Pentma vuol dire pietra, ma questo blog è solo un sassolino, come ce ne sono tanti. Forse solo un po' più striato.
lunedì, giugno 30, 2008
domenica, giugno 29, 2008
Magnaccia
Di Pietro: "Abbiamo un capo del governo che fa il magnaccia"
Replica di Bonaiuti: "Linguaggio da osteria". E Ghedini annucia querele
Antonio Di Pietro leader dell'Italia dei valoriROMA - Negli atti del processo napoletano ad Agostino Saccà ci sono 8.400 intercettazioni, i protagonisti sono non solo il premier ma anche altri politici e nomi che pesano e il contenuto è, si dice, ad alto contenuto erotico. Antonio Di Pietro attacca a testa bassa il premier. Tra una trebbiatura e l'altra in quel di Montenero di Bisaccia, ha fatto una conferenza stampa per dire, tra le altre cose: "Le intercettazioni che loro vogliono limitare ci fanno vedere un capo del governo che fa un lavoro più da magnaccia, impegnato a piazzare le veline che parlavano troppo". Replica di Paolo Bonaiuti: "Linguaggio da osteria". Mentre l'avvocato del Cavaliere, Nicolò Ghedini, annuncia querele. A breve giro la nuova risposta del leader dell'Italia dei Valori. "Non non ci lasciamo intimorire".
In serata arriva anche il commento di Bossi che non sembra dare una grossa mano al premier e contribuisce ad abbassare il tono della contesa: "Sono del parere che è meglio che uno si faccia le donne della sinistra che i culattoni - dice il Senatur incalzato dai giornalisti - Ma - aggiunge - bisogna stare attenti quando si hanno delle cariche".
L'uscita di Di Pietro fa pensare che l'ex pm sappia di più e meglio circa le indiscrezioni che girano a Montecitorio e dintorni sulle centinaia di telefonate a contenuto bollente. Di certo la questione preoccupa non poco "Libero", quotidiano notoriamente vicino al premier, che da due giorni titola su quello che ha ribattezzato "il caso gnocca" mettendo le mani avanti: questa roba deve stare lontana dalla politica e guai se sono usate per provocare cataclismi e crisi politiche.
Berlusconi questo lo sa e ingorgo parlamentare a parte - troppi decreti e provvedimenti già assegnati all'esame dell'aula prima della pausa estiva - farà di tutto per accellerare l'approvazione del ddl che limita il ricorso alle intercettazioni e ne vieta la pubblicazione. Lo sa bene Enrico La Loggia, n.2 del gruppo pdl alla Camera: "La pubblicazione indiscriminata di intercettazioni scandalistiche senza alcuna rilevanza penale che abbiamo tutti sotto gli occhi in questi giorni, dimostra che urge una legge che disciplini l'uso dell'intercettazione e che vieti tassativamente la loro pubblicazione. Qualunque ritardo nel disciplinare questa materia porta inevitabilmente ad un imbarbarimento della vita politica ed istituzionale del Paese". Se non ci sarà in fretta una legge chiara ed univoca - aggiunge La Loggia - "il pericolo è quello di cedere alla tentazione di certi giustizialisti di falsare il voto di aprile espresso liberamente dai cittadini".
La replica ufficiale del Cavaliere, invece, è affidata al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Paolo Bonaiuti: "Il linguaggio rozzo e volgare di Di Pietro - dichiara - è al di fuori della politica, riguarda soltanto l'osteria. Ma come può un partito democratico che si definisce la nuova sinistra accettare e seguire questa degenerazione?". Ecco invece le parole di Nicolò Ghedini: "Del tutto evidente la portata portata diffamatoria, che trascende di gran lunga ogni critica politica e per la quale saranno espedite tutte le azioni giudiziarie conseguenti".
Contro Di Pietro e la "casta giudiziaria" si scaglia anche il portavoce di Forza Italia Daniele Capezzone: "I magistrati, ormai perdenti sul piano del consenso dell'opinione pubblica, tentano un disperato e pericoloso colpo di coda finale". Per quello che riguarda poi le affermazioni dell'ex pm, Capezzone dichiara che "ha chiaramente passato il segno". Per il Dc Rotondi è "un insulto gratuito".
A breve giro arriva anche la controreplica del leader dell'Idv. "Come al solito Berlusconi", si legge in una nota, "o tenta di comprare gli avversari, come dimostrano le intercettazioni napoletane, o tenta di intimorirli, minacciandoli di chissà quale danno divino. Noi dell'Italia dei Valori non ci lasciamo intimorire e continuiamo a difendere la dignità del Parlamento in ogni sede".
Anche il Pd è abbastanza critico sulla nuova ondata di intercettazioni. Veltroni e Minniti ieri si sono affrettati a dire che i brani delle telefonate senza rilievo penale devono stare fuori e lontani dai giornali. Però, riflette il prodiano Marco Monaco, "siamo al punto che abbiamo scrupoli nel dire che il contenuto delle intercettazioni fa schifo e vergogna". Tutto ciò è "abbastanza ipocrita".
Replica di Bonaiuti: "Linguaggio da osteria". E Ghedini annucia querele
Antonio Di Pietro leader dell'Italia dei valoriROMA - Negli atti del processo napoletano ad Agostino Saccà ci sono 8.400 intercettazioni, i protagonisti sono non solo il premier ma anche altri politici e nomi che pesano e il contenuto è, si dice, ad alto contenuto erotico. Antonio Di Pietro attacca a testa bassa il premier. Tra una trebbiatura e l'altra in quel di Montenero di Bisaccia, ha fatto una conferenza stampa per dire, tra le altre cose: "Le intercettazioni che loro vogliono limitare ci fanno vedere un capo del governo che fa un lavoro più da magnaccia, impegnato a piazzare le veline che parlavano troppo". Replica di Paolo Bonaiuti: "Linguaggio da osteria". Mentre l'avvocato del Cavaliere, Nicolò Ghedini, annuncia querele. A breve giro la nuova risposta del leader dell'Italia dei Valori. "Non non ci lasciamo intimorire".
In serata arriva anche il commento di Bossi che non sembra dare una grossa mano al premier e contribuisce ad abbassare il tono della contesa: "Sono del parere che è meglio che uno si faccia le donne della sinistra che i culattoni - dice il Senatur incalzato dai giornalisti - Ma - aggiunge - bisogna stare attenti quando si hanno delle cariche".
L'uscita di Di Pietro fa pensare che l'ex pm sappia di più e meglio circa le indiscrezioni che girano a Montecitorio e dintorni sulle centinaia di telefonate a contenuto bollente. Di certo la questione preoccupa non poco "Libero", quotidiano notoriamente vicino al premier, che da due giorni titola su quello che ha ribattezzato "il caso gnocca" mettendo le mani avanti: questa roba deve stare lontana dalla politica e guai se sono usate per provocare cataclismi e crisi politiche.
Berlusconi questo lo sa e ingorgo parlamentare a parte - troppi decreti e provvedimenti già assegnati all'esame dell'aula prima della pausa estiva - farà di tutto per accellerare l'approvazione del ddl che limita il ricorso alle intercettazioni e ne vieta la pubblicazione. Lo sa bene Enrico La Loggia, n.2 del gruppo pdl alla Camera: "La pubblicazione indiscriminata di intercettazioni scandalistiche senza alcuna rilevanza penale che abbiamo tutti sotto gli occhi in questi giorni, dimostra che urge una legge che disciplini l'uso dell'intercettazione e che vieti tassativamente la loro pubblicazione. Qualunque ritardo nel disciplinare questa materia porta inevitabilmente ad un imbarbarimento della vita politica ed istituzionale del Paese". Se non ci sarà in fretta una legge chiara ed univoca - aggiunge La Loggia - "il pericolo è quello di cedere alla tentazione di certi giustizialisti di falsare il voto di aprile espresso liberamente dai cittadini".
La replica ufficiale del Cavaliere, invece, è affidata al sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Paolo Bonaiuti: "Il linguaggio rozzo e volgare di Di Pietro - dichiara - è al di fuori della politica, riguarda soltanto l'osteria. Ma come può un partito democratico che si definisce la nuova sinistra accettare e seguire questa degenerazione?". Ecco invece le parole di Nicolò Ghedini: "Del tutto evidente la portata portata diffamatoria, che trascende di gran lunga ogni critica politica e per la quale saranno espedite tutte le azioni giudiziarie conseguenti".
Contro Di Pietro e la "casta giudiziaria" si scaglia anche il portavoce di Forza Italia Daniele Capezzone: "I magistrati, ormai perdenti sul piano del consenso dell'opinione pubblica, tentano un disperato e pericoloso colpo di coda finale". Per quello che riguarda poi le affermazioni dell'ex pm, Capezzone dichiara che "ha chiaramente passato il segno". Per il Dc Rotondi è "un insulto gratuito".
A breve giro arriva anche la controreplica del leader dell'Idv. "Come al solito Berlusconi", si legge in una nota, "o tenta di comprare gli avversari, come dimostrano le intercettazioni napoletane, o tenta di intimorirli, minacciandoli di chissà quale danno divino. Noi dell'Italia dei Valori non ci lasciamo intimorire e continuiamo a difendere la dignità del Parlamento in ogni sede".
Anche il Pd è abbastanza critico sulla nuova ondata di intercettazioni. Veltroni e Minniti ieri si sono affrettati a dire che i brani delle telefonate senza rilievo penale devono stare fuori e lontani dai giornali. Però, riflette il prodiano Marco Monaco, "siamo al punto che abbiamo scrupoli nel dire che il contenuto delle intercettazioni fa schifo e vergogna". Tutto ciò è "abbastanza ipocrita".
Il legislatore impazzito
da Internazionale.it
In Italia si è sempre pensato che i problemi si risolvessero a suon di leggi. Il risultato è che ce ne sono troppe, spesso inutili e contraddittorie, scrive Gerhard Mumelter.
La legislazione italiana somiglia alle highland scozzesi: è un luogo paludoso e nebbioso. Nessuno sa esattamente quante siano le leggi della repubblica: forse addirittura 50mila, come suggerisce il giurista Michele Ainis.
In Italia si è sempre pensato che i problemi si risolvessero a colpi di legge, varando norme spesso incomprensibili e inutili che introducono reati come la "dispersione delle ceneri non autorizzata".
Leggi riscritte, corrette o parzialmente modificate, che prevedono sanzioni "di cui al decreto legislativo 1 agosto 2003, n. 259, come modificato dall'articolo 2, comma 136, del decreto legge 3 ottobre 2006, n. 262, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2006, n. 286".
In Italia raramente le leggi vengono scritte per il bene comune. Non sono varate per prevenire, ma per porre rimedio ai problemi. Servono alla casta o ai gruppi di potere, e spesso sono pasticci nati da compromessi o da esigenze populiste. Molte esistono solo sulla carta.
Tra le cause principali di questa situazione c'è l'incompetenza dei legislatori: un dilettantismo viziato da ideologie, astuzie, interessi, meccanismi autoreferenziali e improvvisazioni. Molte leggi nascono nel clima emotivo provocato dalle tragedie.
Un rom ubriaco uccide quattro persone? Si approva subito una legge, per accorgersi – pochi giorni dopo – che non può funzionare. D'estate si moltiplicano gli incendi? Si risponde con una norma, per constatare poi che i comuni non inseriscono le aree bruciate nell'apposito catasto. Fatta la legge, si trova l'inganno: le pene fino a tre anni vengono ignorate; poi ci sono sconti, benefici, domiciliari, affidamento ai servizi sociali, semilibertà, prescrizione…
Per legiferare su problemi sensibili, il rituale prevede la creazione del nemico di turno: il tifoso violento, il rom stupratore, la maga ingannatrice, il musulmano sospetto. Una prova lampante è la legislazione sull'immigrazione. In assenza di una politica organica, per anni i governi di sinistra e di destra si sono affidati alla prassi del foglio di via e delle sanatorie.
Ora, con le prigioni piene e 1.200 posti nei cpt, s'inventa il reato di immigrazione illegale, applicabile a oltre un milione di extracomunitari. Chi li ha fatti entrare? La risposta viene dal capo della polizia, Antonio Manganelli: "In Italia c'è un indulto quotidiano".
Lo stesso stato che per anni ha chiuso un occhio sulla presenza di immigrati irregolari, ora si presenta come garante della sicurezza. E corre ai ripari con misure di facciata. Così si conferma una regola non scritta: non è la realtà che conta ma la sua "percezione".
È ovvio che regolarizzare le badanti aiuterebbe la legalità e l'economia, ma la parola sanatoria "non fa parte del vocabolario" del ministro Maroni. Come dire: sappiamo che esistono, ma facciamo finta di non vederle.
Un altro stratagemma sperimentato con successo è quello di far passare provvedimenti tutt'altro che improrogabili con leggi d'urgenza, come è accaduto con la clausola salva-premier infilata nel pacchetto sicurezza. Infine c'è la legge spettacolo: la manovra da 35 miliardi varata in nove minuti e mezzo, come ha sottolineato la stampa piena di ammirazione. Dimenticando un piccolo dettaglio: la metà di quelle norme era ancora da scrivere. Lex dubia non obligat.
GERHARD MUMELTER è il corrispondente dall'Italia del quotidiano austriaco Der Standard.
venerdì, giugno 27, 2008
Chi ha ragione?
COMMISSIONE UE: SCHEDATURE IMPRONTE ROM CONTRO DIRITTO COMUNITARIO…
(Adnkronos/Aki) - Gli Stati membri dell'Unione europea non possono prendere misure di schedatura o prelievo di informazioni biometriche come impronte digitali per singoli gruppi nazionali o etnici. Lo ha detto Pietro Petrucci, uno dei portavoce della Commissione europea. Petrucci si è rifiutato di commentare direttamente l'annuncio lanciato dal ministro dell'Interno Roberto Maroni di una banca dati con le impronte digitali dei rom. "Si tratta solo di un annuncio -ha detto- e noi non commentiamo annunci. Parliamo solo quando siamo di fronte a un fatto concreto, a un atto giuridico dello Stato membro".
Tuttavia, di fronte alla domanda dei giornalisti se sia in generale compatibile con le norme Ue contro la discriminazione e i pari diritti dei cittadini comunitari che uno Stato membro schedi le impronte dei soli rom, Petrucci ha risposto chiaramente: "no". Il portavoce ha spiegato inoltre che il governo italiano dovrà notificare la norma a Bruxelles una volta che il decreto, passati i due mesi di rito, sarà convertito in legge. Petrucci ha comunque aggiunto che "non è mai successo finora in uno Stato membro" che si schedino le impronte di un singolo gruppo.
2 - IMPRONTE AI BAMBINI IMMIGRATI PREVISTE DA REGOLAMENTO UE…
(Adnkronos) - La proposta del ministro dell'Interno Roberto Maroni di prendere le impronte digitali ai bambini dei campi nomadi, nell'ambito delle misure per la sicurezza, ha fatto piovere sul titolare del Viminale le critiche del Garante della Privacy, dell'Unicef, della Caritas, della Cgil, della sinistra e dell'Ue. Maroni ha respinto le critiche spiegando come la sua proposta si concretizzerebbe in un censimento e non in una schedatura. E soprattutto ha invitato quanti lo hanno criticato e continuano a farlo ad informarsi prima di attaccare a testa bassa. Ed a ragione, perche' proprio un recente regolamento dell'Unione europea in tema di immigrazione, il 380 del 18 aprile di quest'anno prevede espressamente il ricorso agli 'identificatori biometrici', le impronte digitali, appunto: "il rilevamento delle impronte digitali -si legge nella norma comunitaria- e' obbligatorio a partire dall'eta' di sei anni".
Secondo le nuove regole che modificano il regolamento n. 1030 del 2002 per l'istituzione di un modello uniforme per i permessi di soggiorno, gli elementi biometrici contenuti nei permessi di soggiorno possono essere usati al fine di verificare l'autenticita' del documento e l'identita' del titolare "attraverso elementi comparativi direttamente disponibili quando la legislazione nazionale richiede la presentazione del permesso di soggiorno".
Il modello uniforme per i permessi di soggiorno "comprende un supporto di memorizzazione contenente l'immagine del volto e le immagini delle due impronte digitali del titolare, entrambe in formato interoperativo. I dati sono protetti e il supporto di memorizzazione e' dotato di capacita' sufficiente per garantire l'integrita', l'autenticita' e la riservatezza dei dati". Secondo il nuovo regolamento Ue gli Stati membri rilevano identificatori biometrici comprendenti l'immagine del volto e due impronte digitali di cittadini di Paesi terzi. La procedura, recita il regolamento, "e' stabilita' conformemente alla prassi nazionale dello Stato membro interessato e nel rispetto delle norme di garanzia previste dalla convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali e dalla convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo".
"Il rilevamento delle impronte digitali – prosegue l'articolo 4-ter del nuovo regolamento U e- e' obbligatorio a partire dall'eta' di sei anni". Ovviamente, le persone alle quali e' impossibile, per motivi fisici, prendere le impronte digitali sono esentate dall'obbligo di rilevamento.
Per adeguarsi alle norme sul rilevamento delle impronte digitali, i Paesi aderenti all'Ue hanno tre anni di tempo, mentre per quel che riguarda la fotografia come principale identificatore biometrico i tempi tecnici fissati dall'Ue per l'adeguamento alle nuove regole sono stati fissati in due anni. Naturalmente, l'attuazione del nuovo regolamento non inficia la validita' dei permessi di soggiorno gia' rilasciati, "salvo decisione contraria dello Stato membro interessato".
