lunedì, novembre 15, 2010

Ribaltoni, ribaltini e riporti



Un articolo che spiega piu' di mille saggi tantissimo del carattere italiano. Commenti affidati a penne non eccelse, a persone che magari in questi discorsi ci credono pure, ma che andrebbero confrontati ad altri scribi piu' moderni. Parlare di ribaltone, di volontà popolare, di B statista dimostra di non capire nulla di politica. Il governo non esiste piu' e l'Italia è senza governo da mesi. B statista non lo è mai stato. La sua ideologia postideologica è stata quella di mostrare lo Stato come un nemico proprio in un momento storico di crisi in cui per sopravvivere toccherebbe fare quadrato. Da giorni, questo perché secondo Ostellino magari il conflitto d'interessi non esiste, il titolo Mediaset crolla in borsa. Quando in realtà le fortune borsistiche e quelle politiche dovrebbero procedere divise. Ma Ostellino ama credere alle favole e come lui una parte della cosiddetta intellighenzia italiana un po' superficialotta e tanto, tanto provinciale. Perché che un elettore deluso di sinistra, stufo della DC e della prima repubblica abbia votato Berlusconi credendo davvero alle sue balle dopo anni di instupidimento catodico ci puo' stare. Se pero ci crede in questa maniera un corsivista del Corriere uno qualche domanda sulla lungimiranza dei cosiddetti intelletuali italiani ha il diritto di porsela.


Il ribaltone per favore no

Fonte corsera
La «battaglia delle mozioni», che si combatterà dopo l'approvazione del Patto di stabilità, è il riflesso della crisi del bipolarismo e della frammentazione del quadro politico. Quale ne sia l'esito, chi la vincerà avrà vinto una battaglia, ma l'eventuale nuovo governo, indipendentemente dal colore, perderà la guerra successiva. L'esito dello scontro di mozioni rischia di essere la tomba di un Ordinamento istituzionale ormai inadeguato, che non merita più neppure l'elogio di un epitaffio.
Cova sotto la cenere una questione sociale. Il Sud, che già ora è un focolaio di rivolte - quando, col federalismo fiscale, dovrà farcela, e scoprirà che non ce la fa, con le proprie forze - minaccerà di diventare, per la nostra Repubblica, ciò che è stata l'Algeria per la Quarta repubblica francese, la causa scatenante della sua crisi; il Nord - se scoprirà che il Fondo di perequazione del federalismo solidale altro non sarà che la prosecuzione dell'assistenzialismo al Sud - ripiomberà nella voglia secessionista, che si sommerà alla causa scatenante meridionale nel provocare la crisi.
È già emersa, in tutta evidenza, la questione politico-istituzionale. Che nell'attuale maggioranza prevalga l'istinto di conservazione - la prosecuzione della legislatura fino alla sua fine naturale - e nelle opposizioni lo spirito di conquista (la costituzione di un governo che sostituisca quello in carica) è comprensibile e persino giustificabile. È la politica. Ma non sarebbero, in ogni caso, una soluzione. Il governo in carica sarebbe ancora esposto alle imboscate interne e non riuscirebbe a realizzare il suo programma. Un governo tecnico, o di transizione che lo si chiami, sarebbe un palliativo - che aveva un senso nella Prima repubblica, quando aveva la temporanea funzione di decantare una situazione di crisi fra i partiti anticomunisti di governo, ferma restando la conventio ad escludendumnei confronti del Pci - e sarebbe esposto probabilmente all'accusa di aver tradito il mandato popolare. Tanto meno getterebbe le basi di una stabilizzazione del quadro politico.
L'attuale paralisi del sistema è, però, anche una grande occasione per la classe politica, solo che la sappia cogliere. Berlusconi si comporti da statista, si batta pure per salvare il suo governo, che ha ottenuto alcuni risultati importanti che gli elettori giudicheranno, ma proponga contemporaneamente alle opposizioni di discutere assieme il cattivo stato di salute della Politica e i possibili rimedi. A cominciare dalla (pessima) legge elettorale per finire alle istituzioni, in vista di una loro riforma che consenta a chiunque vada a Palazzo Chigi di governare. Le opposizioni non riducano la domanda di un nuovo esecutivo, che riformi la legge elettorale, solo a un modo per sconfiggere il Cavaliere - dopo tutto, se esse vincessero le elezioni ne godrebbero quanto ne gode (poco) il centrodestra -, ma si convincano che è un pasticcio che non assicura neppure a loro la governabilità. Non c'è più il pericolo, paventato dai costituenti, del ritorno di un duce. Un governo forte non sarebbe l'anticamera di un nuovo autoritarismo, ma di una democrazia compiuta.

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