lunedì, gennaio 14, 2008

Lui non sapeva....



Raramente, ma ogni tanto accade, questi sacchi d'immondizia li prendono. Arrestato Jorge Nestor Fernandez Troccoli, uruguayano: preso a Marina di Camerota
Partecipò all'operazione che sterminò migliaia di oppositori dei regimi latinoamericani. Temo molto il sistema italiano e soprattutto la sua ingolfata giustizia, ma almeno la speranza che questo signore in carcere ci crepi, rimane.

ROMA - Raccontano che nella notte tra il 23 e il 24 dicembre, l'uomo, chino su una sedia della stazione dei carabinieri di Marina di Camerota, dopo aver capito, abbia stretto le sue palpebre di vecchio. Come a voler scacciare uno sciame di fantasmi e le loro urla innocenti, improvvisamente tornate vicine. Pronte, questa volta, ad afferrarlo per sempre. Raccontano ancora che, qualche ora dopo, entrando nell'ufficio matricola del carcere di Regina Coeli, abbia fissato il lugubre corridoio su cui si apre la cella di isolamento in cui da allora è rinchiuso ripetendo una professione di innocenza come fosse una nenia: "Non li ho fatti sparire io. Io non sapevo. Non potevo sapere...".

L'uomo è un cittadino uruguayano con passaporto italiano. Si chiama Jorge Nestor Fernandez Troccoli. E' nato a Montevideo il 20 marzo del 1947. E' uno dei 146 ex militari sudamericani cui oggi la Storia e la giustizia italiana presentano il conto di un orrore contemporaneo chiamato "Condor". La macchina dello sterminio che, tra il 1976 e il 1983, ingoiò in Cile, Brasile, Argentina, Uruguay, Paraguay, Bolivia, Perù, decine di migliaia di oppositori politici (30 mila nella sola Argentina) alle dittature militari del cosiddetto "cono Sud".

Centoquarantasei nomi. Per lo più latitanti. Qualcuno già morto, come Augusto Josè Ramon Ugarte Pinochet e Alfredo Matiauda Stroessner. Qualcuno (pochissimi) già nei penitenziari latinoamericani o statunitensi. Sessantuno argentini. Trentadue uruguayani. Ventidue cileni. Tredici brasiliani. Sette boliviani. Sette paraguaiani. Quattro peruviani. Gli architetti dell'ingranaggio: "Videla Redondo Jorge Rafael, nato a Mercedes il 2 agosto 1925, già residente in avenida Cabildo 639, piano 6, Buenos Aires"; "Massera Emilio Eduardo, nato a Paranà il 19 ottobre 1925, domiciliato in Buenos Aires, avenida Libertador 2423, piso 12"; "Bordaberry Arocena Juan Maria, nato a Montevideo il 17 giugno 1928, ultimo domicilio conosciuto Libertador Lavallejo 1513 Montevideo".... E poi lui, Jorge Nestor Fernandez Troccoli. Uno dei suoi manovali. Ma chi diavolo è poi Jorge Nestor Fernandez Troccoli? E che ci faceva a Marina di Camerota alla vigilia di Natale?

Su 3.500 anime che lo abitano, il comune di Marina di Camerota, provincia di Salerno, di Troccoli ne fa a decine. Un abitante su quattro è nato in Sudamerica da genitori emigrati. Una enclave latinoamericana che affaccia sul Tirreno. Anche l'avvocato Adolfo Scarano fa Troccoli da parte di madre. Conosce Jorge da dodici anni. La notte di Natale ne ha assunto la difesa. Anche lui è nato dall'altra parte dell'Oceano, in Venezuela. E' un professionista garbato, dai modi affabili: "Le dice nulla la storia del "Leone di Caprera"?". Correva l'anno 1880 e in tre si misero in testa l'impossibile. Attraversare l'Atlantico su una goletta di nove metri per consegnare a Giuseppe Garibaldi - il vero "Leone" - l'album con le firme di un'intera generazione di emigrati. I tre erano italiani. Marinai partiti per l'Uruguay e mai tornati. Si chiamavano Vincenzo Fondacaro da Bagnara Calabra, Orlando Grassoni da Ancona, Pietro Troccoli da Marina di Camerota. "Ecco - dice l'avvocato Scarano - Pietro Troccoli è il bisnonno di Jorge". L'impresa riuscì.