Il permesso di soggiorno comprendente gli identificatori biometrici, si legge tra l'altro nel regolamento Ue, sara' prodotto come documento separato (nel formato Id1 o Id 2) e utilizzera' le prescrizioni tecniche stabilite nei documenti Icao sui visti a lettura ottica o sui documenti di viaggio a lettura ottica (carte).
Come supporto di memorizzazione e' utilizzato un microprocessore. Gli Stati membri, viene rilevato nel regolamento Ue, possono memorizzare dai in questo microprocessore o inserire nel permesso di soggiorno un'interfaccia duale o un microprocessore a contatto separato inseriti sul retro della carta, che pero' "sono destinati ad usi nazionali e non devono in nessun modo interferire con il microprocessore".
L'inserimento di identificatori biometrici, si legge nelle considerazioni del Consiglio dell'Ue che precede il testo del nuovo regolamento, "costituisce una tappa importante verso l'utilizzazione di nuovi elementi che consentano di creare un legame piu' sicuro tra il permesso di soggiorno e il suo titolare, fornendo in tal modo un notevole contributo alla protezione del permesso di soggiorno contro l'uso fraudolento".
Quando un giornale non sa di cosa parla
Non si capisce a che titolo dare il Nobel per la pace alla Betancourt. L'Unità semplicemente non sa di cosa scrive. Forse dovrebbe rivedere la carriera politica della ex candidata presidenziale colombiana, sempre francamente di destra e abbastanza trasparente fino al rapimento compiuto per una sua incredibile leggerezza. Che sia liberata, ma Nobel proprio no. Informatevi ogni tanto.
L'Unità: Nobel per la pace a Ingrid Betancourt
Da sei anni e chissà quanti giorni alle 5 di ogni mattina la madre di Ingrid Betancourt parla per mezz’ora alla figlia attraverso una radio diversa da ogni altra: accoglie le voci di padri, mogli e dei prigionieri delle Farc. Raccontano piccole cose della vita normale. Gli amici che salutano. Come va la scuola. Notizie tristi quando non è possibile tacere, ma Ingrid non ha saputo dalla madre che il padre era morto poco dopo il sequestro. Yolanda Pulecio de Betancourt aveva supplicato le Farc di liberarla per il funerale. Silenzio. Qualche capo Farc deve averla informata chissà come, chissà quando.
Sono quattro giorni che Yolanda Pulecio de Betancourt racconta alla figlia la novità. «Un giornale italiano ti ha proposto per il Nobel. All’appello dell’Unità, giornale fondato da Antonio Gramsci, rispondono migliaia di persone. Non solo dall’Italia: Spagna, Europa perfino dall’Amazzonia. Forse la tua vita sta cambiando… ».
Per una giusta causa è nato un comitato promotore bipartisan alla Camera dei Deputati. Primo firmatario Fabio Evangelisti, Italia dei valori: «È il primo mattone e un progetto ambizioso, su cui vogliamo coinvolgere la politica, l'associazionismo e i cittadini». Molte decine le firme raccolte tra i parlamentari, in testa Pd e Idv, seguiti dai colleghi del Pdl, Udc e Lega.
Intanto la regione Toscana sta per annunciare un comitato di premi Nobel per concretizzare la proposta dell’Unità. Perché il Nobel per la Pace non è una medaglia alla vanità ma un viatico per liberare a chi non si arrende al tornaconto. Proposta che raccoglie la reazione di protagonisti consapevoli che la distrazione di tutti può spegnere le voci non distratte. Sarebbe viva senza il Nobel per la Pace Aung San Suu Ky, prigioniera nella sua casa in Birmania, anima della democrazia che non si è spenta e spaventa i militari consolando la speranza alla gente? E Rigoberta Menchu e Perez Esquivel? Ogni giorno centinaia di lettori e non lettori firmano l’appello. Potranno i carcerieri resistere alla pressione che si allarga? Lo sapremo. Qualcosa - strana coincidenza - improvvisamente comincia a muoversi.
giovedì, giugno 26, 2008
mercoledì, giugno 25, 2008
Romanzo criminale
Enrico de Pedis
La banda della Magliana è uno dei casi più oscuri dell'Italia del dopoguerra. Un buco nero da cui potrebbero uscire molte risposte anche su quello che questa povera Italia è diventata.
Dalla Magliana ai salotti buoni romanzo criminale di una banda
GIANCARLO DE CATALDO per la Repubblica
BISOGNA sempre fare una robusta tara, quando si parla di Banda della Magliana: con l'andar del tempo, la dimensione di questo gruppo criminale ha assunto contorni di leggenda. Piccoli delinquentelli cani sciolti si appropriano con disinvoltura di quarti di nobiltà criminale millantando legami inesistenti con la Banda. E zelanti sbirri accrescono il prestigio di arresti periferici collegando arbitrariamente il ladro di turno alla ormai mitica Banda. La "voce" di rapporti fra De Pedis e il Vaticano riemersa prepotentemente in questi giorni, non è una novità in senso assoluto: anche se, almeno sino al maxiprocesso del 1996, niente di serio era mai trapelato. E' verosimile un così prolungato silenzio, anche da parte dei "pentiti"?
Non avevano forse accusato altre figure eccellenti (qualcuno ritrattando, qualcun altro, come Antonio Mancini, confermando senza mai smentirsi)? Se sapevano, perché hanno taciuto su Emanuela?
Il dato di partenza, se considerato come ipotesi "di contesto", appare comunque verosimile. A parte il dettaglio della sepoltura in terra consacrata di un uomo che, quando fu assassinato, chiamavano "Il Presidente" della malavita, che De Pedis e l'ala "testaccina" da lui capeggiata godessero di ottime entrature, è verità storicamente accertata. Non altrettanto certo è che si possa attribuire un'analoga capacità di manovra all'intera Banda della Magliana.
Anche qui vanno sfatati alcuni resistenti luoghi comuni. Come associazione criminale, la Banda della Magliana nacque per aggregazione di "batterie" di giovani delinquenti di periferia. Si strutturò come vera e propria banda reinvestendo nel traffico di eroina e di cocaina i proventi di un tragico sequestro di persona. Impose la propria egemonia sulla città di Roma grazie a un uso sapiente e chirurgico della violenza, e, da un certo punto in avanti, fu apertamente "aiutata" a progredire. Sottovalutazione della pericolosità, distrazione delle forze dell'ordine, impegnate nella spasmodica caccia ai terroristi, soprattutto "rossi", l'abilità manovriera di alcuni boss assicurarono alla Banda una rete di complicità che, sia pure per un breve periodo, equivalse a una patente di impunità.
Ma, attenzione: non tutti i componenti della Banda, e non sempre, poterono godere di uguale libertà di manovra. Secondo una consolidata legge della malavita - e il crimine organizzato non fa eccezione - da un certo momento in avanti si procedette ciascuno per sé. Invidie e rancori esplosero fra l'anima "proletaria" e borgatara e quella più compromessa con pericolosi compagni di strada come mafiosi, massoni deviati, terroristi, grand commis dalle oscure frequentazioni. D'altronde, era inevitabile che fra gente che sognava una villetta all'Infernetto e un negozio di parrucchiera per la sua compagna e uno come Renatino De Pedis che ostentava atteggiamenti e look da gran signore, si finisse ai ferri corti. Per intenderci: per cercare la prigione di Moro fu coinvolta l'intera banda, ma a sparare a Roberto Rosone, il vice di Calvi all'Ambrosiano, Danilo Abbruciati ci andò da solo, e senza informare gli altri. Proprio per questo, d'altronde, ipotizzare che la scomparsa di Emanuela Orlandi sia un affare "tout court" della Magliana è azzardato: perché, in quell'anno 1983, la storia personale di De Pedis aveva già preso un'altra strada.
Il suo coinvolgimento nella scomparsa di Emanuela potrebbe però trovare, stando ai si dice di questi giorni, una spiegazione in chiave di politica, interna o internazionale. Il ricatto al Vaticano, l'ombra di Marcinkus, i maledetti (viene da dire: diabolici) soldi dello Ior, l'esecuzione sotto il Ponte dei Frati Neri, i missili Exocet, il sicario turco che invoca la Madonna di Fatima... Un gioco enorme anche per gente pronta a tutto, che, negli anni a venire, avremmo imparato ad assimilare non alla genìa dei criminali, ma a quella degli imprenditori "abili e spregiudicati". Uno scenario tanto tragico quanto affascinante. Uno scenario che l'ostinato "riserbo" mantenuto in tutti questi anni dalle gerarchie ecclesiastiche ha decisamente complicato. Le ex spie dell'Est, però, smentiscono categoricamente. D'accordo, le smentite dei professionisti della menzogna lasciano il tempo che trovano. Ma è impossibile non tenerne conto, non foss'altro per smentire le smentite.
Nel corso degli anni, altre "piste" si sono accavallate. Qualcuno era innamorato follemente di Emanuela e se l'è portata via. Qualcun altro è intervenuto impiantando un ricatto politico su una vicenda di tutt'altro genere. La Banda della Magliana, o chi diceva di agire a suo nome, o semplicemente sfruttava la propria autorevolezza criminale, si è prestato al gioco. Sta di fatto che qualunque ipotesi rimanda, drammaticamente, al Vaticano e ai suoi silenzi. I verbali che circolano, ha osservato il giudice Lupacchini, che di questa storia ne sa forse più di chiunque altro, conterrebbero almeno una grave imprecisione temporale. Staremo a vedere. Può sembrare una frase fatta, ma è così che funzionano - o dovrebbero funzionare - le cose nell'ambito della giustizia. Soltanto il tempo potrà fornire le risposte. Il tempo dell'inchiesta giudiziaria: che è lento, meditato, scandito da regole che da un lato impongono verifiche puntuali, addirittura ossessive, della credibilità di testimoni e imputati, dall'altro assoggettano ogni dichiarazione alle strettoie del regime processuale. In vicende di questo genere ci si rende acutamente conto di come il tempo della giustizia e quello, convulso e frenetico, dell'informazione, corrano a due velocità inconciliabili.
Tutti gli addetti ai lavori, in questi giorni, sono benissimo a conoscenza di alcune verità elementari. Non è affatto garantito che tutti i verbali diventino "prova" in un dibattimento. Non è nemmeno certo che, alla fine, un processo debba necessariamente essere celebrato. E chiunque faccia questo mestiere, d'altronde, sa quanto sottile sia il discrimine fra verità e calunnia, e quanto sia arduo, a volte, individuarlo: solo pochi anni fa un "superteste" annunciò bombe e stragi e sui giornali si parlò di golpe imminente. Poi si venne a sapere che il superteste era screditato, e gli stessi giornali definirono il golpe "una bufala". Era il marzo 1992. E non era una bufala. Di lì a poco avrebbero ucciso Lima, Falcone, Borsellino, e fatto saltare in aria gli Uffizi e San Giorgio al Velabro, oscurato i centralini del Viminale, cercato di coinvolgere il Presidente della Repubblica in uno scandalo finanziario.
I nuovi sviluppi del caso Orlandi ci costringono, una volta di più, a riaprire la partita con la storia criminale d'Italia. Una storia segnata da una continuità impressionante di rapporti fra settori deviati delle istituzioni e criminalità organizzata, fra servitori infedeli dello Stato e terroristi, fra uomini in grigio e coppole e lupare. Una lunga catena di agevolazioni, depistaggi, affari gestiti in comune. Con costanti pressoché obbligate: lo scambio di favori, l'occultamento delle prove, il patto per tacere segreti inconfessabili. Da qui, anche da qui, l'esito deludente di processi che si annunciavano clamorosi e che si sono trasformati in altrettante débacle per la giustizia: anche dietro l'omicidio Pecorelli c'era la Magliana. Tutti assolti. Andreotti baciò Riina. Tutti assolti (o prescritti). Calvi fu "assistito" a Londra dagli usurai di Campo dei Fiori. Tutti assolti.
Speriamo che anche questa volta non finisca allo stesso modo.
La banda della Magliana è uno dei casi più oscuri dell'Italia del dopoguerra. Un buco nero da cui potrebbero uscire molte risposte anche su quello che questa povera Italia è diventata.
Dalla Magliana ai salotti buoni romanzo criminale di una banda
GIANCARLO DE CATALDO per la Repubblica
BISOGNA sempre fare una robusta tara, quando si parla di Banda della Magliana: con l'andar del tempo, la dimensione di questo gruppo criminale ha assunto contorni di leggenda. Piccoli delinquentelli cani sciolti si appropriano con disinvoltura di quarti di nobiltà criminale millantando legami inesistenti con la Banda. E zelanti sbirri accrescono il prestigio di arresti periferici collegando arbitrariamente il ladro di turno alla ormai mitica Banda. La "voce" di rapporti fra De Pedis e il Vaticano riemersa prepotentemente in questi giorni, non è una novità in senso assoluto: anche se, almeno sino al maxiprocesso del 1996, niente di serio era mai trapelato. E' verosimile un così prolungato silenzio, anche da parte dei "pentiti"?
Non avevano forse accusato altre figure eccellenti (qualcuno ritrattando, qualcun altro, come Antonio Mancini, confermando senza mai smentirsi)? Se sapevano, perché hanno taciuto su Emanuela?
Il dato di partenza, se considerato come ipotesi "di contesto", appare comunque verosimile. A parte il dettaglio della sepoltura in terra consacrata di un uomo che, quando fu assassinato, chiamavano "Il Presidente" della malavita, che De Pedis e l'ala "testaccina" da lui capeggiata godessero di ottime entrature, è verità storicamente accertata. Non altrettanto certo è che si possa attribuire un'analoga capacità di manovra all'intera Banda della Magliana.
Anche qui vanno sfatati alcuni resistenti luoghi comuni. Come associazione criminale, la Banda della Magliana nacque per aggregazione di "batterie" di giovani delinquenti di periferia. Si strutturò come vera e propria banda reinvestendo nel traffico di eroina e di cocaina i proventi di un tragico sequestro di persona. Impose la propria egemonia sulla città di Roma grazie a un uso sapiente e chirurgico della violenza, e, da un certo punto in avanti, fu apertamente "aiutata" a progredire. Sottovalutazione della pericolosità, distrazione delle forze dell'ordine, impegnate nella spasmodica caccia ai terroristi, soprattutto "rossi", l'abilità manovriera di alcuni boss assicurarono alla Banda una rete di complicità che, sia pure per un breve periodo, equivalse a una patente di impunità.
Ma, attenzione: non tutti i componenti della Banda, e non sempre, poterono godere di uguale libertà di manovra. Secondo una consolidata legge della malavita - e il crimine organizzato non fa eccezione - da un certo momento in avanti si procedette ciascuno per sé. Invidie e rancori esplosero fra l'anima "proletaria" e borgatara e quella più compromessa con pericolosi compagni di strada come mafiosi, massoni deviati, terroristi, grand commis dalle oscure frequentazioni. D'altronde, era inevitabile che fra gente che sognava una villetta all'Infernetto e un negozio di parrucchiera per la sua compagna e uno come Renatino De Pedis che ostentava atteggiamenti e look da gran signore, si finisse ai ferri corti. Per intenderci: per cercare la prigione di Moro fu coinvolta l'intera banda, ma a sparare a Roberto Rosone, il vice di Calvi all'Ambrosiano, Danilo Abbruciati ci andò da solo, e senza informare gli altri. Proprio per questo, d'altronde, ipotizzare che la scomparsa di Emanuela Orlandi sia un affare "tout court" della Magliana è azzardato: perché, in quell'anno 1983, la storia personale di De Pedis aveva già preso un'altra strada.
Il suo coinvolgimento nella scomparsa di Emanuela potrebbe però trovare, stando ai si dice di questi giorni, una spiegazione in chiave di politica, interna o internazionale. Il ricatto al Vaticano, l'ombra di Marcinkus, i maledetti (viene da dire: diabolici) soldi dello Ior, l'esecuzione sotto il Ponte dei Frati Neri, i missili Exocet, il sicario turco che invoca la Madonna di Fatima... Un gioco enorme anche per gente pronta a tutto, che, negli anni a venire, avremmo imparato ad assimilare non alla genìa dei criminali, ma a quella degli imprenditori "abili e spregiudicati". Uno scenario tanto tragico quanto affascinante. Uno scenario che l'ostinato "riserbo" mantenuto in tutti questi anni dalle gerarchie ecclesiastiche ha decisamente complicato. Le ex spie dell'Est, però, smentiscono categoricamente. D'accordo, le smentite dei professionisti della menzogna lasciano il tempo che trovano. Ma è impossibile non tenerne conto, non foss'altro per smentire le smentite.
Nel corso degli anni, altre "piste" si sono accavallate. Qualcuno era innamorato follemente di Emanuela e se l'è portata via. Qualcun altro è intervenuto impiantando un ricatto politico su una vicenda di tutt'altro genere. La Banda della Magliana, o chi diceva di agire a suo nome, o semplicemente sfruttava la propria autorevolezza criminale, si è prestato al gioco. Sta di fatto che qualunque ipotesi rimanda, drammaticamente, al Vaticano e ai suoi silenzi. I verbali che circolano, ha osservato il giudice Lupacchini, che di questa storia ne sa forse più di chiunque altro, conterrebbero almeno una grave imprecisione temporale. Staremo a vedere. Può sembrare una frase fatta, ma è così che funzionano - o dovrebbero funzionare - le cose nell'ambito della giustizia. Soltanto il tempo potrà fornire le risposte. Il tempo dell'inchiesta giudiziaria: che è lento, meditato, scandito da regole che da un lato impongono verifiche puntuali, addirittura ossessive, della credibilità di testimoni e imputati, dall'altro assoggettano ogni dichiarazione alle strettoie del regime processuale. In vicende di questo genere ci si rende acutamente conto di come il tempo della giustizia e quello, convulso e frenetico, dell'informazione, corrano a due velocità inconciliabili.
