sabato, agosto 22, 2009

Botta e risposta fra Feltri e Travaglio




Ecco il primo editoriale di Vittorio Feltri da direttore de il Giornale

Tra Silvio e Agnelli ecco chi è il peccatore
di Vittorio Feltri

Quando nel dicembre 1997 lasciai il Giornale (ereditato da Indro Montanelli) dopo quattro anni di direzione, assoggettandomi alla liturgia in voga nelle redazioni, scrissi un articolo di saluto intitolato: «Addio. Anzi, arrivederci». Ho mantenuto 1a parola e sono tornato.

Sono tornato per due motivi. Primo. Con il cuore non me ne ero mai andato. Secondo. L’editore mi ha affidato un mandato stimolante: riportare il Giornale ai livelli diffusionali, e non solo, del passato. Non sarà facile ma oso provarci. A Libero d’altronde avevo esaurito il mio compito: a nove anni dalla fondazione, quel quotidiano ha conquistato un posto importante nelle edicole; è in piena salute e ben condotto da una vecchia conoscenza degli amici del Giornale, Maurizio Belpietro. Per me non aveva più senso rimanere lì. Mi sentivo sempre meno libero e desideravo uno strumento diverso e più potente per far udire la mia voce in un Paese ancora oppresso dal conformismo di sinistra (dominatore assoluto in oltre due terzi della stampa nazionale).

Nel momento in cui il Giornale mi si è offerto garantendomi non soltanto la libertà della quale ho bisogno per lavorare ma anche i mezzi allo scopo di metterla a frutto, non ho saputo resistere al piacere di riprendere la conversazione con i lettori che già furono miei e di Montanelli prima che cedesse a corteggiamenti progressisti.

Ed eccomi qui con la voglia di affrontare le battaglie che si annunciano in autunno alla ripresa dell’attività politica. Presumo sappiate da quale parte sto, la solita. Non sarei capace di essere diverso da come sono, insofferente a qualsiasi ordine di scuderia, disciplina, inquadramento ideologico. Questo non è mai stato un foglio di partito e il Pdl si illude se pensa lo possa diventare. La famiglia Berlusconi e gli altri azionisti da me si aspettano molto tranne una cosa: che trasformi il Giornale in un megafono di Berlusconi. Non sarei in grado. Mi manca la stoffa del cortigiano, e forse proprio per questo sono stato richiamato a coprire l’incarico di direttore della storica testata i cui lettori non sono ultrà del centrodestra, ma cittadini meritevoli di rispetto, quindi di essere informati correttamente e confortati nelle loro opinioni.

Se sarà il caso, come sempre ha fatto, il Giornale criticherà il capo del governo e cercherà di aiutarlo girandogli i consigli che saranno giunti qui dal pubblico (cioè da voi) che ha fiducia in lui, ma non gli ha dato carta bianca. Un quotidiano d’opinione ha il dovere di intercettare gli umori dei lettori e di sintetizzarne il senso sulle proprie pagine. Questo faremo con l’intento di fungere da cinghia di trasmissione tra la gente e i suoi rappresentanti politici, anzitutto il Cavaliere, l’unico che abbia avuto la forza e l’abilità di mandare in crisi la cosiddetta egemonia di sinistra.

Fra qualche settimana l’opposizione, in mancanza di argomenti politici di spessore, ricomincerà a pescare nel torbido e a frugare nelle pattumiere del gossip. Non è un vaticinio. È una notizia. Le truppe corazzate di De Benedetti sono state mobilitate per la ripresa della pugna sul terreno ad esse più congeniale: il materasso.

Un tempo la sinistra canterina aveva uno slogan: fate l’amore e non la guerra. Ha cambiato idea: basta libertà sessuale, basta prediche in favore dei gay, del divorzio, dell’aborto, delle coppie aperte. Gli ex comunisti sono passati al moralismo (senza etica, aggiunge qualcuno), alla condanna di ogni licenziosità. Pur di attaccare il centrodestra e il suo leader i compagni fanno comunella con don Sciortino, manipolano l’Avvenire (organo dei vescovi), applaudono alle ramanzine dei parroci contro le escort.

