...e dei furfanti e incapaci che la compongono
Guido Rampoldi per La Repubblica
IL CAIRO - «Dove sono i leader arabi? Dove sono? Dove?», grida la donna rivolgendosi alla telecamera, e la sua ira è così fisica che gli occhiali sembrano vibrarle sul naso. La risposta stasera non è difficile, i leader arabi sono al Cairo, in una sala foderata di legno che nell´occasione ricorda un vecchio teatro. Non li si può biasimare se hanno scritto in faccia noia, irritazione, perfino disgusto per questa recita dal titolo "Riunione d´emergenza della Lega araba" che li obbliga a finzioni ormai patetiche.
Molti convenuti sperano che gli israeliani liquidino in fretta Hamas, considerandola un infiltrato iraniano nelle terre sunnite e un focolaio di sovversione; la Lega araba è un defunto ufficialmente in vita perché nessuno sa come seppellirlo; e le ostilità che l´attraversano sono così feroci che non c´è verso di addivenire ad una posizione comune neppure sulla questione palestinese, origine del panarabismo.
Ma queste verità non possono essere dichiarate ufficialmente, pena una perdita di legittimità.
Così la recita cairota si risolverà nei soliti esercizi di futilità diplomatica: un´invocazione al Consiglio di sicurezza (esito scontato: il veto americano bloccherà la risoluzione di condanna di Israele) e un appello alla Svizzera perché promuova un´indagine sul comportamento delle Forze armate israeliane alla luce della Convenzione di Ginevra. Insomma, nulla. «Non possiamo tendere la mano ai palestinesi», dirà il ministro degli Esteri saudita, perché sono divisi. E perché Gaza ha votato Hamas, avrebbe potuto aggiungere.
E la rabbia delle piazze arabe? Le adunate furiose che ci mostrano i telegiornali, mentre si bruciano bandiere con la stella di David e manichini nella veste saudita? Dove sono le masse? Nel pomeriggio la polizia ha sbaragliato in pochi minuti una dimostrazione organizzata dai Fratelli musulmani, non più di un migliaio di persone.
Molte di più sono accorse stanotte davanti all´Hard Rock Cafe, non per dare fuoco ad un simbolo del colonialismo culturale, ma per passarvi il capodanno, festa sconosciuta al calendario islamico. Tra i cairoti che invece sciamano per la Corniche, molti giovani esibiscono il copricapo quest´anno di gran moda, il berretto da baseball, tipico gioco egizio.
Nei ristoranti, nelle discoteche, arabi ed europei salutano l´anno nuovo nello stesso modo, con la stessa felicità obbligatoria, i brindisi, gli schiamazzi, il rock. Otto anni di ansie identitarie, di narrazioni sulle opposte civiltà e le incompatibili culture, le "radici cristiane" e il "mondo musulmano", per ritrovarci a mollo in questo ceto medio globale, indifferenziato e per la gran parte forse indifferente.
Neppure i richiami della foresta a solidarietà di tipo religioso o etnico sembrano fare effetto, se è vero, come sembra, che il tormento di Gaza sconvolge gli egiziani non più di quanto ci colpiscano le sofferenze dei cristiani brutalizzati dall´estremismo induista nel remoto Orissa.
Le rovine di Gaza non saranno allora lo sfondo di una crisi dell´identità araba, cominciata molto prima e solo adesso affiorata? E dove conduce, dove sbucherà? Che una crisi profonda sia in atto, lo conferma Mohamed el Sayed Said, vicedirettore dell´al-Ahram Center for Political and Strategic Studies, forse il miglior centro-studi arabo. L´esito, prevede Said, «al 90 per cento» dipenderà ancora una volta dal modo in cui evolverà il conflitto arabo-israeliano, la storia su cui da quarant´anni si forma la cultura politica araba.
Sarà un processo lungo, non ci sono rivoluzioni dietro l´angolo. Si può essere ottimisti? Si può sperare, ad esempio, in un successo di quelle forze laiche e liberali che sono state le prime vittime, in questi otto anni, dell´effetto congiunto di binladismo, inettitudine americana e ignavia europea?
Forse, dice Said; dopotutto nelle società arabe è generale il consenso verso un´evoluzione democratica. Però i regimi arabi gli sembrano «notevolmente stabili». Così anche il regime egiziano, malgrado in genere gli analisti lo considerino il più pericolante tra i regimi cosiddetti moderati. «La società civile egiziana oggi è debole e il regime è potente: la crisi di Gaza non lo scuoterà. Però potrebbe inasprire il conflitto tra il regime e gli islamisti (i Fratelli musulmani) e diffondere dubbi su Mubarak, sull´efficacia della sua politica».