Tutti gli addetti ai lavori, in questi giorni, sono benissimo a conoscenza di alcune verità elementari. Non è affatto garantito che tutti i verbali diventino "prova" in un dibattimento. Non è nemmeno certo che, alla fine, un processo debba necessariamente essere celebrato. E chiunque faccia questo mestiere, d'altronde, sa quanto sottile sia il discrimine fra verità e calunnia, e quanto sia arduo, a volte, individuarlo: solo pochi anni fa un "superteste" annunciò bombe e stragi e sui giornali si parlò di golpe imminente. Poi si venne a sapere che il superteste era screditato, e gli stessi giornali definirono il golpe "una bufala". Era il marzo 1992. E non era una bufala. Di lì a poco avrebbero ucciso Lima, Falcone, Borsellino, e fatto saltare in aria gli Uffizi e San Giorgio al Velabro, oscurato i centralini del Viminale, cercato di coinvolgere il Presidente della Repubblica in uno scandalo finanziario.
I nuovi sviluppi del caso Orlandi ci costringono, una volta di più, a riaprire la partita con la storia criminale d'Italia. Una storia segnata da una continuità impressionante di rapporti fra settori deviati delle istituzioni e criminalità organizzata, fra servitori infedeli dello Stato e terroristi, fra uomini in grigio e coppole e lupare. Una lunga catena di agevolazioni, depistaggi, affari gestiti in comune. Con costanti pressoché obbligate: lo scambio di favori, l'occultamento delle prove, il patto per tacere segreti inconfessabili. Da qui, anche da qui, l'esito deludente di processi che si annunciavano clamorosi e che si sono trasformati in altrettante débacle per la giustizia: anche dietro l'omicidio Pecorelli c'era la Magliana. Tutti assolti. Andreotti baciò Riina. Tutti assolti (o prescritti). Calvi fu "assistito" a Londra dagli usurai di Campo dei Fiori. Tutti assolti.
Speriamo che anche questa volta non finisca allo stesso modo.
Un "cazzaro" in galera
Questa è la storia di un truffatore come ce ne sono tanti che è stato beccato negli Stati Uniti. Si farà del carcere, non come sarebbe accaduto se lo avessero preso in quella repubblica delle banane che è l'Italia di Berlusconi.
Mario Calabresi per la Repubblica
Dopo cinque anni di lussi, feste, aerei privati, panfili, amicizie potenti e un amore hollywoodiano, la favola americana di Raffaello Follieri, nato 29 anni fa a San Giovanni Rotondo - il paese dove è sepolto Padre Pio - si è conclusa ieri quando l´Fbi lo ha portato in manette nel Tribunale federale di Manhattan.
Incriminato per associazione a delinquere finalizzata alla truffa, trasferimento illecito di denaro e riciclaggio, il ragazzo italiano che aveva fatto credere a New York e ai Clinton di essere il direttore finanziario del Vaticano ora rischia 225 anni di prigione. Per la libertà condizionata, il giudica ha fissato una cauzione di 21 milioni di dollari.
È una storia che ha tutti le caratteristiche classiche e che ricorda i film in cui Totò cercava di vendere agli americani la Fontana di Trevi: in questo caso però non si trattava di beni antichi ma delle proprietà della Chiesa cattolica negli Stati Uniti di cui Follieri millantava di essere il rappresentante. E non stupisce che il primo ad avere sospetti sia stato proprio un italoamericano: Andrew Cuomo, procuratore generale di New York, che da mesi lo aveva messo nel mirino.
Da cinque anni il jet set di Manhattan si era abituato alla presenza di questo ragazzo belloccio, fidanzato con l´attrice Anne Hathaway - 24 anni, famosa per essere stata la protagonista del film «Il diavolo veste Prada» - che faceva una vita da nababbo. Appartamento alla Trump Tower sulla Quinta Strada, 37mila dollari d´affitto al mese; ufficio su Park Avenue; vacanze e viaggi con l´aereo privato; un uomo di scorta sempre alle sue spalle; uno yacht di 40 metri ai Caraibi; un appartamento di 750 metri quadrati, che si sviluppava tra il 46esimo e 47esimo piano, comprato all´Olympic Tower, il palazzo costruito da Onassis accanto alla cattedrale di St. Patrick e con vista su Central Park; un tenore di vita incredibile, perfino il lusso delle visite a domicilio di un dottore londinese le cui trasferte a New York costavano ben 30 mila dollari l´una.
A costruire questa favola Follieri ci era riuscito sostenendo di essere in America per incarico del cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato della Santa Sede dal 1991 al 2006, e facendosi accompagnare dal giovane nipote dell´alto prelato, l´ingegnere Andrea Sodano. Millantando il legame con il Vaticano, Follieri sosteneva di essere in grado di acquistare, ad un prezzo di favore, gli immobili che alcune diocesi Usa erano state costrette a mettere in vendita per pagare gli indennizzi dovuti allo scandalo dei preti pedofili.
Chi entrava nel suo ufficio restava colpito prima di tutto dalla foto di Raffaello e della fidanzata con Papa Giovanni Paolo II, l´Fbi invece è stata più impressionata dal fatto che avesse negli armadi molti abiti talari, vesti cardinalizie, che servivano a far fare il salto di qualità a due monsignori da lui stipendiati che si portava dietro ogni volta che doveva trattare un affare. Nelle carte dell´Fbi si racconta anche che aveva pagato un impiegato amministrativo del Vaticano per avere informazioni, contatti, numeri telefonici di alti esponenti delle gerarchie ecclesiatiche e per poter organizzare visite private nei giardini e ai musei vaticani per i suoi ospiti, così da impressionarli del suo potere.
Grazie a questa messa in scena aveva stretto un rapporto con Douglas Band, un collaboratore di Bill Clinton, e con il suo aiuto aveva avvicinato molti dei facoltosi amici dell´ex presidente, a partire dal miliardario californiano Ronald Burkle. È a lui che avrebbe proposto l´acquisto di proprietà della Chiesa a prezzo stracciato, ottenendo un investimento di 55 milioni di dollari, finiti però nelle tasche di Follieri, per finanziare la sua vita principesca. Ai Clinton aveva promesso grandi donazioni - mai arrivate - alla fondazione di Bill e il voto di molti cattolici per Hillary.
Per un lungo tempo raccontò che grazie ai suoi contatti vaticani era in grado di comprare proprietà immobiliari della Chiesa in disuso per lanciarle sul mercato, ma quando si cominciò a capire che non era vero cambiò cavallo e prima disse che stava per comprare una rete televisiva cattolica, poi di aver avuto il mandato da una delle organizzazioni finanziarie della Chiesa di vendere l´oro, infine si presentava come direttore finanziario del Vaticano.
Ora il castello di menzogne è crollato. Nel documento dell´Fbi si racconta che un giornalista «di una ben nota testata italiana» ha aiutato Follieri a «organizzare incontri con personalità a Roma» e che sarebbe stato suo ospite nell´appartamento newyorkese. Del reporter non si conosce il nome, così come sono ancora senza volto i due «monsignori». Per lungo tempo Follieri sembrava godere di legami ad altissimo livello, tanto che lo scorso anno ebbe ospite a cena l´allora ministro degli Esteri Massimo D´Alema.
La prima a rendersi conto che la favola era finita è stata, con incredibile tempismo, la fidanzata. Due settimane fa erano ancora insieme alle sfilate a New York, ma Anne Hathaway lo ha lasciato nel weekend tra il 14 e il 15 giugno, alla vigilia della serata di lancio del suo ultimo film, «Get smart», e prima di diventare la testimonial del nuovo profumo di Lancome. Lei aveva capito che l´aria era davvero cambiata quando si era accorta che lui aveva smesso di pagare l´affitto alla Trump Tower.
Molti lo ricordano due anni fa al gala della Niaf (National Italian American Foundation) dove venne premiato per motivi umanitari - grazie alla sua fondazione che prometteva di vaccinare bambini latinoamericani - seduto al tavolo insieme al padre, alla madre, alla fidanzata e a due cardinali, di cui nessuno però ricorda i nomi.
Una vita violenta
Sabrina Minardi e l'ex marito Bruno Giordano
IL BOSS E LA BELLA TRA AEREI PRIVATI E REVOLVERATE, FESTE E COCAINA
Valentina Errante e Cristiana Mangani per “Il Messaggero”
Sabrina Minardi ed Enrico De Pedis, storia di amore e di coltelli. Si conoscono e lei ne diventa l’amante per qualche anno. Sono anni di delitti, di violenze, ma anche di conoscenze altolocate, di benessere e denaro a fiumi. Sabrina si è appena separata dal “bomber” della Lazio, Bruno Giordano, dal quale ha avuto una figlia, con una vita sfortunata quanto la sua. Proprio un paio di mesi fa la ragazza, Valentina, è in auto con Stefano Lucidi, il giovane che ha travolto e ucciso due sue coetanei in motorino sulla Nomentana, Alessio Giuliani e la sua fidanzata Flaminia Giordani. Stava litigando con lei perché voleva lasciarlo. Sabrina ha parlato spesso della figlia, forse ha fatto anche intuire che vorrebbe cercare il modo per aiutarla.
Ma sono i due anni con De Pedis il momento di gloria. «Roberto Calvi (il banchiere dell’Ambrosiano, il cui cadavere venne rinvenuto sotto il ponte dei Frati Neri a Londra) mi metteva a disposizione un aereo privato per viaggiare», ha raccontato la donna lasciando intravedere i rapporti dell’alta finanza con la banda della Magliana. Gli stessi rapporti dei quali ha parlato anche il figlio del banchiere ucciso.
È proprio il legame con la Minardi, però, che costa caro a De Pedis, perché, nel dicembre 1984, viene catturato grazie al pedinamento della donna. Le manette ai polsi di “Renatino” scattano nell'appartamento di Via Vittorini 63 dove lei viveva. Negli anni successivi Minardi attraversa periodi segnati dalla cocaina. E oggi si trova in una comunità di recupero.
De Pedis è il boss, uno dei capi del sodalizio criminale più famoso e misterioso degli anni ’80. Viene ucciso a colpi di pistola in un agguato a Roma, vicino Campo de’ Fiori. Un regolamento di conti tra compari, viene definito.
Però, al contrario degli altri suoi complici, a De Pedis venne riconosciuto uno spirito imprenditoriale fuori del comune. Mentre gli altri sperperavano il bottino nei vizi, “Renatino” investiva in attività legali, imprese edili, ristoranti, boutique. Al punto che è arrivato il giorno in cui non ha più voluto dividere “la stecca”: uno smacco da far pagare caro. Così, nell’89, quando esce dal carcere Edoardo Toscano detto “Operaietto” il suo obiettivo è cercare De Pedis per ammazzarlo. Ma “Renatino” gioca d’anticipo e lo fa uccidere dai suoi killer personali (Ciletto e Rufetto), dopo averlo fatto cadere in una imboscata. È il 2 febbraio del ’90 quando gli assassini, assoldati per l’occasione, lo raggiungono fuori da una bottega di via del Pellegrino e lo freddano.
Criminale in vita, un’autorità da morto: al boss della Magliana va il riconoscimento di essere seppellito nella Basilica di Sant’Apollinare tra le alte sfere del clero e la nobiltà patrizia. «Ha fatto tante offerte - giustifica la decisione il rettore - L’ha deciso il cardinal Poletti». E su quelle spoglie nessuna indagine potrà mai essere fatta, perché la Basilica è territorio del Vaticano.
IL BOSS E LA BELLA TRA AEREI PRIVATI E REVOLVERATE, FESTE E COCAINA
Valentina Errante e Cristiana Mangani per “Il Messaggero”
Sabrina Minardi ed Enrico De Pedis, storia di amore e di coltelli. Si conoscono e lei ne diventa l’amante per qualche anno. Sono anni di delitti, di violenze, ma anche di conoscenze altolocate, di benessere e denaro a fiumi. Sabrina si è appena separata dal “bomber” della Lazio, Bruno Giordano, dal quale ha avuto una figlia, con una vita sfortunata quanto la sua. Proprio un paio di mesi fa la ragazza, Valentina, è in auto con Stefano Lucidi, il giovane che ha travolto e ucciso due sue coetanei in motorino sulla Nomentana, Alessio Giuliani e la sua fidanzata Flaminia Giordani. Stava litigando con lei perché voleva lasciarlo. Sabrina ha parlato spesso della figlia, forse ha fatto anche intuire che vorrebbe cercare il modo per aiutarla.
Ma sono i due anni con De Pedis il momento di gloria. «Roberto Calvi (il banchiere dell’Ambrosiano, il cui cadavere venne rinvenuto sotto il ponte dei Frati Neri a Londra) mi metteva a disposizione un aereo privato per viaggiare», ha raccontato la donna lasciando intravedere i rapporti dell’alta finanza con la banda della Magliana. Gli stessi rapporti dei quali ha parlato anche il figlio del banchiere ucciso.
È proprio il legame con la Minardi, però, che costa caro a De Pedis, perché, nel dicembre 1984, viene catturato grazie al pedinamento della donna. Le manette ai polsi di “Renatino” scattano nell'appartamento di Via Vittorini 63 dove lei viveva. Negli anni successivi Minardi attraversa periodi segnati dalla cocaina. E oggi si trova in una comunità di recupero.
De Pedis è il boss, uno dei capi del sodalizio criminale più famoso e misterioso degli anni ’80. Viene ucciso a colpi di pistola in un agguato a Roma, vicino Campo de’ Fiori. Un regolamento di conti tra compari, viene definito.
Però, al contrario degli altri suoi complici, a De Pedis venne riconosciuto uno spirito imprenditoriale fuori del comune. Mentre gli altri sperperavano il bottino nei vizi, “Renatino” investiva in attività legali, imprese edili, ristoranti, boutique. Al punto che è arrivato il giorno in cui non ha più voluto dividere “la stecca”: uno smacco da far pagare caro. Così, nell’89, quando esce dal carcere Edoardo Toscano detto “Operaietto” il suo obiettivo è cercare De Pedis per ammazzarlo. Ma “Renatino” gioca d’anticipo e lo fa uccidere dai suoi killer personali (Ciletto e Rufetto), dopo averlo fatto cadere in una imboscata. È il 2 febbraio del ’90 quando gli assassini, assoldati per l’occasione, lo raggiungono fuori da una bottega di via del Pellegrino e lo freddano.
Criminale in vita, un’autorità da morto: al boss della Magliana va il riconoscimento di essere seppellito nella Basilica di Sant’Apollinare tra le alte sfere del clero e la nobiltà patrizia. «Ha fatto tante offerte - giustifica la decisione il rettore - L’ha deciso il cardinal Poletti». E su quelle spoglie nessuna indagine potrà mai essere fatta, perché la Basilica è territorio del Vaticano.
martedì, giugno 24, 2008
Un uomo (un po' sfigato) al comando
Titanic
da repubblica.it
ROMA - Via libera del Senato al decreto sicurezza. L'Aula di Palazzo Madama approva il testo che stabilisce l'uso dell'esercito nelle città e contiene la contestata norma "salva-premier" (166 voti favorevoli, 123 contrari e 1 astrenuto). Quell'emendamento che prevede il blocco dei processi per i reati che non creano allarme sociale commessi fino al giugno 2002, tra cui quello Mills in cui è imputato il premier Silvio Berlusconi, per dare priorità a quelli per fatti gravi e gravissimi e in violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. L'Udc, l'Idv e Pd hanno votato contro. "Siamo contrari all'aggravante di clandestinità e alla norma che sospende i processi. Ritiratela da questo decreto. Non è questione di antiberlusconismo, il dialogo deve avere principi e regole condivisi" dice Anna Finocchiaro, presidente del gruppo dei Democratici. L'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che non ha partecipato al voto, attacca "quelle lobby politico-eversive che sono l'Associazione nazionale magistrati e il Consiglio superiore della magistratura". Rivendica l'approvazione del decreto Maurizio Gasparri: "Votiamo con orgoglio un provvedimento che dà più sicurezza gli italiani e più trasparenza alla giustizia" dice il capogruppo del Pdl. Di tutt'altro avviso il partito di Antonio Di Pietro i cui senatori parlano di un ritorno della P2, alzano cartelli con su scritto "E' tornato il caimano". Il testo passa ora passa all'esame della Camera.
Castelli: "Sì alla tregua". "Rinunciare all'emendamento blocca-processi per avere una tregua subito". L'ex ministro della Giustizia, Roberto Castelli accoglie così la proposta dell'Anm che mira a stoppare il duro scontro con il governo sull'emendamento "salva-premier" ("no alle sospensioni, sì all'immunità" dice il presidente Cascini a Repubblica). Un'apertura che resta isolata. E così, dopo il voto, Castelli getta la spugna: "La mia era solo una proposta di buon senso, mi sembrava che potesse essere utile per svelenire il clima. Ma mi pare che non sia andata". E la stessa Anm precisa: "Espressioni come offerta di tregua al governo o ad altri ordini dello stato non appartengono al lessico della associazione che non si pone in contrapposizione a nessuna altra istituzione".
Alfano. Dal suo canto il ministro della Giustizia Angelino Alfano, annuncia che sarà portato al prossimo cdm l'annunciato disegno di legge sulla "sospensione dei processi per le più alte cariche dello Stato. "Le legittime polemiche non blocchino il processo riformatore, che in questa legislatura ha concrete chances di realizzazione" dice il Guardasigilli.