Salpato il 3 ottobre 1880 da Montevideo, il "Leone" ormeggiò a Livorno il 9 giugno 1881. Troccoli fu l'unico a resistere alla malaria. A vedersi appuntata sul petto la medaglia d'oro dei Savoia. Il "Leone" fu messo alla fonda nel laghetto di Monza. Troccoli se ne tornò nei cantieri navali di Montevideo e mise al mondo 9 figli. L'Italia, a quanto pare, non attraversò più il cammino della famiglia. Per quasi un secolo. Fino alla notte del 21 dicembre 1977.

Quella sera - documenta la monumentale ordinanza di custodia cautelare cui il procuratore aggiunto di Roma, Giancarlo Capaldo, ha lavorato per dieci anni - a Buenos Aires, in un piccolo appartamento di via Lavalle 1494, Ileana Sara Maria Garcia Ramos de Rossetti, cittadina italiana, e suo marito Edmundo Sabino Rossetti Techeira, italiano come lei e come lei nato a Montevideo, stanno accudendo la piccola Soledad, nata sette mesi prima. Sono studenti lavoratori e militano entrambi nei "Gau" (Gruppi di azione unificata), la resistenza sindacale uruguayana repressa con violenza dalla dittatura militare. Sono riparati in Argentina da un mese perché qui ritengono di poter veder riconosciuta la loro domanda di asilo politico presentata alle Nazioni Unite. Quando bussano alla porta è troppo tardi. Degli uomini armati li picchiano selvaggiamente, li trascinano in strada. Strappano dalle loro mani Soledad (verrà salvata dal portiere dello stabile). Si abbandonano alla devastazione delle poche cose che sono nella casa, dove bivaccheranno nei due giorni successivi, come vuole la prassi della "ratonera", la trappola per topi (attendere l'arrivo di qualche inconsapevole amico per fargli conoscere lo stesso destino).

Ileana ed Emdundo condividono la stessa violenza con Yolanda Iris Casco Ghelpi e suo marito Julio Cesar D'Elia Pallares. Italo-uruguayani come loro. Come loro sindacalisti. Come loro rifugiati a Buenos Aires. In attesa di un bimbo che non vedranno mai, perché dato alla luce in un campo di detenzione e rubato da un alto papavero dei servizi militari. Scompaiono in quegli stessi giorni di vigilia del Natale 1977. Come anche Edgardo Borelli Cattaneo e Raul Gambaro Nunez. Italiani di Montevideo. Sindacalisti dei Gau.
Ileana; Edmundo; Yolanda; Julio; Edgardo; Raul. Nessuno li vedrà mai più. Transitano nel centro di detenzione e tortura di Banfield. Poi, partono per "destinazione sconosciuta".

Nel dicembre del 1977, Jorge Nestor Troccoli ha 30 anni e del bisnonno Pietro ha conservato due sole cose. Il cognome e un'uniforme da marinaio. Perché non lavora in mare, ma a Montevideo, nelle segrete dell'unità SII, l'intelligence del Fusna, i "Fusileros Navales", la marina militare Uruguayana. Ha il grado di tenente e, alla fine del 1977, è il responsabile degli interrogatori condotti da questa unità. Daniel Rey Piuma, all'epoca caporale diciannovenne, ha raccontato di quel buco nero: "Le torture venivano effettuate sia da uomini che da donne. Il mio compito era di prendere le impronte digitali dopo gli interrogatori. I detenuti, uomini e donne, venivano tenuti nudi, incappucciati e legati alla parete da un filo di lana. Periodicamente arrivava un militare e li portava in una stanza speciale. Da quella stanza ho sentito provenire botte, urli, pianti. Ho visto le persone dopo gli interrogatori. Piangevano. Spesso avevano tutte le dita delle mani spezzate". Alla fine degli interrogatori, ciò che separa la vita dalla morte è una sigla che accompagna ciascun nome. "Df" - disposicion final - significa un colpo alla nuca e la sepoltura in qualche fossa comune, coperti da calce viva.