La residua credibilità di Mubarak forse non precipita alla velocità vertiginosa con cui sale in queste giornate la popolarità del ministro della Difesa israeliano, ma probabilmente è vicina ai minimi storici. Benché famoso per la sua cautela, il raìs ha commesso l´imprudenza di ricevere al Cairo l´israeliana Tzipi Livni alla vigilia dell´offensiva su Gaza: e questo lo espone all´accusa mortale che adesso gli rivolge l´iraniano Ahmadinejad, intelligenza con Israele. Come gli altri capi moderati, come Abu Mazen, come il re giordano, Mubarak ha già perso la battaglia di Gaza. Se Hamas riuscisse a resistere, sarebbe il trionfo dell´estremismo legato ai Fratelli musulmani.
Se invece Israele cogliesse la vittoria, il raìs verrebbe accusato di averla quantomeno facilitata con una politica pavida e irresoluta. Al momento nessuno di questi esiti sembra rappresentare una sfida seria per il poderoso stato di polizia egiziano (mezzo milione di impiegati soltanto negli apparati di sicurezza). Ma un ulteriore lungo incrudelire dello scontro a Gaza accrescerebbe il disagio del regime e del moderatismo arabo.
Signora Mubarak - Copyright Pizzi
Cosa attendersi da Gaza? I primi rapporti dell´americana Human Rights Watch, la più autorevole organizzazione per i diritti umani, suggeriscono che nella Striscia si mostri la stessa sequenza della guerra del Libano, così come HRW la ricostruì in un puntiglioso rapporto contestato sia da Hezbollah (che ne proibì la presentazione a Beirut) sia da Israele (che però, fatto non secondario, ne permise la presentazione).
All´inizio pareva che una delle due parti sparasse sui civili, l´altra su obiettivi militari. Presto gli obiettivi militari neutralizzabili con precisione finirono. Il conflitto proseguì, si affacciò il sospetto che le due parti praticassero lo stesso gioco: entrambi cercavano di rendere la situazione intollerabile alla popolazione avversaria affinché quella si ribellasse al proprio governo e lo costringesse ad accettare le condizioni del nemico.
GazaTutto questo si può chiamare "l´essenza della guerra aerea" oppure definire in termini più precisi e più crudi. Quel che però qui conta è la sproporzione nei rapporti di forza, la differenza tra i danni che possono infliggere gli uni e i danni che riescono a provocare gli altri. Per ogni israeliano ucciso nel 2006 morirono dieci libanesi.
A Gaza il rapporto è decuplicato: uno a cento (secondo l´Autorità palestinese, per un quarto gli uccisi sono donne e bambini). Se ne dovrebbe ricavare che Hamas non potrà che arrendersi. Ma se questo è il calcolo d´Israele, degli americani, dei regimi arabi moderati e di molti europei, potrebbe rivelarsi errato.
Il confine tra Gaza e l´Egitto è una strana groviera. I contrabbandieri, cioè buona parte dei maschi adulti di Rafah, la città egiziana proprio sulla frontiera, hanno scavato nella sabbia dozzine di tunnel che dopo non più di quattrocento passi sbucano dall´altra parte della frontiera, sotto tende o dentro cantine. In genere le gallerie sono tutte uguali, con una bocca larga un metro per un metro che scende in verticale per quattro o cinque.
La maggior parte sono franate sotto le bombe dell´aviazione israeliana: ma i contrabbandieri assicurano che le ripristineranno in tre settimane. E poiché di lì entrano a Gaza i razzi che piovono su Israele, senza che la polizia egiziana possa o voglia intercettarli, ne consegue che i bombardamenti in corso non saranno risolutivi. Hamas non rinuncerà a proclamare la propria vittoria tornando a colpire le città nemiche.
Per evitarlo gli israeliani dovrebbero occupare la Striscia, pagando il prezzo, verosimilmente alto, di combattimenti casa per casa. I palestinesi, un milione e mezzo, per l´85 per cento già profughi (anche due volte, nel 1948 e nel 1967), cercherebbero scampo in Egitto, dove non sono benvenuti. Mubarak ha chiuso il confine. Non vuole prendersi in casa Hamas, ma neppure può massacrare i palestinesi che fuggissero per non finire massacrati a Gaza.
Come interferirà tutto questo con la crisi di identità araba? La percezione della propria debolezza sembra costringere le società arabe a fare i conti con il principio di realtà, vaccino contro il fondamentalismo. Ma l´inconsistenza della Ue non le aiuta affatto a fidarsi dell´Europa. Restano gli americani. Certo non Bush: Obama. Inshallah Obama, gridavano in novembre piccoli cortei di arabi entusiasti: speriamo in Obama.
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