Csm: E' possibile che giovedì dal Csm arrivi la prima risposta alle accuse che Berlusconi, ha rivolto ai giudici milanesi del processo Mills. Per quel giorno infatti la prima commissione potrebbe votare il testo della risoluzione 'a tutela' delle toghe. "E' possibile ma non sicuro", si limita a dire il presidente Antonio Patrono, togato di Magistratura Indipendente. E anche la Commissione internazione dei giuristi si fa sentire, chiedendo al governo "di mettere fine alle interferenze nei confronti dell'indipendenza della magistratura".
La crisi di Al Quaeda
Un bellissimo articolo di Carlo Bonini
Carlo Bonini “la Repubblica”
Lorda del sangue dei suoi nemici, ma soprattutto di quello dei suoi fratelli, Al Qaeda sta perdendo la battaglia delle idee e della fede. Il suo autunno è cominciato. La crepa aperta dalle prime dissociazioni dei suoi chierici può farsi voragine, modificando per sempre la natura dell´organizzazione così come abbiamo imparato a conoscerla, la sua stessa capacità di penetrazione e contagio nelle madrasse d´Oriente, nelle enclave musulmane d´Occidente: Inghilterra, Spagna, Italia, Francia. Le cose stanno davvero così?
Iniziata ai primi di giugno come un soffio, come l´affilata intuizione di Peter Bergen e Paul Cruickshank, eccellenti ricercatori del «Center for Law and Security» della New York University, il cui lavoro ha trovato spazio sulla copertina del settimanale The Nation, l´affermazione si è fatta tempesta in sole tre settimane. Conquistando la stampa inglese (Economist, The Indipendent), e mettendo a rumore i circoli dell´intelligence americana ed europea.
Nel suo ufficio alla «New America Foundation», think-tank di Washington, Bergen usa l´indicativo: «È così. Al Qaeda sta perdendo la sua base di consenso popolare, perché ha cominciato a perdere la sua battaglia religiosa. Le dissociazioni di Noman Benotman, ex leader del Gruppo Islamico combattente libico, e, soprattutto, di Sayed Imam Al-Sharif, alias "dottor Fadl", sono più di un indizio. Sono la parte emersa dello scollamento di quella base religiosa che, nel tempo, ha dato agli occhi dell´Islam legittimità alla dottrina jihadista declinata da Osama Bin Laden e Ayman Al-Zawahiri. Sono il segnale di un´implosione in atto che spiega altrimenti quanto certa propaganda occidentale vorrebbe, al contrario, attribuire ai successi della politica della Casa Bianca in Medio Oriente».
È storia degli ultimi mesi. Dal chiuso di una prigione egiziana in cui è rinchiuso, Sayed Imam Al-Sharif, mentore di Al Zawahiri negli anni della sua formazione, amico personale di Osama Bin Laden dal tempo del suo esilio in Sudan (1993), ma soprattutto custode delle ragioni del radicalismo islamico e levatore di quel grumo di violenza religiosa che prenderà solo più tardi il nome e la forma di Al Qaeda, licenzia un libro, «Razionalizzazione della Jihad», che viene pubblicato a puntate da un quotidiano del Cairo. A sollecitare il suo lavoro - scrive lui stesso - sono «le gravi violazioni della legge della Sharia avvenute negli ultimi anni per mano di chi, nel nome della Jihad, ha ucciso a centinaia musulmani e non, compresi donne e bambini».
La Sharia - argomenta il chierico - è stata tradita dall´apostasia della dottrina del Takfir, la legge che muove gli assassini di Al Qaeda, in nome di una interpretazione che si pretende esclusiva del Corano. La stessa che attribuisce al Profeta ciò che il Profeta mai ha detto, come giustificare il mezzo con il fine, dunque anche la morte dell´infedele attraverso quella del fratello musulmano. «Al-Zawahiri e il suo emiro Bin Laden sono immorali», conclude il "dottore" nel novembre dello scorso anno, in un´intervista al quotidiano Al-Hayat.
La profondità della ferita aperta da Sayed Imam Al-Sharif è nella reazione furibonda e al tempo stesso preoccupata di Al-Zawahiri. L´ex discepolo, in un messaggio registrato del dicembre scorso, liquida il suo ex maestro come traditore e ventriloquo del regime di Hosni Mubarak, gli dedica nel marzo scorso un libro - «L´Esonero» - che ne dovrebbe confutare le tesi, liquidandole come «il tentativo disperato di chi prova a contrapporsi alla marea montante del risveglio della Jihad». La verità è che le parole di Al-Sharif hanno lavorato e lavorano in profondità nell´epicentro così come ai margini di quella struttura nuova e allargata di Al-Qaeda che, all´indomani dell´invasione dell´Afghanistan, aveva scommesso proprio sullo spontaneismo jihadista e sull´attribuzione in franchising del suo marchio quali fattori di successo della strategia del Terrore.
Del resto, l´esempio di Al-Sharif non resta il solo. Noman Benotman, ex leader del Gruppo Islamico combattente libico, rompe con Al Qaeda e, nel 2007, convince ciò che resta della sua organizzazione a chiudere accordi di pace con il regime del colonnello Gheddafi. E questo mentre i pochi sensori demoscopici ciclicamente utilizzati per misurare la febbre del radicalismo nei paesi musulmani (quelli del prestigioso centro americano Pew Global Attitudes project) fanno registrare significativi smottamenti nel sostegno dichiarato ad Al Qaeda: dal 73 al 39 per cento della popolazione in Libano, dal 27 al 15 in Indonesia, dal 40 al 13 in Marocco.
Peter Bergen si fa serio. «Tutto questo, evidentemente, non autorizza a pensare o anche soltanto immaginare che la minaccia di Al Qaeda sia attenuata. Anzi, se proprio vogliamo immaginare a breve un esito di questo processo, che è e resta di medio-lungo periodo, dobbiamo sapere che un´organizzazione che sta perdendo la battaglia, come diremmo in Occidente, per vincere i cuori e le menti del suo popolo, è un´organizzazione capace di qualunque atrocità. O, comunque, spinta alla ricerca di un prossimo obiettivo privilegiato in grado di ricompattare i suoi militanti. E a pensare a Israele non credo si sbagli».
Ma che scherziamo che non ce le metto?
Le pagelle di Vittorio Zucconi ai giocatori di Italia-Spagna
LE PAGELLE DEL TIFOSO RASSEGNATO
Buffon (30). Il voto in decimi, da elementari, non basta più per colui che ci ha portato fuori dal gorgo del primo girone e ci aveva anche rimesso in sesto il conto dei rigori. E se qualcuno osa dire che ha avuto sedere su quell'errore salvato dal palo, si ricordi che non si videro mai portieri professionisti o giocatori professionali di poker sfigati.
Grosso (7). Toni è riuscito a portargli via dai piedi il sogno di rifare il numero di Germania 2006. Continua a giocare come se la palla fosse una testata atomica innescata, della quale liberarsi appena si passa la metà del campo per sganciarla su qualche altro malcapitato, ma che cavolo volete da uno che è stato buttato via da Moratti come la centesima cicca fumata a San Siro?
Panucci (7). Ha fatto l'unico gol italiano facendo rotolare il pallone nella porta romena e non ha dato occasioni contro la Spagna all'arbitro per appioppargli un rigore. Lippi lo aveva sepolto due anni fa, ma il vecchio Lazzarone un giretto fuori dalla grotta se l'è fatto. Buon per lui. Ora torna Lippi e lui torna nella grotta.
Chiellini (10). Tu es Petrus e su questa pietra potremmo rifondare Santa Madre Difesa oggi a pezzi. Non sarà Bramante o Brunelleschi, ma i muri li sa innalzare. In mancanza dei grandi architetti, viva i muratori.
Zambrotta (5). Uno spettro si aggira sulla destra della difesa italiana. Perché Donadoni non ha convocato Zambrotta al suo posto?
De Rossi (6). Alla fine era "dead midfielder walking", un centrocampista che camminava morto, di fatica. Aveva due occhiaie che avrebbero indotto qualsiasi madre a sbattergli almeno tre uova imponendogli di andare subito a confessarsi e non frugare più in Internet.
Perrotta (s. r). Senza ruolo. Quando è così, è come un filo elettrico senza la corrente, che deve sempre essere qualche elettricista a passargli, altrimenti è una corda qualsiasi, un volenteroso senza grandi piedi e fantasia.
Aquilani (2+). Per incoraggiamento. A un certo punto, quello che alla Rai fa la parte di Ginger Rogers per il Fred Astaire telecronista e si sente in dovere di parlare anche quando non ha niente da dire, cioè quasi sempre, lo ho chiamato, per felix lapsus, "Aquiloni". L'unico giudizio inteligente della serata. Era leggero e malinconico proprio come una cometa di carta tirata da un bambino su un prato di periferia.
Cassano (m. p. c.). Ma per carità. Se deve giocare così, in questo modo irritante e sempre con la stessa mossetta che hanno capito anche al Roccadisotto FC, meglio che si ributti sulle orecchiette e la burrata. Almeno si diverte lui. Una lode ai telecronisti che almeno ci hanno risparmiato il refrain del "talento di Bari Vecchia".
Ambrosini (s. v.). Senza voto. Bocciarlo sarebbe ingiusto. Promuoverlo sarebbe troppo generoso. Anche lui, come Perrotta, è abituato a fare la parte del baritono alla Scala lasciando ai tenori le romanze strappa applausi. Ieri cantava nella corale "Amici della Lirica" di Valenza Po, mica si poteva pretendere che diventasse di colpo Pavarotti "all'alba vincerooooo".
Toni (-1). Introduciamo la novità algebrica dei numeri negativi, perché, oltre a non combinare una beata mazza, ha anche impedito a un altro (Grosso) di fare gol, dunque si becca un "meno uno", tentando una sgangherata bicicletta al volo che sarebbe forse riuscita a un giocatore agilissimo altro un metro e cinquanta. Non a un pinocchione che sembrava avere tutte le parti del corpo montate male da un papà che non ha letto le istruzioni del mobile comperato all'Ikea.
Di Natale (4). Speriamo nella Befana, perché questo Natale ha portato soltanto carbone, e non Doni, al suo ammiratore, che ora perderà pure il posto. Atroce il suo rigore.
Camoranesi (7). Ha fatto casino, ha rimescolato un po' la morta gora del centrocampo italiano, ha impegnato il portiere Casillas, ha addirittura - miracolo - saltato qualche difensore. Sembrava un giocatore professionista di calcio in mezzo alla nazionale dell'ufficio paghe e contributi.
Del Piero (10+). No, adesso, seriamente. Deponete i flabelli, i turiboli, le fruste e la cassetta di acqua minerale. Che senso ha portarsi dietro uno così per farlo giocare un tempo e dieci minuti? Giusto per arruffianarsi i trombons del cosidetto giornalismo sportivo quelli del "come si fa a lasciare a casa Del Piero"? O ci credi, e lo fai giocare, o lo lasci in pace a conversare con i canarini.
Donadoni (6). Vigliacchi a tutti coloro che ora oseranno infierire o dare i suoi riccioletti in pasto alla plebe per salvarsi la poltrona. Gli auguro di trovare un lavoro meno ingrato di quello che gli fu buttato adosso dai sepolcri imbiancati del pallone italiano quando volevano farci credere di essere tornati tutti vergini.
Arbitro (8). Gli arbitri italiani sbagliano come tutti gli altri, dalla Lapponia all'Uzbekhistan, ma una cosa dovrebbero imparare i nostri: mettere un tappo ai loro zufoletti e lasciar giocare di più. 'Scolta Collina. Non tutte le cadute sono falli e se si zufola per ogni spinta e ogni ruzzolone si incoraggiano soltanto i "casqueurs" di professione e si fa fare esercizio ai massaggiatori e ai barellieri. I giocatori sono come i cani, capiscono in fretta che cosa permette, e non permette, di fare il padrone e non è un caso se nelle Euro aree di rigore si sono viste molto meno scene da "ratto delle Sabine" di quelle che vediamo nei campionati italiani. I cagnolini avevano capito che sarebbe stato inutile.
LE PAGELLE DEL TIFOSO RASSEGNATO
Buffon (30). Il voto in decimi, da elementari, non basta più per colui che ci ha portato fuori dal gorgo del primo girone e ci aveva anche rimesso in sesto il conto dei rigori. E se qualcuno osa dire che ha avuto sedere su quell'errore salvato dal palo, si ricordi che non si videro mai portieri professionisti o giocatori professionali di poker sfigati.
Grosso (7). Toni è riuscito a portargli via dai piedi il sogno di rifare il numero di Germania 2006. Continua a giocare come se la palla fosse una testata atomica innescata, della quale liberarsi appena si passa la metà del campo per sganciarla su qualche altro malcapitato, ma che cavolo volete da uno che è stato buttato via da Moratti come la centesima cicca fumata a San Siro?
Panucci (7). Ha fatto l'unico gol italiano facendo rotolare il pallone nella porta romena e non ha dato occasioni contro la Spagna all'arbitro per appioppargli un rigore. Lippi lo aveva sepolto due anni fa, ma il vecchio Lazzarone un giretto fuori dalla grotta se l'è fatto. Buon per lui. Ora torna Lippi e lui torna nella grotta.
Chiellini (10). Tu es Petrus e su questa pietra potremmo rifondare Santa Madre Difesa oggi a pezzi. Non sarà Bramante o Brunelleschi, ma i muri li sa innalzare. In mancanza dei grandi architetti, viva i muratori.
Zambrotta (5). Uno spettro si aggira sulla destra della difesa italiana. Perché Donadoni non ha convocato Zambrotta al suo posto?
De Rossi (6). Alla fine era "dead midfielder walking", un centrocampista che camminava morto, di fatica. Aveva due occhiaie che avrebbero indotto qualsiasi madre a sbattergli almeno tre uova imponendogli di andare subito a confessarsi e non frugare più in Internet.
Perrotta (s. r). Senza ruolo. Quando è così, è come un filo elettrico senza la corrente, che deve sempre essere qualche elettricista a passargli, altrimenti è una corda qualsiasi, un volenteroso senza grandi piedi e fantasia.
Aquilani (2+). Per incoraggiamento. A un certo punto, quello che alla Rai fa la parte di Ginger Rogers per il Fred Astaire telecronista e si sente in dovere di parlare anche quando non ha niente da dire, cioè quasi sempre, lo ho chiamato, per felix lapsus, "Aquiloni". L'unico giudizio inteligente della serata. Era leggero e malinconico proprio come una cometa di carta tirata da un bambino su un prato di periferia.
Cassano (m. p. c.). Ma per carità. Se deve giocare così, in questo modo irritante e sempre con la stessa mossetta che hanno capito anche al Roccadisotto FC, meglio che si ributti sulle orecchiette e la burrata. Almeno si diverte lui. Una lode ai telecronisti che almeno ci hanno risparmiato il refrain del "talento di Bari Vecchia".
Ambrosini (s. v.). Senza voto. Bocciarlo sarebbe ingiusto. Promuoverlo sarebbe troppo generoso. Anche lui, come Perrotta, è abituato a fare la parte del baritono alla Scala lasciando ai tenori le romanze strappa applausi. Ieri cantava nella corale "Amici della Lirica" di Valenza Po, mica si poteva pretendere che diventasse di colpo Pavarotti "all'alba vincerooooo".
Toni (-1). Introduciamo la novità algebrica dei numeri negativi, perché, oltre a non combinare una beata mazza, ha anche impedito a un altro (Grosso) di fare gol, dunque si becca un "meno uno", tentando una sgangherata bicicletta al volo che sarebbe forse riuscita a un giocatore agilissimo altro un metro e cinquanta. Non a un pinocchione che sembrava avere tutte le parti del corpo montate male da un papà che non ha letto le istruzioni del mobile comperato all'Ikea.
Di Natale (4). Speriamo nella Befana, perché questo Natale ha portato soltanto carbone, e non Doni, al suo ammiratore, che ora perderà pure il posto. Atroce il suo rigore.
Camoranesi (7). Ha fatto casino, ha rimescolato un po' la morta gora del centrocampo italiano, ha impegnato il portiere Casillas, ha addirittura - miracolo - saltato qualche difensore. Sembrava un giocatore professionista di calcio in mezzo alla nazionale dell'ufficio paghe e contributi.
Del Piero (10+). No, adesso, seriamente. Deponete i flabelli, i turiboli, le fruste e la cassetta di acqua minerale. Che senso ha portarsi dietro uno così per farlo giocare un tempo e dieci minuti? Giusto per arruffianarsi i trombons del cosidetto giornalismo sportivo quelli del "come si fa a lasciare a casa Del Piero"? O ci credi, e lo fai giocare, o lo lasci in pace a conversare con i canarini.
Donadoni (6). Vigliacchi a tutti coloro che ora oseranno infierire o dare i suoi riccioletti in pasto alla plebe per salvarsi la poltrona. Gli auguro di trovare un lavoro meno ingrato di quello che gli fu buttato adosso dai sepolcri imbiancati del pallone italiano quando volevano farci credere di essere tornati tutti vergini.
Arbitro (8). Gli arbitri italiani sbagliano come tutti gli altri, dalla Lapponia all'Uzbekhistan, ma una cosa dovrebbero imparare i nostri: mettere un tappo ai loro zufoletti e lasciar giocare di più. 'Scolta Collina. Non tutte le cadute sono falli e se si zufola per ogni spinta e ogni ruzzolone si incoraggiano soltanto i "casqueurs" di professione e si fa fare esercizio ai massaggiatori e ai barellieri. I giocatori sono come i cani, capiscono in fretta che cosa permette, e non permette, di fare il padrone e non è un caso se nelle Euro aree di rigore si sono viste molto meno scene da "ratto delle Sabine" di quelle che vediamo nei campionati italiani. I cagnolini avevano capito che sarebbe stato inutile.
