Edmondo Rho per “Panorama”
Un buco nero, la cui profondità è ancora sconosciuta, risucchia i soldi di comuni, province e regioni. Ed è causato dai contratti derivati: il sistema con cui gli enti locali italiani hanno ottenuto denaro dalle banche, spesso dribblando le norme per contenere il disavanzo nella finanza pubblica. Senza rendersi conto che stavano mettendo in cassa una bomba finanziaria a orologeria.
Nei prossimi mesi la bomba potrebbe esplodere. Secondo le stime che circolano sul mercato, le perdite potenziali sui derivati degli enti locali italiani superano 10 miliardi di euro e possono arrivare, in base alle fluttuazioni dei tassi di mercato, oltre i 15 miliardi: l’equivalente di una Finanziaria. «È dinamite: ci aspettiamo che il nuovo governo si muova subito per fare chiarezza e disinnescare situazioni potenzialmente esplosive» avverte Alfonso Scarano, coordinatore del gruppo di lavoro sui derivati dell’Aiaf, l’associazione italiana degli analisti finanziari.
Il comma 383 della Finanziaria 2008 impone agli enti locali di esplicitare le posizioni in derivati, ma «per dare piena attuazione alla norma occorrerebbe un decreto legge» sostiene Scarano. Il problema è che le dimensioni del fenomeno sono enormi, però dal controllo della centrale rischi della Banca d’Italia sfuggono, anche a livello statistico, le grandi banche internazionali.
Che peraltro hanno fatto le operazioni più rilevanti: come il maxiderivato da quasi 1,7 miliardi di euro firmato nel 2005 dal Comune di Milano (allora guidato dal sindaco Gabriele Albertini, ma il contratto era sul tavolo del city manager Giorgio Porta) con quattro banche estere, Deutsche bank, Ubs, Jp Morgan e Depfa bank. Operazione su cui si sono aperte due indagini: una della Corte dei conti e una della procura della Repubblica di Milano. E proprio a palazzo di giustizia, il 7 maggio, presenteranno un esposto due consiglieri comunali, Davide Corritore del Pd e Basilio Rizzo della Lista Fo: l’ipotesi è truffa ai danni della pubblica amministrazione.
«Le banche hanno avuto un guadagno 440 volte superiore a quello indicato in contratto» accusa Corritore, che anticipa a “Panorama” i temi dell’esposto alla procura. «Avevano diritto a una commissione di 0,01 centesimi, in tutto 170 mila euro da dividersi in quattro. Invece le banche hanno guadagnato finora almeno 75 milioni di costi impliciti, come dimostriamo allegando all’esposto i dati ricavati dai terminali Bloomberg». E tutto per un’operazione che secondo Corritore «non si poteva fare, perché non aveva i requisiti di convenienza previsti dalla legge».
Certo, è un’ironia della sorte per le banche internazionali essere messe sul banco degli accusati a Milano da parte di un consigliere comunale, eletto nel 2006, che è un esperto di finanza e derivati. Corritore fu, tra l’altro, negli anni 90 amministratore delegato dei fondi italiani proprio della Deutsche bank, una delle quattro banche coinvolte nel maxi-derivato. «Ne ho parlato per la prima volta in consiglio comunale a ottobre, quando le perdite potenziali erano 120 milioni, ora siamo a 300 milioni» calcola Corritore. «Se c’è stata truffa, bisogna che i giudici ordinino la sospensione dei pagamenti. Il Comune di Milano l’anno prossimo dovrebbe sborsare almeno 15 milioni di euro e poi continuare a pagare per tutta la durata dell’operazione, che è trentennale».
Intanto, a iniziare lo sminamento sui derivati, è già intervenuta la Corte dei conti: la sezione della Lombardia è la più avanti nel lavoro e dovrebbe completare entro l’autunno la mappa del rischio degli enti locali. Non solo, la Corte dei conti lombarda, con la deliberazione 52/2008, ha anche messo il dito nella piaga del contratto tra banche e Comune di Milano, rilevando che «Deutsche bank e Ubs negli ultimi mesi hanno omesso ogni comunicazione al riguardo». «Si tratta di un comportamento che non sembra avere alcuna giustificazione e che deve essere stigmatizzato» afferma la Corte.
Prima dell’indagine della magistratura contabile un altro consigliere comunale milanese, Giancarlo Pagliarini (già Lega Nord, nel frattempo passato con Daniela Santanchè), aveva presentato una mozione per una «ricognizione indipendente» sui derivati. Finora senza avere risposta: l’unico effetto pratico è stato un convegno di studi, svoltosi a dicembre a Palazzo Marino. Come mai?