I neopuritani laici ci riserveranno altre sorprese. Li attendiamo al varco. Intanto li osserviamo e costatiamo che non muovono un dito per deplorare quanto sta avvenendo sul fronte fiscale. Il defunto Avvocato Agnelli, secondo indiscrezioni, avrebbe esportato o costituito capitali all’estero sui quali non sarebbero state pagate le tasse. Vero, falso? Verificheremo. È un fatto che se un simile sospetto gravasse sulla testa di Berlusconi, i giornali non si occuperebbero d’altro. Immaginate le dichiarazioni di Franceschini, D’Alema eccetera. Immaginate il putiferio televisivo. Immaginate le articolesse di D’Avanzo su la Repubblica. Immaginate lo sdegno de La Stampa.

Sugli Agnelli che si sarebbero fischiati un paio di miliardi d’euro, nulla. Giusto. Occorre indagare, processare, eventualmente condannare. Questo è lo stile che si impone. Perché invece lo stesso stile non si impone affatto sulle presunte birichinate del premier? Da notare che i soldi sottratti al fisco sono un danno allo Stato, ai cittadini che purtroppo per loro sono costretti a versare puntualmente denaro all’agenzia delle entrate. Fosse dimostrato che l’Avvocato Agnelli non era quel gran signore lodato, imitato, indicato da tutti quale modello, ma un furfante, ci sarebbe almeno da chiedersi perché in Italia i progressisti considerano meno grave rubare al popolo che toccare il sedere a una ragazza cui va a genio farselo toccare. Inoltre bisognerebbe spiegare ai compatrioti come sia possibile prelevare da aziende quotate in Borsa montagne di quattrini neri, portarli in Svizzera senza commettere il reato di falso in bilancio, cioè un furto agli azionisti.

È normale ricevere aiuti dallo Stato, rottamazioni e roba del genere, e per tutto ringraziamento frodare il fisco e spartirsi il bottino con gli eredi? Pare di sì. Normale o quantomeno veniale. Si può fare. Se viceversa vai a letto con una che ci sta vai dritto sul rogo. È la morale della sinistra.

Ne riparleremo.

P.S.: ringrazio l’editore Paolo Berlusconi per l’opportunità che mi ha dato, e il direttore che mi ha preceduto, l’amico Mario Giordano, che mi ha consegnato una redazione in forma e di alto profilo, la prova del buon lavoro da lui svolto. Infine, sono lieto che Mario Cervi, braccio destro di Montanelli, e mio successore nel 1997, rimanga con noi a lottare contro i conformisti d’ogni specie.

Ed ecco la risposta de: il Fatto

Feltri. Uahahahahahah

22 agosto 2009

Scrive Littorio Feltri nell’editoriale d’esordio sul Giornale che è tornato a dirigere dopo averlo lasciato nel dicembre del 1997: “Con il cuore, non me n’ero mai andato”. Uahahahahahah. Feltri se ne andò 12 anni fa dopo che il Cavaliere aveva definito “incidente gravissimo” il suo articolo di prima pagina in cui chiedeva scusa a Di Pietro per averlo calunniato per due anni con le fandonie su inesistenti tangenti di D’Adamo e Pacini Battaglia: “Caro Di Pietro, ti stimavo e non ho cambiato idea”. Seguivano due paginoni in cui il Giornale di Feltri si rimangiava quei due anni di campagne antidipietriste: “Dissolto il grande mistero: non c’è il tesoro di Di Pietro”, “Di Pietro è immacolato”, “dei famigerati miliardi di Pacini” non ha visto una lira, dunque la campagna del Giornale era tutta una “bufala”, una “ciofeca”, una “smarronata” perché la famosa “provvista” da 5 miliardi non è mai esistita. Insomma Feltri confessava di aver raccontato per ben due anni un sacco di balle ai suoi lettori. E lo faceva proprio alla vigilia delle elezioni suppletive nel collegio del Mugello, dove Di Pietro era candidato al Senato per il centrosinistra contro Giuliano Ferrara e Sandro Curzi. In cambio di quella ritrattazione e di un risarcimento di 700 milioni di lire, l’ex pm ritirò le querele sporte contro il Giornale, tutte vinte in partenza. Furente Ferrara, furente Berlusconi. Così Feltri, spintaneamente, se ne andò. Non a nascondersi, come gli sarebbe capitato in qualunque altro paese del mondo. Ma a dirigere altri giornali: il Borghese, il Quotidiano nazionale di Andrea Riffeser (sei mesi prima aveva dichiarato all’Ansa: “Per carità! Conosco Riffeser da una vita e ogni volta che ci vediamo mi dice 'Sarebbe bello se tu venissi con noi', ma tutto finisce lì. Non sto trattando con nessuno. Ma tanto so già che nessuno ci crederà, comunque è così”).

