ma il punto era un altro: Vittorio Emanuele reclamava da anni il ritorno in Italia, si era persino rivolto alla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Non riusciva però a sconfessare quel gesto, e quindi la Shoah. In verità, al principe mancava il senso della Storia, un vuoto culturale che lo metterà sempre con le spalle al muro. Provò a rimediare: «Quelle leggi non erano poi così terribili». Giustamente scoppiò il putiferio. L´avvocato Giuseppe Morbilli cercò di metterci una pezza, ma ormai Vittorio Emanuele aveva perso il controllo della situazione e se la prese con il giornalista, accusandolo di volerlo far «cadere in trappola». Ecco: è tutta la vita che Vittorio Emanuele si è sentito intrappolato dal suo nome e da un destino che non ha mai sopportato. Tornò in Italia quattro anni fa e subito dopo l´Italia se ne dimenticò.
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