Gli swap sono strumenti finanziari che dovrebbero avere una funzione di copertura contro un aumento dei tassi di interesse e servono a chi è indebitato a tasso variabile. «Nel caso del Comune di Milano, invece, c’erano dei mutui a tasso fisso e con lo swap si è aperta un’operazione a rischio» accusa Corritore. «In realtà questo maxi-derivato è stato fatto per scaricare le perdite, oltre 100 milioni, di derivati precedenti, stipulati nel 2002 con l’Unicredit».
Questa notizia non viene commentata dall’Unicredit, che peraltro è stata l’unica grande banca italiana a fornire a “Panorama” i dati complessivi dei suoi contratti derivati con gli enti locali. Comunque, il caso di Milano non sembra isolato. Le società di analisi finanziaria hanno scoperto spesso negli enti locali un uso diverso degli swap: «In pratica, sono stati usati come scommesse finanziarie e in questo modo le amministrazioni pubbliche si sono assunte il rischio dell’aumento dei tassi d’interesse» spiega Matteo Trotta, dell’ufficio studi della società veronese Consultique.
Come si è arrivati a fare queste operazioni a rischio? Proviamo a spiegarlo ricordando che in molti casi il problema era già precedente. Gli enti locali che hanno emesso obbligazioni sul mercato (i cosiddetti Boc, buoni ordinari comunali) devono per legge trasformare i piani di rimborso che prevedevano la restituzione dell’intero capitale alla scadenza in un piano d’ammortamento, cioè la restituzione del capitale un po’ per volta. A questo scopo entra in azione il contratto derivato: il comune paga le rate sul piano d’ammortamento alla banca, che a sua volta costituisce un fondo dedicato (il cosiddetto sinking fund) che garantirà la restituzione del capitale a scadenza.
Ma la banca non lavora certo gratis: «Le commissioni implicite, che arrivano al 5 per cento del capitale, rappresentano la remunerazione delle banche» spiega Trotta. Il quale racconta come, in realtà, gli istituti di credito italiani siano «semplici intermediari tra enti locali e grandi banche d’affari internazionali. Così ottengono un guadagno semplice, immediato e una tantum alla firma del contratto. Su un derivato da 250 milioni di euro, abbiamo calcolato che le banche hanno guadagnato 12,5 milioni».
E mentre le banche guadagnano facilmente, le perdite sono a carico dei bilanci degli enti locali, nonché delle imprese finite nella medesima trappola (per queste ultime, nonostante la chiusura di migliaia di contratti, le perdite hanno superato i 5 miliardi di euro). Ma i derivati non avrebbero dovuto proteggere i clienti dall’aumento dei tassi d’interesse? Invece è accaduto il contrario.
La ragione la spiega Nicola Benini, socio fondatore dell’Ifa di Verona, la prima società di consulenza che si è specializzata sui derivati: «Buona parte di questi prodotti non erano di copertura, bensì di trasferimento del rischio verso le imprese e gli enti locali. Tanto è vero che le banche non hanno praticamente rischi sui derivati: l’ha detto anche il direttore generale della Banca d’Italia, Fabrizio Saccomanni, nella sua audizione parlamentare dell’autunno scorso».
Sono pochi, però, gli enti locali che si schierano contro le banche. Secondo l’avvocato Paolo Grassi, dell’associazione Sos utenti, il motivo è che «prima di avviare una causa l’ente locale deve ammettere di essere stato imbrogliato con una scommessa truccata, e questo può aprire la strada ad azioni di responsabilità interna».
In più c’è la scarsa cultura finanziaria degli amministratori locali: Benini definisce i derivati «dei grandi puzzle da smontare. Bisogna fare la procedura contraria a quella d’assemblaggio, smontarli è l’unico modo per capire il rischio insito in questi prodotti d’ingegneria finanziaria assai sofisticati». Per riuscirci «occorrono computer molto potenti e software dedicati per stimare i prezzi e ricostruire i rischi».
Si tratta di trovare i consulenti giusti per smontare i puzzle. Alla procura milanese i magistrati guidati da Francesco Greco, dopo un iniziale sconforto nell’esaminare i complicatissimi contratti derivati sequestrati negli enti locali, sembrano aver trovato il bandolo della matassa. Ora l’inchiesta è affidata al pm Alfredo Robledo.
Anche se c’è un problema di giurisdizione: le banche hanno scelto quella inglese. «E forse si sono fatte male da sole» dice Corritore. «La legge inglese, fin dal 1991, ha vietato i derivati per gli enti locali, poiché non hanno le competenze necessarie. Così, non potendo più giocare in casa, le banche inglesi vanno a fare danni in trasferta. Come gli hooligan del calcio».
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