Piero Pelù canta Jeeg
Ora, magari mi sarò bevuto il cervello, ma dopo essermi preso del matto perché avevo accettato la leggenda secondo cui l'ex leader dei Litfiba avesse cantato questa sigla (in realtà il cantante si chiamava Fogus), ecco che ho trovato questa cover. Pelù ha registrato una propria versione della sigla che trovate nella versione deluxe di "Tutti fenomeni", ultimo album del cantante fiorentino.
Annunciaziò annunciaziò
da Repubblica.it
Via alla rivoluzione dei nomi web. Bene tutte le parole, in ogni lingua
PARIGI - Un indirizzo internet che dopo il punto finisce con una qualsiasi parola. Qualcosa che ci piace, per esempio (.amoremio, .il miogatto, .lasagne e via di questo passo) e in qualsiasi lingua, anche in russo, arabo o in cinese. La liberalizzazione dei dominii e adesso potrebbe diventare realtà. Giovedì l'Icann, la società che assegna nomi e numeri identificativi sulla rete, potrebbe allentare le regole finora ferree che permettono solo domini legati ai nomi dei paesi (.it, .uk), al commercio (.com) o alle organizzazioni (.org,.net). L'annuncio è stato dato oggi nella capitale francese, nel corso della 32esima riunione dell'organizzazione.
Messa così, potrebbe trattarsi di una delle più grandi trasformazioni della rete negli ultimi anni. A partire dal 2009 - un incubo o un sogno a seconda dei punti di vista - 1,3 miliardi di internauti potrebbero essere liberi di dare il nome che più li aggrada all'estensione del loro sito. Le grandi città e i grandi gruppi economici avranno una loro sigla, ce ne sarà una per Roma, Milano, Londra o New York.
L'apertura dell'Icann ha sorpreso gli operatori del settore, vista la rigidità dell'organismo. Ma solo fino a un certo punto, visto che nelle casse dell'Icann, che incassa una percentuale su ogni registrazione, entreranno molti più soldi. Attualmente sono 162 milioni i nomi recensiti, di cui più della metà in .net e .com, per un totale di circa 250 estensioni. Limitazioni che qualcuno ha già aggirato: l'isola di Tuvalu, per esempio, ha affittato la denominazione .tv a molte televisioni.
"L'impatto sarà diverso da paese a paese, ma consentirà a comunità e soggetti commerciali di esprimere le proprie identità online", ha spiegato l'amministratore delegato della compagnia Paul Twomwey. Un passo che per alcuni permetterà la massima libertà di espressione, ma secondo altri rischia di dare vita a una grande confusione. Basti pensare ad esempio cosa può significare avere più dominii che indicano settori di servizi, ad esempio quello bancario, o la possibilità di taroccare i marchi online.
Si va verso una liberalizzazione anche per quanto riguarda le lingue e i caratteri. La diversificazione sarà attuata con l'entrata in vigore della nuova generazione di indirizzi (Ipv6), che permetterà un numero staordinariamente più grande di indirizzi. Lo stock attuale, che utilizza il protocollo Ipv4, dovrebbe esaurirsi tra il 2010 e il 2011.
Insomma, la rete che verrà sarà poliglotta e personalizzata fino all'inverosimile. I dettagli saranno resi noti solo domani. Molti si chiedono come farà la società a impedire un accapparamento di "false estensioni", come già era successo con il vecchio sistema. Di sicuro sarà un momento festeggiato dall'industria del porno, che attende da anni l'assegnazione dell'estensione .xxx.
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Cristo morto in guerra
Un jet da guerra diventa la croce su cui è morto Cristo. Ed è subito scompiglio al Museo di Arte contemporanea di Sydney per l'opera di Leo Ferrari. L'artista argentino ha presentato alla biennale la sua "Civilizzazione occidentale di Cristo", una scultura di grandi dimensioni che replica in scala un Fh 107 Fighter jet dell'aeronautica militare statunitense a cui è appeso un Cristo morente
lunedì, giugno 23, 2008
Non è lo Zimbabwe di Mugabe
...ma ci assomiglia sempre di più.
Santa Rita, il Riesame sui decessi
"Interventi inutili, non mortali"
da Repubblica.it
MILANO - La procura di Milano non ha dimostrato alcun nesso di causalità tra gli interventi chirurgici e le cinque morti sospette contestate ai medici del Santa Rita. Lo affermano i giudici del Tribunale del Riesame del capoluogo lombardo che hanno confermato gli arresti in carcere per Pierpaolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica della clinica milanese, (ma solo per i reati di lesioni gravissime e truffa ai danni del Servizio sanitario nazionale). Detenzione annullata, invece, per i cinque episodi contestati di omicidio volontario, aggravato dalla crudeltà.
Secondo i giudici del Tribunale della Libertà, le perizie fatte eseguire dall'accusa hanno stabilito che "al più, gli interventi eseguiti sono stati una causa probabile dell'accelerazione del definitivo deterioramento delle condizioni fisiche dei pazienti. Gli esperti consultati dalla procura - hanno poi sottolineato i giudici - hanno definito in termini astratti un possibile nesso di causalità per i cinque episodi di decesso contestati, nesso che però non risulta concretamente delineato".
Per il Tribunale, quindi, le perizie hanno valutato soprattutto il profilo dell'opportunità e dell'inutilità delle operazioni eseguite, ma non hanno stabilito se siano state queste a determinare la morte dei cinque pazienti, per di più, con modalità e con tempo completamente diversi uno dall'altro. I giudici non hanno invece modificato il capo di imputazione mosso dai pm Tiziana Siciliano e Grazia Pradella, quello relativo all'omicidio volontario aggravato dalla crudeltà. Ai fini pratici, per l'ex chirurgo del Santa Rita, cambia comunque poco: il medico resterà in carcere perchè sono stati ritenuti tuttora esistenti i pericoli di inquinamento probatorio e di reiterazione del reato.
Santa Rita, il Riesame sui decessi
"Interventi inutili, non mortali"
da Repubblica.it
MILANO - La procura di Milano non ha dimostrato alcun nesso di causalità tra gli interventi chirurgici e le cinque morti sospette contestate ai medici del Santa Rita. Lo affermano i giudici del Tribunale del Riesame del capoluogo lombardo che hanno confermato gli arresti in carcere per Pierpaolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica della clinica milanese, (ma solo per i reati di lesioni gravissime e truffa ai danni del Servizio sanitario nazionale). Detenzione annullata, invece, per i cinque episodi contestati di omicidio volontario, aggravato dalla crudeltà.
Secondo i giudici del Tribunale della Libertà, le perizie fatte eseguire dall'accusa hanno stabilito che "al più, gli interventi eseguiti sono stati una causa probabile dell'accelerazione del definitivo deterioramento delle condizioni fisiche dei pazienti. Gli esperti consultati dalla procura - hanno poi sottolineato i giudici - hanno definito in termini astratti un possibile nesso di causalità per i cinque episodi di decesso contestati, nesso che però non risulta concretamente delineato".
Per il Tribunale, quindi, le perizie hanno valutato soprattutto il profilo dell'opportunità e dell'inutilità delle operazioni eseguite, ma non hanno stabilito se siano state queste a determinare la morte dei cinque pazienti, per di più, con modalità e con tempo completamente diversi uno dall'altro. I giudici non hanno invece modificato il capo di imputazione mosso dai pm Tiziana Siciliano e Grazia Pradella, quello relativo all'omicidio volontario aggravato dalla crudeltà. Ai fini pratici, per l'ex chirurgo del Santa Rita, cambia comunque poco: il medico resterà in carcere perchè sono stati ritenuti tuttora esistenti i pericoli di inquinamento probatorio e di reiterazione del reato.
Il declino
Io non ce l'ho con l'Italia, mi piacerebbe solo che almeno le giovani generazioni comprendessero che il nostro declino parte da lontano e non è finito. In Italia non ci sono regole. Il 99% delle aziende non rispettano i tempi di pagamento ed essere freelance equivale ad essere poveri. Io sto riducendo progressivamente i miei clienti italiani semplicemente perché, oltre a pagare uno schifo, non rispettano le regole basilari. Ti fanno sentire un poveraccio perché chiedi i TUOI soldi e se li denunci semplicemente non lavori più. È una maniera di fare mafiosa che nel primo mondo NON esiste. Credetemi (lavoro su 5 paesi). Un articolo, un altro, sul declino italiano.
Da Repubblica.it
Pil pro capite, Italia terzultima. Si allarga la forbice con la Spagna. Al primo posto il Lussemburgo, che quasi triplica la media Ue 27 (276)
Seguono Irlanda, Paesi Bassi, Austri, Francia, Germania, Regno Unito
Il primo ministro Spagnolo José Louis Zapatero
ROMA - L'Italia arretra ancora nella classifica europea del Pil pro capite. E' nella media Ue-27 ma viene superata praticamente da tutti i Paesi dell'Unione Europea prima dell'allargamento, a eccezione di Grecia (98) e Portogallo (75). E si allarga la forbice con la Spagna: nel 2007, infatti, considerata pari a 100 la media Ue a 27, la Spagna arriva a 107 mentre l'Italia si ferma a 101.
Nel 2006 la classifica Eurostat aveva assegnato all'Italia un valore di 103 e di 105 alla Spagna, dando dato adito a una polemica sul sorpasso di Madrid che aveva portato l'ex premier Romano Prodi a ricalcolare da solo i dati sulla ricchezza per affermare che comunque il 'sorpasso' non c'era stato, perlomeno non in termini assoluti.
E tuttavia la distanza tra Italia e Spagna nel 2007 è passata da due a sei punti. La ragione principale - spiegano fonti della Commissione - è la crescita tumultuosa registrata nel Pil spagnolo negli ultimi anni, a fronte di "un incremento quasi nullo, o comunque molto ridotto" del Pil italiano.
Ma già nei prossimi mesi potrebbe verificarsi un'inversione di tendenza - spiegano gli esperti - soprattutto a causa della crisi che in Spagna sta colpendo il settore delle costruzioni, e che molto probabilmente causerà un rallentamento della crescita economica.
Secondo i dati di Eurostat il Lussemburgo si conferma come il Paese leader in Europa con un Pil pro capite che nel 2007 si è attestato a quota 276. A seguire ci sono l'Irlanda (146), i Paesi Bassi (131), l'Austria (128). Sopra a Spagna e Italia si attestano la Francia (111), la Germania (113) e il Regno Unito (116).
venerdì, giugno 20, 2008
Le balle di Stefania Craxi
Rispettare il dolore di chi ha perso il padre (non una vittima, ma, secondo la magistratura italiana, un latitante inseguito da mandato di cattura a cui si è sottratto in un buen retiro ad Hammamet) è buona cosa. Far fare carriera a questa stessa persona, Stefania Craxi, che deve ancora dimostrare di poter vivere fuori dal cono d'ombra del padre, un'altra. Faccia il piacere, signora. Taccia.
Vedo sul Corriere di ieri, con grande rilievo e tanto di fotografia, un'intervista all'ex presidente Scalfaro, che ricordandosi di essere stato per qualche mese magistrato (salendo poi tutti i gradini della carriera senza aver mai più messo piede in un'aula di giustizia) si mostra sdegnato del desiderio di Berlusconi di non affrontare il processo Mills e lo consiglia di cimentarsi in «una serena sfida alla giustizia».
Ma da quale pulpito viene la predica! Il primo a non affrontare i giudici, in questi maledetti anni di giustizialismo, è stato proprio lui, Oscar Luigi Scalfaro. Chi non ricorda il suo «io non ci sto» propalato agli italiani a reti unificate? Ma dopo aver detto no alle chiacchiere su di lui che dalle Procure filtravano sui giornali, c'è stato, eccome, al gioco dei giustizialisti, assumendo il ruolo di primo protagonista della rivoluzione di Mani Pulite, anche contro il suo partito, la Democrazia Cristiana, «che tanto non mi ha mai amato».
Scalfaro ha recentemente smentito Giuliano Amato che gli aveva addossato la responsabilità di aver negato la firma al decreto Conso per la depenalizzazione del finanziamento illecito dei partiti dopo il pronunciamento dei magistrati di Milano. Amato non ha replicato, ma avrebbe potuto farlo benissimo perché Scalfaro conosceva perfettamente il decreto Conso. Fernanda Contri, missus di Amato, aveva fatto più di una volta la spola tra Palazzo Chigi e il Quirinale. Poi il pronunciamento dei magistrati e la marcia indietro. No, non è da quel pulpito che può venire la predica a Silvio Berlusconi!
Gli statisti del centrosinistra
da l'espressonline.it
Edmondo Berselli
E adesso, pover'uomo? Dalle parti di Walter Veltroni e del Partito democratico comincia a farsi largo il sospetto tremendo: e cioè di essere caduti come gonzi nella supertrappola di Silvio Berlusconi. Altro che lo 'statista', tutto sorrisi e nuova dignità istituzionale. Piuttosto l'autore di un trappolone pazzesco, una supercazzola storica, e un amo ingoiato dal Pd con tutta la lenza fino alla canna. Un tranello magistrale che inizia con la strategia del sorriso, qualche mese prima delle elezioni, allorché il Cavaliere comincia ad attrarre Veltroni verso una partita uno contro uno, contando sull'orgoglio dei veltroniani, e sulla loro fiducia che la grande novità rappresentata dal Pd potesse modificare strutturalmente il contesto competitivo, far dimenticare l'abisso di consenso in cui era precipitato il governo Prodi e consentire al nuovo centrosinistra di sfondare al centro, grazie al modernismo della sua proposta politica.
Come in tutte le trame perfette, il trucco era lì sul tavolo, in piena evidenza, e aveva le corna vichinghe e le fattezze della Lega, accolta nell'alleanza elettorale della destra come un partito 'regionale', e quindi marginale rispetto allo schema del faccia a faccia epocale Berlusconi-Veltroni; e rivelatasi invece decisiva, con il quasi raddoppio dei suoi voti al Nord, nella contabilità dei rapporti di forza elettorali e nel quantificare nella sua pesantezza la sconfitta del Pd. Ma il piatto presentato da Berlusconi era effettivamente appetitoso: comunque fossero andate le elezioni, il testa a testa fra il vecchio capopopolo di Forza Italia e il nuovo segretario del Pd avrebbe finalmente legittimato e normalizzato la politica italiana, attribuendo ai due leader un'allure 'costituente' e lasciando il campo libero per l'edificazione della terza Repubblica.
È per questo che fino a pochi giorni fa l'atteggiamento di Veltroni è sembrato giustificare l'attacco spazientito di Arturo Parisi, che con una secca intervista a 'la Repubblica' ha dettato il primo compito: "Ammettere la sconfitta". Altrimenti il Pd si sarebbe ancora trastullato, come dicono negli ambienti vicini all'ex ministro della Difesa, con la confortante, per quanto strampalata, idea di avere vinto o quasi le elezioni e di essere al governo con Berlusconi.
Per uscire da questa rosea nuvola, era necessario che il Cavaliere rivelasse il suo vero volto, che poi è il suo volto solito, con i 44 denti spianati del Caimano, l'animosità interessata contro la giustizia delle toghe rosse, quelle che vorrebbero appiccicargli addosso sei anni di condanna in primo grado per l'affare Mills, ossia per una presunta colossale evasione fiscale, e che hanno indotto Berlusconi a modificare il decreto sulla sicurezza per introdurvi le sue solite e costituzionalmente micidiali leggine 'ad personam'.
Ma in realtà, che sotto la maschera dello statista ci fosse sempre il solito Berlusconi, il demagogo insofferente dei controlli legali e istituzionali, era molto più di un sospetto dei malevoli. La strategia berlusconiana nel cammino verso Palazzo Chigi si era dispiegata con tutte le accortezze del caso. Il malfido Pier Ferdinando Casini era stato tenuto fuori dai confini del Pdl e dell'alleanza. Sopravvissuto elettoralmente, si era ritrovato in una posizione scomodissima, schiacciato fra Pdl e Pd, ignorato dai media, praticamente ridotto al silenzio; mentre l'altro dei dioscuri, Gianfranco Fini, che qualche mese fa aveva osato aprire una rissa a suon di insulti con il Cavaliere, era stato fatto accomodare sullo strapuntino della presidenza della Camera, terza carica dello Stato (in teoria), ma convogliato di fatto in un binario morto.
Ma il vero capolavoro di Berlusconi era stato fatto con la formazione del governo. Con Palazzo Chigi sotto la flautata regia di Gianni Letta, punto di incontro e di gestione di relazioni politiche, civili, militari e clericali, Berlusconi ha messo i suoi tasselli nelle posizioni critiche del governo. Accanto al disarmante Angelino Alfano, come vero ministro ombra della Giustizia ha piazzato il suo penalista Niccolò Ghedini, l'Azzeccagarbugli di cui sono note le sottigliezze giuridiche
Con un gioco di pesi e contrappesi ha messo un ex fascista, Ignazio La Russa, alla Difesa e un secessionista, Roberto Maroni, agli Interni.
E il capolavoro autentico è riuscito nell'assemblaggio del pacchetto di mischia del governo, in cui spiccano gli ultimi eredi del Psi e del craxismo (Renato Brunetta, Giulio Tremonti, Maurizio Sacconi, Franco Frattini, per non citare Stefania Craxi). Ora, vecchi e giovani craxiani, come Berlusconi sapeva bene, una dote ce l'hanno: sono capaci di fare politica. Hanno, storicamente, pochi tabù. Come cultura, sono eclettici.
