giovedì, novembre 24, 2005

L'Inter secondo la Lega

L'articolo mi piace. Che la Padania difenda l'italianità però, mi stupisce. Dopo le divertenti sceneggiate del dio Po e di Braveheart che il giornale della Lega tiri fuori un tema del genere non può che fare piacere. Peccato che poi alle parole non seguano i fatti...


Undici giocatori, undici stranieri: l’Inter che ieri sera ha giocato la sua partita di Champions contro l’Artmedia è il fallimento del calcio. Il calcio è identità. È passione. È anche sapere declinare la formazione con l’orgoglio di sentirsi parte di un gruppo.
Internazionale lo si è non perché in campo va una Babele di lingue, di razze, di tradizioni e scuole calcistiche (se ha ancora un senso parlare di scuole calcistiche in un calcio globale). Undici stranieri in campo significa ammettere che non esistono giocatori italiani buoni e degni di vestire la maglia da titolare. Certo, ci verranno a dire che è il frutto del turn-over: cretinate, l’Inter farebbe bene a trovare un suo equilibrio in campo se vuole vincere. Ma questi sono affari di Mancini.
Luca Toni - l’uomo d’oro del pallone italico - gioca ogni domenica che il padreterno manda in terra e ogni domenica la butta dentro. Oggi Toni, ieri Gilardino, Lucarelli. Come un po’ di tempo fa Bobone Vieri, Del Piero, Montella, Dario Hubner, Pietro Paolo Virdis, Paolo Rossi, Bonimba, Riva “rombo di tuono” e altri.
Ma che cosa aspettarsi da un patron come Moratti che inquina le maglie della gloria nerazzurra con le scritte in cinese per motivi di marketing? Che razza di calcio è questo?
È così che crediamo di andare a vincere i mondiali? Beamoci pure dell’imbattibilità della nazionale di Lippi: vedremo se alzeremo una coppa che conta o se, ancora una volta, ce ne torneremo a casa a leccarci le ferite.
Abbiamo voluto aprire le frontiere perché - dicevano gli esperti - ci sarebbe stato più spettacolo: calcio champagne, saremmo diventati tutti brasileri... E infatti si vede: stadi deserti, bidoni col passaporto straniero venduti per campioni, tante promesse di vittorie in estate e poca concretezza in autunno. Godo per Toni che esulta ogni domenica alla faccia degli Imperatori che durano l’arco di una stagione. E godo per i capricci di Cassano: meglio questo simpatico terroncello combinaguai (lo dico con affetto) piuttosto che Recoba o di chi va al Carnevale di Rio e poi torna di malavoglia.
Quanti bidoni ci sono passati sotto gli occhi: ci volevano vendere la magia e invece la magia del pallone ce l’hanno rotta.
Fateci caso: se ne parla d’estate e poi il silenzio. Dovrebbe parlare il campo. Ma il campo, se parla, parla mille lingue diverse. Le squadre snocciolano formazioni globali su magliette appannaggio degli sponsor e non dei tifosi. Per ogni straniero in campo, un pezzo di vivaio che se ne va irrimediabilmente.
Dove andremo? A cancellare il calcio. Anzi, lo sport tutto, perché nel basket siamo messi peggio. E bene sta facendo il presidente del Coni Gianni Petrucci a prendere di petto la situazione. Aspettarsi che qualcuno lo faccia nel calcio è chiedere troppo? So che c’è anche un sindacato dei calciatori: cosa aspetta a muoversi? Cosa aspetta a buttare un occhio in quello che stanno facendo nei settori giovanili dove si prendono gioco del futuro dei nostri bambini, illudendo loro e, soprattutto, mamme e papà “complici stupidi” di questo meccanismo fuori da ogni logica?
L’Inter di ieri sera in campo è l’esagerazione; ma non è che Juve, Milan, Udinese e le altre siano messe meglio. Pochi pochi si salvano. Certo, potremmo dare risalto a loro, e lo faremo. Ma non mi faccio illusioni: io ormai abdico da tifoso (non da rompicoglioni, però…) ed emigro in Spagna, a Bilbao, dove nell’Atletico gioca solo chi rivendica o condivide l’orgoglio e l’identità del popolo basco: zero mercenari del pallone. Le multinazionali non entrano nel tempio biancorosso. La storia non è in vendita, costi quel che costi. L’Atletico gioca nella Liga, la nostra serie A, non gioca sulla luna o nel fantacalcio o ancora nell’album dei ricordi. Gioca e fa divertire una tifoseria rude e rabbiosa se si tocca l’orgoglio basco. Hanno un inno che richiama la storia autonomista. Hanno un cuore, un orgoglio, una bandiera (anche se in questo momento la squadra non gode di buona salute). È quello che manca nel nostro calcio, pallonaro e venduto.
Gianluigi Paragone

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