Mentre usciva dal Giornale, Littorio sparò a palle incatenate contro i fratelli Berlusconi: “Provo un certo fastidio: per la causa comune mi sono esposto (alla transazione con Di Pietro, ndr), poi gli altri si sono ritirati e io sono rimasto con la mia faccina e tutti ci hanno sputato sopra. La cosa non ha fatto per niente piacere. Così si rompe un rapporto di fiducia… Mi sono trovato da solo e ho le ferite addosso e il morale a terra” (Ansa,10 novembre 1997). E il Cavaliere gli diede del bugiardo: “Feltri ha detto ultimamente qualche piccola bugia, però è ampiamente scusato” (Ansa, 7 dicembre 1997).

Feltri ora ricorda la sua prima esperienza (dal 1994 al ’97) di direttore del Giornale, “ereditato da Indro Montanelli” e si appella ai “lettori che già furono miei e di Montanelli prima che cedesse a corteggiamenti progressisti”. Uahahahahahah. In realtà Montanelli non cedette ad alcun corteggiamento progressista: rimase l’uomo libero che era sempre stato. E Feltri non ereditò un bel niente: semplicemente prese il suo posto (dopo averlo a lungo negato) quando Berlusconi mise in condizione Montanelli di andarsene perché non “non volevo trasformarmi in una trombetta di Forza Italia” né Il Giornale che aveva fondato “nell’organo di Forza Italia”, come il Cavaliere pretendeva e come Feltri voluttuosamente accettò di fare. Montanelli, lungi dal ritenere Feltri il suo erede, lo disprezzava profondamente. Infatti il 12 aprile 1995 dichiarò al Corriere della sera: “Il Giornale di Feltri confesso che non lo guardo nemmeno, per non avere dispiaceri. Mi sento come un padre che ha un figlio drogato e preferisce non vedere. Comunque, non è la formula ad avere successo, è la posizione: Feltri asseconda il peggio della borghesia italiana. Sfido che trova i clienti!”.

Ma il meglio Littorio lo dà quando racconta che ora “Il Giornale mi si è offerto garantendomi la libertà della quale ho bisogno per lavorare”, perché lui sarebbe “insofferente a qualsiasi ordine di scuderia, disciplina, inquadramento ideologico”, e poi “questo non è mai stato un foglio di partito e il Pdl si illude se pensa lo possa diventare. La famiglia Berlusconi e gli altri azionisti da me si aspettano molti tranne una cosa: che trasformi Il Giornale in un megafono di Berlusconi. Non sarei in grado. Mi manca la stoffa del cortigiano”. Uahahahahahah. Prima di lasciare Il Giornale nel 1997, Feltri chiese provocatoriamente a Berlusconi di venderglielo: “Ho fatto una proposta organica per l'acquisto del Giornale perchè non sono disposto a fare un quotidiano di partito. Se la famiglia Berlusconi la accetterà, bene, altrimenti potrei pensare di lasciare. Rimarrei solo a condizione di poter fare un giornale indipendente e non, come qualcuno evidentemente sperava, l'organo di Forza Italia o del Polo, di cui non mi frega niente. Se un deputato di Forza Italia come Roberto Tortoli chiede le mie dimissioni e nessuno lo smentisce, vuol dire che non è il solo a pensare che Il Giornale debba essere il quotidiano di Forza Italia. Sono stato costretto a questo passo dopo le ultime vicende che hanno umiliato la redazione e rischiano di far sentire al lettore l'esistenza di un cordone ombelicale che lega Il Giornale a Forza Italia. Io invece voglio fare un quotidiano indipendente e lo dimostrerò, quando ne avrò occasione, anche in modo clamoroso” (Ansa, 14 novembre 1997).