Una manifestazione della LegaE posti di fronte alla necessità di governare un paese in stagnazione economica, in cui sarà difficile rispondere alle aspettative suscitate fra i cittadini, soprattutto per ciò che concerne i redditi, specialmente Brunetta e Tremonti si sono detti che non era il caso di andare sul classico e sul prevedibile. Occorrevano invenzioni da "socialismo nazionale" (come disse Nino Andreatta nella polemica da 'comari' con Rino Formica: anche se va ricordato che spesso Andreatta pensava in inglese, e la formula 'national socialism', tradotta rigidamente in italiano, non suonava bene).
Brunetta ha attaccato sul fronte del pubblico impiego, aprendo il fronte della trasparenza e passando alle minacce contro i "fannulloni". Tremonti ha provato ad applicare sul campo i postulati del suo pamphlet 'La paura e la speranza', inventandosi la 'Robin Hood Tax', diventata rapidamente 'Robin Tax', in assonanza con la Tobin Tax dei no global acculturati, e che dovrebbe mettere le mani nelle tasche dei petrolieri e delle banche, tassando i profitti congiunturali. Ora, non ci vuole molto a capire che questa tassa è un taglieggiamento illiberale, e un'operazione di colossale demagogia (chi decide che i profitti sono eccessivi? Il ministro dell'Economia?). Altro che tassa "etica". Una gabella discrezionale, con verniciatura populista: un esercizio di cinismo politico a fini di consenso di stampo putiniano.
Eppure, in un ambiente culturale moralmente deprivato come quello italiano pochissime voci si sono sollevate contro il disegno neostatalista di Tremonti. Vecchi e giovani liberisti, che fino a mezz'ora fa tenevano lezioni ultraliberali con il ditino alzato e le labbra a culo di gallina, si sono adeguati senza battere ciglio ai diktat di Tremonti. Il povero ministro ombra Pier Luigi Bersani ha provato a spiegare che l'aggravio fiscale verrà immediatamente scaricato sui consumatori, "alla pompa", ma la sua voce, così come le tenui critiche della Confindustria, è stata soffocata dagli applausi delle platee osannanti.
Solo quando Berlusconi ha portato il colpo sulla giustizia qualcuno si è svegliato. E ha proceduto a un primo e provvisorio bilancio. Alla voce Alitalia, è probabile un mezzo disastro, dopo che il Cavaliere ha deliberatamente provocato il fallimento della trattativa con Air France; potrebbe risultarne uno spezzatino e una significativa perdita di posti di lavoro. Sui rifiuti a Napoli, il premier si è buttato a corpo morto, sempre sulla base dell'idea che i problemi si risolvono soltanto se lui si arrotola le maniche (ma ci vorranno tre anni, la militarizzazione delle discariche, e qualche prodigio nei tempi nella realizzazione dei termovalorizzatori).Il nucleare è stato rilanciato dall'esperto dell'uranio Scajola, senza nessuna discussione e senza nessun approfondimento, con l'annuncio che partirà nel 2013 ma ovviamente senza spiegare dove (dire quando si avvierà un programma nucleare è facile, dire i luoghi in cui si metteranno le centrali, invece, meno).
Sul piano interno, dopo avere costruito un clima demenziale verso immigrati e zingari, e combinato qualche casino con il reato o l'aggravante legati alla clandestinità, il governo ha lanciato la pazza iniziativa della militarizzazione delle città, un segnale deprimente che moltiplica l'allarme per la sicurezza. In politica estera Berlusconi e Frattini hanno già offerto a George W. Bush, sull'impegno in Afghanistan, più di ciò che il presidente americano poteva e voleva offrire in cambio. In Europa, il governo ha annunciato che terrà fede ai programmi prodiani sul rientro del deficit e, a parte qualche volgarità leghista sul referendum irlandese, per ora non sembra coltivare vere vocazioni euroscettiche. Il resto, sfoltimento delle province e tagli pesanti agli enti locali, appartiene al Dna del centrodestra. Abolizione dell'Ici e detassazione parziale degli straordinari erano due misure simboliche, poco utili e forse dannose.
Ma adesso che Berlusconi si è sentito obbligato a riaprire il cantiere del conflitto con la giustizia, che potrebbe avere riflessi distruttivi sul piano costituzionale (in particolare con il presidente della Repubblica), tutti gli infingimenti sono caduti. Per ciò che riguarda il Cavaliere, essendo lui naturalmente disinibito, si arrangerà: avanzerà o arretrerà in base ai suoi interessi, al timore delle condanne, alla prospettiva di farsi eleggere a maggioranza sul Colle più alto. L'attacco alla libertà d'informazione con il disegno di legge sulle intercettazioni prepara comunque un clima da 'demokratura', con gli intellettuali sedicenti liberali che plaudono alla stretta sui media.
In ogni caso, il problema riguarda soprattutto Veltroni: il Pd è diviso fra correnti, fondazioni, centri culturali, e l'intera sinistra appare talmente abbattuta (vedi i catastrofici risultati amministrativi in Sicilia) da rischiare l'evaporazione. Con ogni probabilità il disegno strutturale del leader del Pd, pacificazione politica e riforme, è abortito. Il risultato elettorale è stato fallimentare, il programma istituzionale sta per arenarsi di fronte alla protervia di Berlusconi. In questa situazione, non c'è congresso che possa rianimare il Pd. Ma se si tratta di inventare qualcosa per salvare il salvabile, per i 'democrat' è venuto il momento di pensare a qualcosa di eccezionale, di emergenziale: forse perfino di eroico, anche se sappiamo che è sfortunato quel partito che ha bisogno di eroi.
Cappella Sistina segreta
Maurizio Molinari per “La Stampa”
Cappella Sistina, il mantello di Dio è l’esatta sezione di un cervello umano
Nel 1975 il chirurgo dell’Indiana Frank Mershberger entra per la prima volta nella Cappella Sistina, guarda l’affresco sulla Creazione di Adamo e prova una sensazione di strana famigliarità. Poi rimane di stucco. Dio che tende la mano verso Adamo è raffigurato dentro un mantello che è l’esatta sezione di un cervello umano, quasi fosse stato copiato dal manuale di una scuola di medicina.
«Perché mai Michelangelo ha messo Dio dentro un cervello?» si chiese Mershberger. La risposta arriva dalle 320 pagine di «The Sistine Secrets» (I Segreti della Sistina) confezionate per i tipi di HarpersCollins da Roy Doliner, studioso dell’arte e docente nei Musei Vaticani, e Benjamin Blech, docente di Talmud alla Yeshiva University di New York e considerato fra i più autorevoli rabbini cabbalisti, arrivati alla conclusione che Michelangelo adoperò un «codice» per la realizzazione della Cappella Sistina, talmente segreto da far apparire banale quello attribuito a Leonardo da Dan Brown.
Giuditta e l'ancella come la lettera Chet di Chessed Pietà
DOVE PORTA LA KABBALAH - Il «codice di Michelangelo» è basato sui simboli della Kabbalah. Buonarroti disseminò la Volta e il Giudizio Universale di messaggi riconducibili alla mistica ebraica. A cominciare proprio dall’uomo creato dalla mente perché viene all’interpretazione cabbalistica che vuole l’essere umano frutto della conoscenza posizionata nell’emisfero destro del cervello, proprio il luogo dove Michelangelo raffigura Dio.
Il volume appena uscito nelle librerie d’America accompagna il lettore attraverso una miriade di simili esempi, in parte rielaborati da precedenti studi in parte trovati dagli autori, come nel caso del cerchio dorato sul mantello di Aminadab, ricomparso con i restauri del 1980-1999, che richiama il simbolo della vergogna che all’epoca di Michelangelo gli ebrei erano obbligati a portare sugli abiti.
In maniera analoga nel Circolo degli Eletti del Giudizio Universale si trovano, proprio sopra Gesù, due ebrei con in testa cappelli simili a quelli che l’Inquisizione obbligava loro di indossare per distinguersi dai cristiani: con le due punte che richiamavano il Diavolo o di color giallo.
UNA MIRIADE DI ESEMPI - Il profilo del Giudizio Universale ricorda quello delle Tavole della Legge così come le dimensioni della Cappella Sistina sono identiche, al millimetro, a quelle dell’«Eichal» del Tempio di Salomone, ma ciò che più colpisce è come Blech e Doliner siano riusciti a rintracciare nei Pendenti che si trovano ai quattro angoli della Volta lettere ebraiche formate con gli arti dei personaggi raffigurati richiamando concetti cabbalistici: la Ghimel di gvurà (orgoglio) nel pannello di David e Golia come la Chet di chessed (pietà) in quello di Giuditta e la sua ancella mentre gambe e dita di Giona formano una Hei che corrisponde al numero, quanti sono i libri del Vecchio Testamento.
Giona viene raffigurato in un grande pesce, come suggerisce il Midrash, e non nella tradizionale balena della cultura cristiana. Anche nel caso dell’Arca di Noè l’immagine evoca il Talmud perché si tratta di una grande scatola galleggiante.
Lo stesso vale per Eva, che nasce non dalla costola ma dal fianco di Adamo. E ancora: il frutto della tentazione sull’Albero della Conoscenza nell’Eden non è la mela della tradizione cristiana ma i fichi, come riportato dal Midrash.
IPOTESI SULLA MOTIVAZIONE - Sul perché Michelangelo abbia disseminato di simboli e messaggi cabbalistici il cuore della Chiesa cattolica, che era anche la sede dell’Inquisizione, l’opinione degli autori è che fu una conseguenza delle conoscenze apprese durante l’adolescenza da Giovanni Pico della Mirandola, il più importante cabbalista cristiano del Rinascimento, e da Marsilio Ficino, fondatore della Scuola di Atene, nella Firenze dei Medici dove Cosimo aveva scelto di accogliere e proteggere gli ebrei con il risultato di ospitare eminenti cabbalisti che riscuotevano grande interesse per le conoscenze tramandate dall’epoca del Vecchio Testamento.
Arrivati all’ultima pagina si ha la sensazione che Blech e Doliner identifichino la chiave del «codice di Michelangelo» nella scelta di costruire un ponte esoterico fra cristianesimo ed ebraismo che coincide poi con l’identità degli autori: un rabbino che nel 2005 ha benedetto in Vaticano Giovanni Paolo II e nel 2006 accompagnò l’attuale pontefice ad Auschwitz, e un appassionato d’arte che passa le sue giornate fra i «Sistine Secrets».
martedì, giugno 17, 2008
David Mills & Berlusconi
David Mills, l'uomo che in Inghilterra non si azzarderebbe MAI a comportarsi e dire quelo che dice in Italia. È sposato con Tessa Jowell, ministro del governo Blair e in Inghilterra per i fatti di cui è accusato in Italia avrebbe provocato le dimission della moglie e il suo arresto. Ma ha compiuto i suoi atti in Italia e per questo, in uno stentato italiano può berciare "complotto giudiziario"....
da Repubblica.it
Mills, Berlusconi ricusa il giudice. Scontro tra il Cavaliere e i magistrati
La reazione dell'Anm: "Chi governa non può denigrare le toghe"
ROMA - Torna lo scontro sulla giustizia. Tornano gli attacchi ai giudici "di sinistra" lanciati da Silvio Berlusconi. Torna la teoria del "complotto" contro il premier ad opera delle toghe. Tornano i magistrati che si vedono attaccati da "invettive tanto veementi quanto ingiustificate".
L'aveva annunciato nella lettera che ieri aveva spedito al presidente del Senato, Renato Schifani e oggi l'ha fatto. Berlusconi ha ricusato il giudice Nicoletta Gandus chiamata a decidere del processo in cui il Cavaliere e il legale inglese David Mills, sono accusati di concorso in corruzione in atti giudiziari. Una mossa, si legge nell'istanza presenta dai legali del premier, legata alla "reiterate manifestazioni di pensiero che appalesano una inimicizia grave" nei confronti di Berlusconi. E nell'istanza si sottolinea anche come il giudice Gandus "appaia tra i soggetti potenzialmente danneggiati nel processo collegato, da cui nasce il presente processo, avendo posseduto azioni Mediaset ed essendo quindi fra quei soggetti che potenzialmente avrebbero potuto costituirsi parte civile".
A ben vedere l'istanza è basata, fondamentalmente, su alcune prese di posizione del giudice su alcuni siti internet contro leggi varate dal precedente governo guidato da Berlusconi. In particolare la Gandus, insieme a uno dei due pm del processo, Sergio Spadaro, "è stata firmataria di un appello contro la decisione del governo Berlusconi di prorogare il procuratore nazionale antimafia".
Un attacco durissimo quello del premier, che non resta senza conseguenze. Per primo reagisce il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, Manlio Minale: "Respingo con forza queste illazioni, le indagini sono state condotte nel più assoluto rispetto delle garanzie della difesa e nell'esclusiva ottica dell'accertamento della verità". Poi è la volta dell'Anm che solo pochi giorni fa aveva salutato un "miglioramento" del clima dei rapporti tra politica e magistratura: "Chi governa il paese non può denigrare e delegittimare i giudici e l'istituzione giudiziaria quando è in discussione la sua posizione personale" dicono il presidente del sindacato delle toghe Luca Palamara e il segretario Giuseppe Cascini esprimono.
In attesa della prossima udienza prevista per venerdì prossimo, Minale taglia corto: "All'esito di un dibattimento iniziato in data 13 marzo 2007 e prossimo alla conclusione, il tribunale deciderà in ordine alla fondatezza o meno delle accuse". Fatti dunque e non illazioni.
...solo la natura potrà liberarci da questo signore che continua a infangare il ruolo che riveste.
da Repubblica.it
Mills, Berlusconi ricusa il giudice. Scontro tra il Cavaliere e i magistrati
La reazione dell'Anm: "Chi governa non può denigrare le toghe"
ROMA - Torna lo scontro sulla giustizia. Tornano gli attacchi ai giudici "di sinistra" lanciati da Silvio Berlusconi. Torna la teoria del "complotto" contro il premier ad opera delle toghe. Tornano i magistrati che si vedono attaccati da "invettive tanto veementi quanto ingiustificate".
L'aveva annunciato nella lettera che ieri aveva spedito al presidente del Senato, Renato Schifani e oggi l'ha fatto. Berlusconi ha ricusato il giudice Nicoletta Gandus chiamata a decidere del processo in cui il Cavaliere e il legale inglese David Mills, sono accusati di concorso in corruzione in atti giudiziari. Una mossa, si legge nell'istanza presenta dai legali del premier, legata alla "reiterate manifestazioni di pensiero che appalesano una inimicizia grave" nei confronti di Berlusconi. E nell'istanza si sottolinea anche come il giudice Gandus "appaia tra i soggetti potenzialmente danneggiati nel processo collegato, da cui nasce il presente processo, avendo posseduto azioni Mediaset ed essendo quindi fra quei soggetti che potenzialmente avrebbero potuto costituirsi parte civile".
A ben vedere l'istanza è basata, fondamentalmente, su alcune prese di posizione del giudice su alcuni siti internet contro leggi varate dal precedente governo guidato da Berlusconi. In particolare la Gandus, insieme a uno dei due pm del processo, Sergio Spadaro, "è stata firmataria di un appello contro la decisione del governo Berlusconi di prorogare il procuratore nazionale antimafia".
Un attacco durissimo quello del premier, che non resta senza conseguenze. Per primo reagisce il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, Manlio Minale: "Respingo con forza queste illazioni, le indagini sono state condotte nel più assoluto rispetto delle garanzie della difesa e nell'esclusiva ottica dell'accertamento della verità". Poi è la volta dell'Anm che solo pochi giorni fa aveva salutato un "miglioramento" del clima dei rapporti tra politica e magistratura: "Chi governa il paese non può denigrare e delegittimare i giudici e l'istituzione giudiziaria quando è in discussione la sua posizione personale" dicono il presidente del sindacato delle toghe Luca Palamara e il segretario Giuseppe Cascini esprimono.
In attesa della prossima udienza prevista per venerdì prossimo, Minale taglia corto: "All'esito di un dibattimento iniziato in data 13 marzo 2007 e prossimo alla conclusione, il tribunale deciderà in ordine alla fondatezza o meno delle accuse". Fatti dunque e non illazioni.
...solo la natura potrà liberarci da questo signore che continua a infangare il ruolo che riveste.
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Bastaaaaaaaaaaaaaaaa
Perché un ennesimo rinvio? Perché dev'essere la Confindustria tramite la Marcegaglia a dire che la legge sulla "class action" dev'essere riscritta? Buffoni!
Scajola conferma: "Class action slitta al primo gennaio 2009"
da Repubblica.it
MILANO - La legge sulla class action entrerà in vigore a partire dal primo gennaio dopo un "percorso di revisione con le parti interessate". Lo ha confermato il ministro per le Attività Produttive Claudio Scajola, a margine di un incontro a Palazzo Marino, aggiungendo che "il governo è favorevole al provvedimento". L'entrata in vigore della normativa era stata inizialmente fissata per il 29 giugno.
Scajola ha respinto tuttavia le accuse delle associazioni dei consumatori, che ieri sono insorte contro la decisione del governo: "Qualcuno - ha spiegato il ministro - ha interpretato il rinvio dell'entrata in vigore della legge come un disconoscimento della sua validità, ma non è così".
Secondo Scajola la normativa sulla class action è "di assoluta validità e importanza per i consumatori", però "per produrre effetti positivi ha necessità di essere ritoccata" perché "abbiamo il sospetto che così com'è porterebbe a vagoni di ricorsi senza giovare ai consumatori". L'obiettivo invece deve essere, secondo il ministro Scajola, "dare giustizia a chi si sente danneggiato".