La "destinazione sconosciuta" dei sei di Buenos Aires - Ileana; Edmundo; Yolanda; Julio; Edgardo; Raul - sono le segrete del Fusna. Gli "uffici" di Jorge Nestor Troccoli. Italiano come loro. Il loro destino è "Df". Non sono i soli. Gli accordi che, il 25 novembre del 1975, sono stati stipulati in segreto in Cile tra le allora sette dittature militari del continente (Argentina, Uruguay, Paraguay, Bolivia, Brasile, Cile, Perù) prevedono il sequestro clandestino, lo scambio, e l'eliminazione di massa di tutti gli oppositori politici, ovunque abbiano trovato rifugio nel continente. Il piano si chiama "Condor". Troccoli ne è uno delle centinaia di interpreti. Quando non è nel buco nero di Montevideo è a Buenos Aires, all'Esma, la scuola meccanica dell'Esercito, altra macelleria clandestina. Altro nodo della rete dell'orrore.

L'avvocato Scarano si accende: "Mi spiega lei cosa poteva fare un giovane tenente? Disobbedire forse agli ordini del governo del suo Paese? Certo, Troccoli comandava quell'unità. Certo, interrogava i detenuti. Ma non ha mai torturato nessuno. E quei sei di origini italiane non sa nemmeno chi siano. A meno che non mi si dica che, come pure Jorge ammette, tenere in piedi dei prigionieri accusati di terrorismo, incappucciati, senza cibo e senza acqua, sia tortura. E' tortura forse?".

Troccoli la chiama "politica di sparizione in accordo con l'ordine dell'esecutivo argentino di annichilire la guerriglia". Ne scrive con piglio dottorale nel 1998, quando in Uruguay una legge di amnistia fa ritenere ai generali di essere ormai al sicuro dal sangue del passato. Lo fa con un piccolo libro, "La Ira de Leviatan". Ossia, "Del método de la furia a la busqueda de la paz". Si è congedato nel '92 con il grado di capitano. Si è sposato con una professoressa di inglese. Ha due figli. Frequenta la facoltà di antropologia dell'università di Montevideo, dove si specializza in scienza del comportamento umano. Nel novembre del 2002, ottiene il passaporto italiano, in memoria del coraggio del bisnonno. Dell'antico sangue di Camerota. In Italia - pensa - tutto è cominciato e tutto può finire. In Uruguay, l'aria è cambiata. La legge di amnistia è di fatto svuotata da nuove norme che dichiarano permanente il reato di sequestro di persona e dunque ne decretano la imprescrittibilità.

Finisce sotto inchiesta e ad ottobre scorso fa le valigie. Un volo Montevideo-Malpensa. Un nuovo passaporto italiano da mostrare alla dogana. Un treno per Marina di Camerota, dove lo attendono vecchi amici. Non sa che la piccola Soledad Rossetti è cresciuta. Che, accompagnata dalla nonna, ha chiesto alla Procura di Roma che le dicano finalmente chi ha visto per l'ultima volta sua madre e suo padre. Chi ha scritto accanto al loro nome: "Df". Disposicion final. Natale 1977. Natale 2007. Ci sono voluti trent'anni. E la risposta forse è arrivata. Quell'uomo ha un nome italiano e stamattina, a Roma, quando un tribunale del riesame deciderà se lasciarlo o meno in carcere, non basterà ricordare il coraggio di un bisnonno che sognava Garibaldi e un mondo migliore.

di Carlo Bonini da Repubblica.it

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