Oggi, nella fretta, Feltri dimentica di spiegare come mai a richiamarlo al Giornale sia stato un signore che non possiede nemmeno un’azione del Giornale, cioè il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, scavalcando l’editore, il fratello Paolo, informato come al solito a cose fatte. Se l’è lasciato sfuggire, come se fosse un dettaglio insignificante, lo stesso Littorio l’altra sera nella rassegna di regime di Cortina Incontra: “Il 30 giugno scorso ho incontrato Silvio Berlusconi. Ogni volta che lo vedevo mi chiedeva: ‘Ma quand'è che torna al Giornale?’. E io: ‘Sto bene dove sono’. Ma quel giorno entrò subito nei dettagli, fece proposte concrete e alla fine mi ha convinto”. Materiale interessante per le Authority che dovrebbero vigilare sui conflitto d’interessi, se non fossimo in Italia.

L’ultima parte dell’editoriale feltriano è una grandinata di insulti a Gianni Agnelli (possibile “furfante”, “vero peccatore”) per le ultime rivelazioni sui fondi neri in Svizzera. Una prova di coraggio da vero cuor di leone, visto che l’Avvocato è morto da tempo. Per la verità, che la Fiat e la famiglia Agnelli avessero montagne di soldi all’estero era già emerso nel processo intentato dai giudici di Torino ai vertici Fiat a metà degli anni 90, concluso con la condanna definitiva dell’allora presidente Cesare Romiti per falso in bilancio e finanziamento illecito ai partiti. Ma all’epoca Agnelli era vivo e potente, dunque Feltri e il Giornale difendevano a spada tratta casa Agnelli e attaccavano i giudici che osavano processarla.

Visto che Il Giornale non è l’organo di Forza Italia né, men che meno, il megafono di Berlusconi, Littorio Feltri sul Giornale difende appassionatamente Papi dalle inchieste del gruppo Repubblica-Espresso. Che strano. Nel ’97, lasciando Il Giornale, lo stesso Feltri si profondeva in salamelecchi verso il gruppo Repubblica Espresso e il suo editore Carlo De Benedetti: “Non ho mai litigato con nessuno, tantomeno con De Benedetti, che ho sempre stimato e di cui credo di potermi definire da sempre amico. Quando si sposò, fummo l'unico giornale italiano a pubblicare la sua foto con signora. Ho ottimi rapporti anche… con Carlo Caracciolo e Eugenio Scalfari” (Ansa, 13 novembre 1997). Come passa il tempo.

La chiusa dell’editoriale di oggi è un capolavoro: “I neopuritani laici – scrive Feltri - non muovono un dito per deplorare quanto sta avvenendo sul fronte fiscale” a proposito dei presunti fondi neri di Agnelli in barba al fisco. Invece – aggiunge -“se un simile sospetto gravasse sulla testa di Berlusconi, i giornali non si occuperebbero d’altro”, anche perché “i soldi sottratti al fisco sono un danno allo Stato, ai cittadini che sono costretti a versare puntualmente denaro all’Agenzia delle Entrate”. Uahahahahahah. Il fatto è che un simile sospetto grava eccome sulla testa di Berlusconi, rinviato a giudizio dinanzi al Tribunale di Milano per frode fiscale, falso in bilancio e appropriazione indebita per svariate centinaia di milioni di euro nascosti nei paradisi fiscali. Processo sospeso dal lodo Al Fano. Perché Littorio Feltri, questo campione della libertà di stampa “insofferente a qualsiasi ordine di scuderia, disciplina, inquadramento ideologico”, questo pezzo d’uomo a cui “manca la stoffa del cortigiano” non se ne occupa con una bella inchiesta sul suo Giornale libero e bello? Uahahahahahah.

Chiusa del Blogger: resta la convinzione che in un qualsiasi altro paese del primo mondo Feltri non farebbe più il direttore. Ma l'Italia NON è più un paese del primo mondo.

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