Scajola ha poi annunciato la convocazione per domani del "Consiglio nazionale dei consumatori per discutere insieme alle parti coinvolte i ritocchi al progetto di legge".
Siccome in Italia sono dei leoni di carta ecco invece come la Parmalat è scesa a più miti consigli negli USA dove le leggi si rispettano:
Intesa con la class action americana, Parmalat chiude la partita Usa
NEW YORK - Parmalat ha raggiunto un accordo di transizione con la 'class action' americana che pende nel tribunale federale di New York. L'accordo prevede l'impegno della società italiana a far trasferire alla 'classe' 10,5 milioni di sue azioni "in onnicomprensiva soddisfazione - si legge in una nota - di qualsiasi pretesa fatta valere contro di essa dalla 'classe' in qualunque parte del mondo". L'accordo si riferisce alla class action autorizzata lo scorso anno dal giudice kaplan e predisposta dallo studio Grant & Eisenhofer, che intendeva avanzare una richiesta di risarcimento al gruppo di Collecchio di circa 8 miliardi di dollari.
Parmalat ha inoltre assunto l'impegno di contribuire fino a un milione di euro per spese di notifica ai membri della 'classe'. "Parmalat - prosegue la nota - ritiene che questa risoluzone della disputa sia nel miglior interesse degli azionisti, anche e specialmente perchè elimina il drenaggio di risorse e spese di difesa e toglie un'incertezza al valore del titolo".
L'annuncio ha fatto correre il titolo a piazza Affari: le azioni della società di Collecchio guadagnano il 2,48%.
Postilla per i furbi: il titolo, che perdeva punti da mesi ha recuperato quando si è visto uno spiraglio per uscire dal tunnel. Rispettare le regole a volte serve anche al mercato, quello vero. Quello che non esiste in Italia. Checché ne dicano i ..... (rischio querela)
Scajola conferma: "Class action slitta al primo gennaio 2009"
da Repubblica.it
MILANO - La legge sulla class action entrerà in vigore a partire dal primo gennaio dopo un "percorso di revisione con le parti interessate". Lo ha confermato il ministro per le Attività Produttive Claudio Scajola, a margine di un incontro a Palazzo Marino, aggiungendo che "il governo è favorevole al provvedimento". L'entrata in vigore della normativa era stata inizialmente fissata per il 29 giugno.
Scajola ha respinto tuttavia le accuse delle associazioni dei consumatori, che ieri sono insorte contro la decisione del governo: "Qualcuno - ha spiegato il ministro - ha interpretato il rinvio dell'entrata in vigore della legge come un disconoscimento della sua validità, ma non è così".
Secondo Scajola la normativa sulla class action è "di assoluta validità e importanza per i consumatori", però "per produrre effetti positivi ha necessità di essere ritoccata" perché "abbiamo il sospetto che così com'è porterebbe a vagoni di ricorsi senza giovare ai consumatori". L'obiettivo invece deve essere, secondo il ministro Scajola, "dare giustizia a chi si sente danneggiato".
Scajola ha poi annunciato la convocazione per domani del "Consiglio nazionale dei consumatori per discutere insieme alle parti coinvolte i ritocchi al progetto di legge".
Siccome in Italia sono dei leoni di carta ecco invece come la Parmalat è scesa a più miti consigli negli USA dove le leggi si rispettano:
Intesa con la class action americana, Parmalat chiude la partita Usa
NEW YORK - Parmalat ha raggiunto un accordo di transizione con la 'class action' americana che pende nel tribunale federale di New York. L'accordo prevede l'impegno della società italiana a far trasferire alla 'classe' 10,5 milioni di sue azioni "in onnicomprensiva soddisfazione - si legge in una nota - di qualsiasi pretesa fatta valere contro di essa dalla 'classe' in qualunque parte del mondo". L'accordo si riferisce alla class action autorizzata lo scorso anno dal giudice kaplan e predisposta dallo studio Grant & Eisenhofer, che intendeva avanzare una richiesta di risarcimento al gruppo di Collecchio di circa 8 miliardi di dollari.
Parmalat ha inoltre assunto l'impegno di contribuire fino a un milione di euro per spese di notifica ai membri della 'classe'. "Parmalat - prosegue la nota - ritiene che questa risoluzone della disputa sia nel miglior interesse degli azionisti, anche e specialmente perchè elimina il drenaggio di risorse e spese di difesa e toglie un'incertezza al valore del titolo".
L'annuncio ha fatto correre il titolo a piazza Affari: le azioni della società di Collecchio guadagnano il 2,48%.
Postilla per i furbi: il titolo, che perdeva punti da mesi ha recuperato quando si è visto uno spiraglio per uscire dal tunnel. Rispettare le regole a volte serve anche al mercato, quello vero. Quello che non esiste in Italia. Checché ne dicano i ..... (rischio querela)
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lunedì, giugno 16, 2008
Fannulloni d'Italia
Chiunque viva all'estero come me avrà dovuto rivolgersi o ai vari consolati o, peggio ancora, agli istituti di cultura. A me, molto spesso cade la faccia per chi ci rappresenta. Bifolchi, ignoranti, incapaci coperti di denaro (pubblico) per non fare un cazzo. Spesso capaci solo di organizzare eventi gastronomici o riunioni culturali con gente amica di amici (e con soldi pubblici). Vedere quello che fa il Goethe Institut o l'Alliance Française al confronto ci fa impallidire. Un articolo dal Sole24ore.
Riccardo Chiaberge per “Il Sole 24 Ore”
Se rischiamo di essere estromessi dagli europei di calcio, come ci piazzeremo nelle Olimpiadi dell'arte e della creatività? L'equivalente della squadra azzurra, in questi campi, è la rete degli Istituti italiani di cultura. Sono ben 88 sparsi in altrettante città di tutti i continenti, da Tirana a Caracas.
Dovrebbero essere un punto di riferimento per i nostri connazionali all'estero e una piattaforma di lancio per scrittori, artisti, cantanti. Ma non fanno bene né l'uno né l'altro mestiere. I dieci istituti più importanti, come Londra, New York o Parigi, sono retti da direttori «di chiara fama» che restano in carica da due a quattro anni. Alcuni si mostrano all'altezza della loro fama, altri no. Ma procurano comunque un danno limitato. Il vero problema è il personale, gli «addetti culturali» e i «contrattisti» che lavorano (o dovrebbero lavorare) alle loro dipendenze.
Gli addetti culturali (due o quattro per ogni sede, di cui molti ex-professori d'inglese o tedesco delle scuole medie in soprannumero, presi in carico dalla Farnesina e spediti nel mondo), per lo più sanno poco della cultura del loro paese e meno ancora del paese in cui si trovano, ma vengono pagati come superesperti (otto-diecimila euro al mese) e si comportano da impiegati statali.
Il direttore di un importante istituto racconta di aver convocato una riunione un pomeriggio alle 16,30 con due suoi «addetti» e questi dopo 25 minuti si sono alzati, perché era finito il loro orario giornaliero: «Se no facciamo straordinari e poi ce li deve dare come recupero». Il contratto prevede 36 ore e 17 minuti la settimana di presenza.
Ogni minuto in più va a sommarsi al già cospicuo «monte ferie» (42 giorni se la sede è «disagiata», cioè extraeuropea: come se stare a Tokio o a New York comportasse disagi tremendi). Alcuni di questi signori girano il mondo da vent'anni, cinque anni a Londra, cinque a Buenos Aires, e magari non parlano nemmeno la lingua del posto.
Sono i Rom della cultura, un'emergenza per l'erario che il ministro Brunetta dovrebbe affrontare con la stessa «tolleranza zero» che si usa peri campi nomadi. Poi ci sono gli stanziali, legati indissolubilmente a una sede finché morte non li separi: chiamati «contrattisti», sono impiegati che guadagnano circa la metà degli «addetti».
Molti sposano indigeni o indigene e si fanno una famiglia in loco, perdendo ogni legame con la lingua e la cultura d'origine. Se gli nomini Ozpetek, Saviano o Cattelan, sgranano gli occhi: loro sono rimasti fermi ai tempi di Pavese e Sofia Loren. Molti non si prestano nemmeno più a fare gli interpreti, ruolo che cedono volentieri ai giovani locali, disposti a lavorare 10-12 ore al giorno per mille euro mensili.
Ci sono per fortuna le eccezioni, funzionari colti e volonterosi, che fanno onore al Paese. Ma devono remare controcorrente in un oceano di mediocrità e di fannullaggine. E i direttori non hanno nessun potere di promuoverli, come non ne hanno di licenziare gli ignoranti. Così, invece di esportare il made in Italy artistico e letterario, diffondiamo nel mondo due prodotti tipicamente nostrani: la burocrazia e l'incultura.
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Porno-consulenze II
Roberto Giovannini per “La Stampa”
Torino finanzia uno studio per vedere se i campi di calcetto in sintetico fanno male. Milano, città seria e rigorosa, fa collaudare persino le sciarpe delle uniformi d’ordinanza dei «ghisa», ma finanzia corsi di «somatica dello spazio». La Bologna di Sergio Cofferati riscopre invece la sana tradizione comunista della assoluta no-glasnost: nelle tabelle mancano del tutto le descrizioni degli incarichi dei consulenti, e a volta diventa «bianca» pure la colonna con nomi e cognomi.
Roma, invece, riferisce proprio tutte le consulenze, compresi i gettoni di presenza (287,36 euro) per i membri della Commissione «barbieri e parrucchieri». Peccato che la compilazione dei tabulati sia stata affidata a impiegati un po’ intronati e a disagio con gli zeri: ed ecco che i 51.000 euro del progetto «il Presepe come gioco» diventano per 12 ore ben 51 milioni.
Se l’autobus non passa o gli operatori ecologici puliscono male sapete con chi prendervela: il 37% del totale delle consulenze e collaborazioni pagate nel 2006 dalle amministrazioni pubbliche (ovvero, 492 milioni su un miliardo 323 milioni) sono uscite dalle casse dei Comuni.
Sempre che le migliaia di pagine delle tabelle diffuse dal ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta siano davvero complete, cosa di cui è lecito dubitare. Molti esperti e addetti ai lavori sono pronti a giurare che la torta delle consulenze sia molto più grande, probabilmente doppia: due miliardi, forse due miliardi e mezzo di euro l’anno.
Un po’ per inefficienza, un po’ per errori materiali o «dimenticanze» più o meno interessate, appare evidente a chi consulta i dati resi pubblici sul sito del ministero (http://www.innovazionepa.gov.it) che qualcuno ci ha «marciato». Altrimenti non si spiegherebbe che la lista relativa al Comune di Roma sia lunga il triplo di quella di Milano (che non fa cenno alle docenze dei corsi di formazione, tanto per fare un esempio).
TORINO
Probabilmente si poteva sopravvivere senza i 54.000 e stanziati perché il Politecnico studiasse «l’applicazione di analisi a rischio sanitario-ambientale sui campi in erba sintetica». E perché si è chiesto al signor Tarditi di realizzare (per 3.040 euro) due «vademecum informativi dei prodotti ittici»? C’è da giurare che con i 100 euro pagati per un «progetto grafico» il signor Griffo non sia certo arricchito. Piazza Solferino e il suo sponsor village durante le Olimpiadi dev’essere stata davvero una meraviglia: per «studiare il layout», i decori e progettare manufatti e allestimento il sindaco Chiamparino ha speso bei 212.640 euro. E infine, chissà se il gruppo «gestione del conflitto» guidato dalla signora Da Milano per 1.530 euro avrà portato più pace in città.
BOLOGNA
La rossa Bologna a quanto pare ama il segreto. Le caselle con la descrizione degli incarichi sono tutte in bianco; e dunque non si saprà mai perché al signor Bortolotti sono state assegnate «consulenze» per 120 euro, mentre ce n’erano 243.266 per il signor Conti e quasi 250.000 per il signor Fiori. Per non parlare delle consulenze in cui l’unica cosa nota è lo stanziamento: 146.880, 79.050, ecc.
MILANO
Milano è una città europea, moderna: e giustamente paga consulenti perché le caldaie funzionino bene. E scrupolosa: ha pagato 492 euro al signor Ceriani per «collaudo fornitura sciarpe per la Polizia municipale» e «collaudo di tessuti in genere», 67 al signor Bayre per «collaudo di prodotti di pellame». Ma è anche una città eclettica ed «aperta»: finanzia corsi di riflessologia plantare (1.809 euro), naturopatia e iridologia (8.283), découpage (1.312,50), ballo normale e ballo liscio (2.777), training autogeno (936), corsi di misteriosa «somatica dello spazio» (1.512 euro). E pure il rebirthing, che è valso alla signora Caliandro una consulenza da 45.493 euro. Paolo Glisenti, coordinatore dei rapporti istituzionali del sindaco Moratti, invece, ha uno stanziamento da 165.000 euro.
ROMA
La Capitale ha stanziato quasi 1,5 milioni per un corso di formazione di informatica per 3.300 dipendenti. Speriamo che serva. Intanto si spendono 2.000 euro perché il signor Balocchi inventi il calendario della Polizia Municipale, e 1.300 perché il signor Corso collaudi il vestiario dei vigili. E il grande linguista Tullio De Mauro incassa 287,36 euro (come il suo collega della Commissione Barbieri) per far parte della Commissione Consultiva di toponomastica.
Torino finanzia uno studio per vedere se i campi di calcetto in sintetico fanno male. Milano, città seria e rigorosa, fa collaudare persino le sciarpe delle uniformi d’ordinanza dei «ghisa», ma finanzia corsi di «somatica dello spazio». La Bologna di Sergio Cofferati riscopre invece la sana tradizione comunista della assoluta no-glasnost: nelle tabelle mancano del tutto le descrizioni degli incarichi dei consulenti, e a volta diventa «bianca» pure la colonna con nomi e cognomi.
Roma, invece, riferisce proprio tutte le consulenze, compresi i gettoni di presenza (287,36 euro) per i membri della Commissione «barbieri e parrucchieri». Peccato che la compilazione dei tabulati sia stata affidata a impiegati un po’ intronati e a disagio con gli zeri: ed ecco che i 51.000 euro del progetto «il Presepe come gioco» diventano per 12 ore ben 51 milioni.
Se l’autobus non passa o gli operatori ecologici puliscono male sapete con chi prendervela: il 37% del totale delle consulenze e collaborazioni pagate nel 2006 dalle amministrazioni pubbliche (ovvero, 492 milioni su un miliardo 323 milioni) sono uscite dalle casse dei Comuni.
Sempre che le migliaia di pagine delle tabelle diffuse dal ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta siano davvero complete, cosa di cui è lecito dubitare. Molti esperti e addetti ai lavori sono pronti a giurare che la torta delle consulenze sia molto più grande, probabilmente doppia: due miliardi, forse due miliardi e mezzo di euro l’anno.
Un po’ per inefficienza, un po’ per errori materiali o «dimenticanze» più o meno interessate, appare evidente a chi consulta i dati resi pubblici sul sito del ministero (http://www.innovazionepa.gov.it) che qualcuno ci ha «marciato». Altrimenti non si spiegherebbe che la lista relativa al Comune di Roma sia lunga il triplo di quella di Milano (che non fa cenno alle docenze dei corsi di formazione, tanto per fare un esempio).
TORINO
Probabilmente si poteva sopravvivere senza i 54.000 e stanziati perché il Politecnico studiasse «l’applicazione di analisi a rischio sanitario-ambientale sui campi in erba sintetica». E perché si è chiesto al signor Tarditi di realizzare (per 3.040 euro) due «vademecum informativi dei prodotti ittici»? C’è da giurare che con i 100 euro pagati per un «progetto grafico» il signor Griffo non sia certo arricchito. Piazza Solferino e il suo sponsor village durante le Olimpiadi dev’essere stata davvero una meraviglia: per «studiare il layout», i decori e progettare manufatti e allestimento il sindaco Chiamparino ha speso bei 212.640 euro. E infine, chissà se il gruppo «gestione del conflitto» guidato dalla signora Da Milano per 1.530 euro avrà portato più pace in città.
BOLOGNA
La rossa Bologna a quanto pare ama il segreto. Le caselle con la descrizione degli incarichi sono tutte in bianco; e dunque non si saprà mai perché al signor Bortolotti sono state assegnate «consulenze» per 120 euro, mentre ce n’erano 243.266 per il signor Conti e quasi 250.000 per il signor Fiori. Per non parlare delle consulenze in cui l’unica cosa nota è lo stanziamento: 146.880, 79.050, ecc.
MILANO
Milano è una città europea, moderna: e giustamente paga consulenti perché le caldaie funzionino bene. E scrupolosa: ha pagato 492 euro al signor Ceriani per «collaudo fornitura sciarpe per la Polizia municipale» e «collaudo di tessuti in genere», 67 al signor Bayre per «collaudo di prodotti di pellame». Ma è anche una città eclettica ed «aperta»: finanzia corsi di riflessologia plantare (1.809 euro), naturopatia e iridologia (8.283), découpage (1.312,50), ballo normale e ballo liscio (2.777), training autogeno (936), corsi di misteriosa «somatica dello spazio» (1.512 euro). E pure il rebirthing, che è valso alla signora Caliandro una consulenza da 45.493 euro. Paolo Glisenti, coordinatore dei rapporti istituzionali del sindaco Moratti, invece, ha uno stanziamento da 165.000 euro.
ROMA
La Capitale ha stanziato quasi 1,5 milioni per un corso di formazione di informatica per 3.300 dipendenti. Speriamo che serva. Intanto si spendono 2.000 euro perché il signor Balocchi inventi il calendario della Polizia Municipale, e 1.300 perché il signor Corso collaudi il vestiario dei vigili. E il grande linguista Tullio De Mauro incassa 287,36 euro (come il suo collega della Commissione Barbieri) per far parte della Commissione Consultiva di toponomastica.
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Perché non torno
Il nostro gagliardo ministro della Giustizia
Si può raccontare quello che si vuole, ma l'Italia non è più un paese democratico e rappresenta un vero problema a livello europeo. Non c'è però grande differenza fra destra e sinistra. Berlusconi ha distrutto la televisione italiana, ma gli eredi del PCI non sono stati da meno, con l'aggravante che molti sono entrati a Montecitorio con le pezze al culo e ne sono usciti in Mercedes. Il DDL sulle intercettazuioni rappresenta un fatto inaudito che nell'Italia di Raiset non viene raccontato nella sua gravita.
Questo pezzo di Travaglio spiega un po' la situazione. Travaglio non è il migliore giornalista del mondo, ma ci sono larghe parti del suo ragionamento assolutamente condivisibili. Questo schifo d'informazione (Sky a parte) che ammorba l'Italia non spiega nulla. Forse quest articolo schiarirà un po' le idee. Personalmente io me ne sono andato proprio per non lavorare a queste condizioni. Un esempio? Grottaglie dove il sindaco del paese di cui sono originario denuncia abbastanza facilmente i cronisti che si azzardano a criticarlo. una legge, quella italiana, che non tutela i giornalisti (categoria idi cui fanno parte molti cani, ma anche tante persone perbene).
Marco Travaglio per “l’Unità”
L’altro giorno, fingendo di avanzare un’«ipotesi di dottrina», Giovanni Sartori ha messo in guardia sulla Stampa dai «dittatori democratici» e ha spiegato: «Con Berlusconi il nostro resta un assetto costituzionale in ordine, la Carta della Prima Repubblica non è stata abolita. Perché non c’è più bisogno di rifarla: la si può svuotare dall’interno».
«Si impacchetta la Corte costituzionale, si paralizza la magistratura. si può lasciare tutto intatto, tutto il meccanismo di pesi e contrappesi. E di fatto impossessarsene, occuparne ogni spazio. Alla fine rimane un potere 'transitivo' che traversa tutto il sistema politico e comanda da solo».
Non poteva ancora sapere quel che sarebbe accaduto l'indomani: il governo non solo paralizza la magistratura, ma imbavaglia anche l'informazione abolendo quella giudiziaria. E, per chi non avesse ancora capito che si sta instaurando un regime, sguinzaglia pure l'esercito per le strade. Nei giorni scorsi abbiamo illustrato i danni che il ddl Berlusconi-Ghedini-Alfano sulle intercettazioni provocherà sulle indagini e i processi. Ora è il caso di occuparci di noi giornalisti e di voi cittadini, cioè dell'informazione. Che ne esce a pezzi, fino a scomparire, per quanto riguarda le inchieste della magistratura.
Il tutto nel silenzio spensierato e irresponsabile delle vestali del liberalismo e del garantismo un tanto al chilo. Che, anzi, non di rado plaudono alle nuove norme liberticide.
Non si potrà più raccontare nulla, ma proprio nulla, fino all'inizio dei processi. Cioè per anni e anni. Nemmeno le notizie «non più coperte da segreto», perché anche su quelle cala un tombale «divieto di pubblicazione» che riguarda non soltanto gli atti e le intercettazioni, ma anche il loro «contenuto». Non si potrà più riportarli né testualmente né «per riassunto».
Nemmeno se non sono più segreti perché notificati agli indagati e ai loro avvocati. Niente di niente. L'inchiesta sulla premiata macelleria Santa Rita, con la nuova legge, non si sarebbe mai potuta fare. Ma, anche se per assurdo si fosse fatta lo stesso, i giornali avrebbero dovuto limitarsi a comunicare che erano stati arrestati dei manager e dei medici: senza poter spiegare il perché, con quali accuse, con quali prove.
Anche l'Italia, come i regimi totalitari sudamericani, conoscerà il fenomeno dei desaparecidos: la gente finirà in galera, ma non si saprà il perché. Così, se le accuse sono vere, le vittime non ne sapranno nulla (i famigliari dei pazienti uccisi nella clinica milanese, che stanno preparando una class action contro i medici assassini, sarebbero ignari di tutto e lo resterebbero fino all'apertura del processo, campa cavallo). Se le accuse invece sono false (come nel caso di Rignano Flaminio, smontato dalla libera stampa), l'opinione pubblica non potrà più sapere che qualcuno è stato ingiustamente arrestato, né come si difende: insomma verrà meno il controllo democratico dei cittadini sulla Giustizia amministrata in nome del popolo italiano.
Chi scrive qualcosa è punito con l'arresto da 1 a 3 anni e con l'ammenda fino a 1.032 euro per ogni articolo pubblicato. Le due pene - detentiva e pecuniaria - non sono alternative, ma congiunte. Il che significa che il carcere è sempre previsto e, anche in un paese dov'è difficilissimo finire dentro (condizionale fino a 2 anni, pene alternative fino a 3), il giornalista ha ottime probabilità di finirci: alla seconda o alla terza condanna per violazione del divieto di pubblicazione (non meno di 9 mesi per volta), si superano i 2 anni e si perde la condizionale; alla quarta o alla quinta si perde anche l'accesso ai servizi sociali e non resta che la cella. Checchè ne dica l'ignorantissimo ministro ad personam Angelino Alfano.
E non basta, perché i giornalisti rischiano grosso anche sul fronte disciplinare: appena uno viene indagato per aver informato troppo i suoi lettori, la Procura deve avvertire l'Ordine dei giornalisti affinchè lo sospenda per 3 mesi dalla professione. Su due piedi, durante l'indagine, prim'ancora che venga eventualmente condannato. A ogni articolo che scrivi, smetti di lavorare per tre mesi. Se scrivi quattro articoli, non lavori per un anno, e così via.Così ti passa la voglia d'informare. Anche perché, oltre a pagare la multa, finire dentro e smettere di lavorare, rischi pure di essere licenziato.
D'ora in poi le aziende editoriali dovranno premunirsi contro eventuali pubblicazioni di materiale vietato, con appositi modelli organizzativi, perché il «nuovo» reato vien fatto rientrare nella legge 231 sulla responsabilità giuridica delle società. Significa che l'editore, per non vedere condannata anche la sua impresa, deve dimostrare di aver adottato tutte le precauzioni contro le violazioni della nuova legge. Come? Licenziando i cronisti che pubblicano troppo e i direttori che glielo consentono. Così usciranno solo le notizie che interessano agli editori:quelle che danneggiano i loro concorrenti o i loro nemici (nel qual caso l'editore si sobbarca volentieri la multa salatissima prevista dalla nuova legge, da 50 mila a 400 mila euro per ogni articolo, e accetta di buon grado il rischio di veder finire in tribunale la sua società).
La libertà d'informazione dipenderà dalle guerre per bande politico-affaristiche tra grandi gruppi. E tutte le notizie non segrete non pubblicate? Andranno ad alimentare un sottobosco di ricatti incrociati e di estorsioni legalizzate: o paghi bene, o ti sputtano. Ultima chicca: il sacrosanto diritto alla rettifica di chi si sente danneggiato o diffamato, già previsto dalla legge attuale, viene modificato nel senso che la rettifica dovrà uscire senza la replica del giornalista. Se Tizio, dalla cella di San Vittore, scrive al giornale che non è vero che è stato arrestato, il giornalista non può nemmeno rispondere che invece è vero, infatti scrive da San Vittore. A notizia vera si potrà opporre notizia falsa, senza che il lettore possa più distinguere l'una dall'altra. Tutto ciò, s'intende, se i giornalisti si lasceranno imbavagliare senza batter ciglio.
Personalmente, annuncio fin d'ora che continuerò a informare i lettori senza tacere nulla di quel che so. Continuerò a pubblicare, anche testualmente, per riassunto, nel contenuto o come mi gira, atti d'indagine e intercettazioni che riuscirò a procurarmi, come ritengo giusto e doveroso al servizio dei cittadini. Farò disobbedienza civile a questa legge illiberale e liberticida. A costo di finire in galera, di pagare multe, di essere licenziato. Al primo processo che subirò, chiederò al giudice di eccepire dinanzi alla Consulta e alla Corte europea la illegittimità della nuova legge rispetto all'articolo 21 della Costituzione e all'articolo 10 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo e le libertà fondamentali («Ogni persona ha diritto alla libertà d'espressione.
Tale diritto include la libertà d'opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche», con possibili restrizioni solo in caso di notizie «riservate» o dannose per la sicurezza e la reputazione). Mi auguro che altri colleghi si autodenuncino preventivamente insieme a me e che la Federazione della Stampa, l'Unione Cronisti, l'associazione Articolo21, oltre ai lettori, ci sostengano in questa battaglia di libertà. Disobbedienti per informare. Arrestateci tutti.
Si può raccontare quello che si vuole, ma l'Italia non è più un paese democratico e rappresenta un vero problema a livello europeo. Non c'è però grande differenza fra destra e sinistra. Berlusconi ha distrutto la televisione italiana, ma gli eredi del PCI non sono stati da meno, con l'aggravante che molti sono entrati a Montecitorio con le pezze al culo e ne sono usciti in Mercedes. Il DDL sulle intercettazuioni rappresenta un fatto inaudito che nell'Italia di Raiset non viene raccontato nella sua gravita.
Questo pezzo di Travaglio spiega un po' la situazione. Travaglio non è il migliore giornalista del mondo, ma ci sono larghe parti del suo ragionamento assolutamente condivisibili. Questo schifo d'informazione (Sky a parte) che ammorba l'Italia non spiega nulla. Forse quest articolo schiarirà un po' le idee. Personalmente io me ne sono andato proprio per non lavorare a queste condizioni. Un esempio? Grottaglie dove il sindaco del paese di cui sono originario denuncia abbastanza facilmente i cronisti che si azzardano a criticarlo. una legge, quella italiana, che non tutela i giornalisti (categoria idi cui fanno parte molti cani, ma anche tante persone perbene).
Marco Travaglio per “l’Unità”
L’altro giorno, fingendo di avanzare un’«ipotesi di dottrina», Giovanni Sartori ha messo in guardia sulla Stampa dai «dittatori democratici» e ha spiegato: «Con Berlusconi il nostro resta un assetto costituzionale in ordine, la Carta della Prima Repubblica non è stata abolita. Perché non c’è più bisogno di rifarla: la si può svuotare dall’interno».
«Si impacchetta la Corte costituzionale, si paralizza la magistratura. si può lasciare tutto intatto, tutto il meccanismo di pesi e contrappesi. E di fatto impossessarsene, occuparne ogni spazio. Alla fine rimane un potere 'transitivo' che traversa tutto il sistema politico e comanda da solo».
Non poteva ancora sapere quel che sarebbe accaduto l'indomani: il governo non solo paralizza la magistratura, ma imbavaglia anche l'informazione abolendo quella giudiziaria. E, per chi non avesse ancora capito che si sta instaurando un regime, sguinzaglia pure l'esercito per le strade. Nei giorni scorsi abbiamo illustrato i danni che il ddl Berlusconi-Ghedini-Alfano sulle intercettazioni provocherà sulle indagini e i processi. Ora è il caso di occuparci di noi giornalisti e di voi cittadini, cioè dell'informazione. Che ne esce a pezzi, fino a scomparire, per quanto riguarda le inchieste della magistratura.
Il tutto nel silenzio spensierato e irresponsabile delle vestali del liberalismo e del garantismo un tanto al chilo. Che, anzi, non di rado plaudono alle nuove norme liberticide.
Non si potrà più raccontare nulla, ma proprio nulla, fino all'inizio dei processi. Cioè per anni e anni. Nemmeno le notizie «non più coperte da segreto», perché anche su quelle cala un tombale «divieto di pubblicazione» che riguarda non soltanto gli atti e le intercettazioni, ma anche il loro «contenuto». Non si potrà più riportarli né testualmente né «per riassunto».
Nemmeno se non sono più segreti perché notificati agli indagati e ai loro avvocati. Niente di niente. L'inchiesta sulla premiata macelleria Santa Rita, con la nuova legge, non si sarebbe mai potuta fare. Ma, anche se per assurdo si fosse fatta lo stesso, i giornali avrebbero dovuto limitarsi a comunicare che erano stati arrestati dei manager e dei medici: senza poter spiegare il perché, con quali accuse, con quali prove.
Anche l'Italia, come i regimi totalitari sudamericani, conoscerà il fenomeno dei desaparecidos: la gente finirà in galera, ma non si saprà il perché. Così, se le accuse sono vere, le vittime non ne sapranno nulla (i famigliari dei pazienti uccisi nella clinica milanese, che stanno preparando una class action contro i medici assassini, sarebbero ignari di tutto e lo resterebbero fino all'apertura del processo, campa cavallo). Se le accuse invece sono false (come nel caso di Rignano Flaminio, smontato dalla libera stampa), l'opinione pubblica non potrà più sapere che qualcuno è stato ingiustamente arrestato, né come si difende: insomma verrà meno il controllo democratico dei cittadini sulla Giustizia amministrata in nome del popolo italiano.
Chi scrive qualcosa è punito con l'arresto da 1 a 3 anni e con l'ammenda fino a 1.032 euro per ogni articolo pubblicato. Le due pene - detentiva e pecuniaria - non sono alternative, ma congiunte. Il che significa che il carcere è sempre previsto e, anche in un paese dov'è difficilissimo finire dentro (condizionale fino a 2 anni, pene alternative fino a 3), il giornalista ha ottime probabilità di finirci: alla seconda o alla terza condanna per violazione del divieto di pubblicazione (non meno di 9 mesi per volta), si superano i 2 anni e si perde la condizionale; alla quarta o alla quinta si perde anche l'accesso ai servizi sociali e non resta che la cella. Checchè ne dica l'ignorantissimo ministro ad personam Angelino Alfano.
E non basta, perché i giornalisti rischiano grosso anche sul fronte disciplinare: appena uno viene indagato per aver informato troppo i suoi lettori, la Procura deve avvertire l'Ordine dei giornalisti affinchè lo sospenda per 3 mesi dalla professione. Su due piedi, durante l'indagine, prim'ancora che venga eventualmente condannato. A ogni articolo che scrivi, smetti di lavorare per tre mesi. Se scrivi quattro articoli, non lavori per un anno, e così via.Così ti passa la voglia d'informare. Anche perché, oltre a pagare la multa, finire dentro e smettere di lavorare, rischi pure di essere licenziato.
D'ora in poi le aziende editoriali dovranno premunirsi contro eventuali pubblicazioni di materiale vietato, con appositi modelli organizzativi, perché il «nuovo» reato vien fatto rientrare nella legge 231 sulla responsabilità giuridica delle società. Significa che l'editore, per non vedere condannata anche la sua impresa, deve dimostrare di aver adottato tutte le precauzioni contro le violazioni della nuova legge. Come? Licenziando i cronisti che pubblicano troppo e i direttori che glielo consentono. Così usciranno solo le notizie che interessano agli editori:quelle che danneggiano i loro concorrenti o i loro nemici (nel qual caso l'editore si sobbarca volentieri la multa salatissima prevista dalla nuova legge, da 50 mila a 400 mila euro per ogni articolo, e accetta di buon grado il rischio di veder finire in tribunale la sua società).
La libertà d'informazione dipenderà dalle guerre per bande politico-affaristiche tra grandi gruppi. E tutte le notizie non segrete non pubblicate? Andranno ad alimentare un sottobosco di ricatti incrociati e di estorsioni legalizzate: o paghi bene, o ti sputtano. Ultima chicca: il sacrosanto diritto alla rettifica di chi si sente danneggiato o diffamato, già previsto dalla legge attuale, viene modificato nel senso che la rettifica dovrà uscire senza la replica del giornalista. Se Tizio, dalla cella di San Vittore, scrive al giornale che non è vero che è stato arrestato, il giornalista non può nemmeno rispondere che invece è vero, infatti scrive da San Vittore. A notizia vera si potrà opporre notizia falsa, senza che il lettore possa più distinguere l'una dall'altra. Tutto ciò, s'intende, se i giornalisti si lasceranno imbavagliare senza batter ciglio.
Personalmente, annuncio fin d'ora che continuerò a informare i lettori senza tacere nulla di quel che so. Continuerò a pubblicare, anche testualmente, per riassunto, nel contenuto o come mi gira, atti d'indagine e intercettazioni che riuscirò a procurarmi, come ritengo giusto e doveroso al servizio dei cittadini. Farò disobbedienza civile a questa legge illiberale e liberticida. A costo di finire in galera, di pagare multe, di essere licenziato. Al primo processo che subirò, chiederò al giudice di eccepire dinanzi alla Consulta e alla Corte europea la illegittimità della nuova legge rispetto all'articolo 21 della Costituzione e all'articolo 10 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo e le libertà fondamentali («Ogni persona ha diritto alla libertà d'espressione.
Tale diritto include la libertà d'opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche», con possibili restrizioni solo in caso di notizie «riservate» o dannose per la sicurezza e la reputazione). Mi auguro che altri colleghi si autodenuncino preventivamente insieme a me e che la Federazione della Stampa, l'Unione Cronisti, l'associazione Articolo21, oltre ai lettori, ci sostengano in questa battaglia di libertà. Disobbedienti per informare. Arrestateci tutti.
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