mercoledì, aprile 19, 2006

Il trono è il calcio

Posto da Avvenire

La «tigre» serba Arkan era un ex capo ultras E Benladen andava sempre allo stadio...

Ai dittatori fa bene il calcio


Di Massimiliano Castellani

Né fantapolitica, né fantacalcio: il pallone governa il mondo. Molte repubbliche, compresa la nostra, sono più fondate sul calcio che sul diritto al lavoro e spesso e volentieri i governi si sono formati sul consenso popolare derivato dagli stadi, piuttosto che dall'elettorato. Lo scrittore spagnolo e grande tifoso del Barcellona, Manuel Vasquez Montalban disse che «Berlusconi non sarebbe mai diventato presidente del Consiglio senza Gullit e Van Basten». Non abbiamo la controprova. Quello che è certo invece, ed è documentato anche nell'interessantissimo Diritti in campo (con splendida prefazione di Giorgio Porrà) è che quella coppia di fuoriclasse olandesi servì al Milan per conquistare nel 1989 la prima Coppa dei Campioni dell'era del Cavaliere, battendo i temuti «comunisti» della Steaua di Bucarest. Il giocattolo della famiglia del conducator, Nicolae Ceasescu, una squadra che in pratica era un'appendice dell'esercito romeno, in cui vennero reclutati i migliori giocatori del Paese, che quella Coppa l'avevano conquistata tre anni prima del Milan. Anno 1986, la stagione seguente alla strage dell'Heysel dove persero la vita 39 tifosi della Juventus, uccisi dalla follia cieca degli hoolingans del Liverpool, la Steaua batté il Barcellona. L'eroe della finale fu Helmut Ducadam, portiere «Superman» che parò 4 rigori ai catalani, ma i giorni successivi al trionfo non riuscì a sventare l'ira funesta del «pupillo» del conducator, Nicu Ceasescu (amante e torturatore della ginnasta-prodigio Nadia Comaneci) che lo considerava alla stregua dei «parassiti», banditi dalla dittatura di suo padre, solo per aver accettato il premio della finale vinta: una Aro 4x4. Quel fuoristrada mise in fuorigioco Ducadam, perché abili scagnozzi di Nicu gli fracassarono i ferri del mestiere, le mani. E la sua parabola da quel momento sarebbe stata quella discendente di un portiere inviso al regime e che solo oggi si riaffaccia da un'altra porta, quella del Partito della Nuova Generazione, fondato da Ioan Becali: guarda caso, il nuovo padrone della Steaua. Da una dittatura all'altra, perché il calcio piace ai regimi. A volte poi, impavidi uomini di curva diventano leader rivoluzionari. È il caso di Zeljco Raznjatovic, meglio noto come la «tigre Arkan», condottiero sanguinario della Serbia, ma prima capo-ultrà della Stella Rossa di Belgrado e fondatore del gruppo nazionalista dei Delije, i guardiani dello stadio Maracanà. Le prime spedizioni punitive contro gli ustascia croati e poi in Bosnia, Arkan le ha compiute proprio sperimentando i metodi della guerriglia da stadio e fondando persino una squadra, l'Obilic che resiste alla sua memoria di «criminale di guerra», ucciso in un attentato il 15 gennaio 2000. Eppure per molti giocatori serbi era e resta un mito: Sinisa Mihajlovic chiese alla destreggiante Curva laziale di dedicargli uno striscione alla memoria, prontamente esposto sugli spalti dell'Olimpico: «Onore alla tigre Arkan». Il calcio divide e appassiona gli uomini, anche quelli reputati senza cuore, come l'inafferrabile Benladen che dieci anni fa in un soggiorno a Londra pare che venne contagiato dalla febbre dei «Gunners» ( i cannonieri) dell'Arsenal: in un mese per 4 volte andò a seguirlo dalle tribune di Higbury. Il calcio è una religione delle masse e a volte basta una Coppa del Mondo per illudere il popolo e mantenere in vita anche il peggiore dei governi. Fu il caso di Videla, che nel 1978 grazie alla vittoria mondiale dell'Argentina di Cesar Menotti continuò indisturbato a seviziare un intero Paese; gli stadi di Buenos Aires si trasformarono in campi di concentramento da dove sparirono molti dei 30mila desaparecidos. Ma a volte un pallone, oltre ad essere connivente con genocidi e totalitarismi, riesce anche ad unire ciò che la politica divide e a fare entrare per la prima volta le donne in uno stadio. È accaduto alle donne di quell'Iran che ai Mondiali del '98 in Francia affrontò i «satanici» giocatori statunitensi. Incontro storico e memorab ile (con vittoria iraniana) quanto quello del gennaio scorso in occasione della 24ª Coppa d'Africa fra i nemici giurati amavubi del Rwanda e i simba del Congo, che si sono sfidati in 90 minuti di grande fair play, i quali certo non cancellano gli oltre 4 milioni di morti della loro folle guerra. Venti di guerra sono quelli che ogni domenica sospingono le bandiere tricolori dei tifosi ceceni del Tarek ad affrontare 600 chilometri di viaggio per vedere giocare la loro squadra sul «neutro» di Pyatigorsk. Venti di pace sono invece quelli che anche attraverso un pallone hanno riportato a casa centinaia di bambini-soldato, ostaggio della Ruf (Fronte unitario rivoluzionario) della Sierra Leone. Un gol fondamentale, segnato dal saveriano padre Vittorio Bongiovanni, che in questo momento gira per le strade degli Stati Uniti a caccia di fondi, affinché i bambini della Sierra Leone possano tornare a sorridere su un campo di calcio e non continuare a morire anonimi e rapiti ai loro genitori, sui prati minati della follia adulta.

Daniele Scaglione
Diritti in campo
Ediz. Gruppo Abele. Pagine 104. Euro 10

Nessun commento: