venerdì, settembre 30, 2005

Il piu fedele amico del presidente

Cari bambini,

Vi racconterò una storia, anzi, non ve la racconterò io. A farlo sarà Connie, la devotissima cagnetta del presidente Putin. Scritto da Irina Borisova il libro s'intititola Connnie's Story. State attenti bambini, a cercare su google. Prima di trovare la simpatica faccina del quadrupede, sono finito su siti porno, oppure di impianti, nel senso di chirurgia estetica.

La Borisova si diceva, ha dato alle stampe un libro sul cane del presidente Putin, un simpatico Labrador che si vede spesso in tv scodinzolante fra le gambe dei potenti della terra. Il cagnolino fa affermazioni dirompenti: "Non voglio che il mio padrone sia arrabbiato con me. Mi piace quando è contento di me". Accipicchia!
Altra peculiarità, il libro è stato scritto in inglese sia (forse) per insegnare ai teneri virgulti russi ad adorare il presidente anche in una lingua diversa da quella natìa, che (molto più probabile) nella speranza che qualche matto ne compri i diritti anche all'estero. Il risultato provocato da questo testo fondamentale, che sicuramente troverà il posto che merita nella letteratura russa d'ogni tempo, è stato però quello di provocare un vero dibattito.
In molti, fra cui il Moscow Times, si sono chiesti se questo cagnone non sia in realtà il prototipo del consigliere tipo al Cremlino di oggi. Putin, sempre aperto alla franca discussione, preferisce forse circondarsi di persone che non lo contraddicano, nella più fulgida tradizione del PCUS? Pretende forse dai suoi collaboratori la cieca obbedienza dovutagli dal botolo?
In un impeto di indipendentismo i giornali hanno addirttura malignato che il nome Connie sia stato "ispirato" da Condoleeza Rice (potentissimo segretaro di stato USA) mai particolarmente amata a Mosca.
La Deskaia Literatura, la casa editrice, ha negato che ci sia nulla di politico. La storia non vuole essere agiografica, non c'è nulla di politico. Il cane fu regalato al presidente dal ministro della protezione civile Serghei Shoigu quando era un cucicolo di tre mesi. Ora è cresciuto è vuol far sentire la sua voce. Vuol far sapere a tutti che è il più fedele e ubbidiente amico del presidente. Ed è in numerosa compagnia.

Ecco il libro che non può mancare nella biblioteca di nessuno. Va messo fra Dostoievski e i fumetti del Tromba.

giovedì, settembre 29, 2005

Consumatori, non consumati

Una piccola storia. Discalica, ma estremamente esaustiva che non credo potrebbe verificarsi nel belpaese.
Madrid. Una signora trova nella buca delle lettere uno di quei fastidiosissimi volantini pubblicitari. Questa volta però c'è qualcosa di nuovo. Si tratta della pubblicità di una importante casa automobilistica (la ometto per umana pietà). La signora legge e vede che il prezzo per un'automobile che costa genralmente sui 45.000 euro è: 9000! Un affare. La signora in questione si reca al concessionario e pretende ovviamente di comprare la macchina. I commessi la sfottono un po' e poi le spiegano, con compatimento, come fanno sempre i commessi stronzi, che: "Un prezzo del genere è fuori del mercato, è un errore". La signora sorride. Ringrazia e se ne va. A casa? Nooo. La signora si dirige a un'entità che si chiama Istituto Regional de Arbitraje de Consumo (un'autorithy pubblica a cui possono rivolgersi i comsumatori). Il risultato? Il concessionario è stato condannnato a vendere l'auto al prezzo stampato sul volantino. La motivazione? L'importo pubblicizzato con dati erronei non era stato minimamente corretto ovvero non era stato distribuito un altro volantino con i nuovi dati (più vicini evidentemente ai prezzi del mercato) e nemmeno il concessionario aveva sentito l'obbligo di esporre un cartello dove si menzionava l'errore. Ve la immaginate una cosa simile in Italia? Io no.

Nella foto il titolare della concessionaria che apprende la notizia: è stato condannato a vendere l'auto a un prezzo irrisorio.

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mercoledì, settembre 28, 2005

Religione & idioti 1)



La religione è una cosa che mi ha sempre afffascinato. Credo sia troppo importante per lasciarla ai fanatici. Ne abbiamo continuamente degli esempi. I due che in ordine di tempo mi vengono in mente sono un oscuro ulema di Calcutta che si scagliato contro la tennista, indiana anche lei, della minoranza islamica, Sania Mirza. Ha appena 18 anni, ma è considerata una dei talenti del tennis mondiale. Questo malato non si è limitato a condannare il fatto che una ragazza, giovane, bella e vincente con il suo abbigliamento offenda la religione. Questo signore (chiamarlo clerico è troppo) è arrivato a scagliare una fatwa contro questa ragazza. Purtroppo questi omini che aprono la bocca con queste scioccchezze (che portano tanta pubblicità) sono una delle vere cancrene di una grande religione: l'Islam. Magari li becca un fulmine.

PS il secondo malato ve lo racconto in un altro post che devo uscire....

PS PS vi allego un'altra, eroticissima, immagine della svergognata tennista. Mi raccomando, occhio alle coronarie.

martedì, settembre 27, 2005

Colore, colori


La vita può essere grigia e noiosa. Per questo voglio postare le immagini di una mostra di Keith Haring a Milano.
Sono pazzo di quest uomo morto troppo presto, portato via da un male incurabile (almeno incurabile all'epoca). È stato il re dei graffiti. Girava armato di bombolette nella metropolitana di New York e cercava di non farsi beccare prima di terminare la sua opera. Pare che persino alcuni dei poliziotti che lo hanno più volte arrestato amassero le sue opere. Non dipingeva sui vagoni, ma solo negli spazi destinati alla pubblicità. Questa si, una scelta dirompente. È morto nel 1990, a 31 anni.

Cresciuto in una piccola cittadina conservatrice della Pennsylvania, il più vecchio di cinque figli, l'unico maschio, con il padre ingegnere e la madre casalinga, arriva a New York nel 1978 per frequentare la Scuola di Arti Visive. Nel 1982 si fa davvero conoscere con la sua prima personale a Soho nella galleria di Tony Shafrazi. Nel 1984, tante mostre personali a Tokyo, Napoli, Anversa, Londra, Colonia e altre due a New York. Dipinse tre murales in Australia, il negozio Fiorucci di Milano, un edificio a Tokyo e il corpo del ballerino Bill T. Jones a Londra.

come un'Angela in una cristalleria


Quante cose sono successe in questi anni. Ultima in ordine la vittoria-sconfitta della prima candidata donna alla cancelleria tedesca: Angela Merkel. Dopo le politiche tanto lei, quanto il suo oppositore Gerad Schröder, cantano vittoria e il diritto a guidare il nuovo esecutivo, ma come stanno le cose? La democrazia cristiana (le Unioni CDU/CSU) ha conquistato il 35,2% mentre lo SPD di Gerardo porta a casa un 34,1%. Un risultato inverosimile solo poche settimane fa quando Angela era accreditata di 20 punti percentuali di vantaggio.
La Merkel però, nulla ha potuto contro il suo avversario più acerrimo quell 'Edmund Stoiber che sorrideva accanto a lei sul palco giurando di scacciare i bolscevichi della cancelleria, ma che in cuor suo sperava nella sconfitta di quella ragazzotta dell’est venuta a interrompere i sogni di vittoria del “presidente della Baviera”. Stoiber alle ultime elezioni perse per 6027 voti. La Merkel in proporzione le ha buscate. E di brutto. Certo, viene da chiedersi come sia possibile mettere al lato di un candidato alla cancelleria (Merkel) il suo peggiore rivale (Stoiber) che ha nell’ordine:
1) considerato il resto dei tedeschi, soprattutto quelli dell’est, non così intelligenti come i bavaresi;
2) definito dei frustrati e falliti i tedeschi dei nuovi länder che non possono (sic) decidere del futuro della Germania,
3) chiamato i tedeschi dell'est (aridaje) suicidi disposti a votare per un partito sconftto dalla storia.
Il risultato è stato un pessimo risultato della CDU all’est battuta perfino dai transfughi dello SPD guidati da un altro personaggio abbastanza istrionico, Oskar Lafontaine.
Per la matematica, Angela ha vinto, ma questa vittoria è una vittoria di Pirro. Con i liberali della FDP la Merkel arriverebbe a un poco più del 45% e le mancherebbero un 15 scranni per eleggere la leader conservatrice. È probabile poi che alcuni baroni della CDU (i potentissimi presidenti dei länder tedeschi) passino alla cassa a ritirare il conto di un sostegno che non ha portato i risultati sperati. La Merkel dovrà dire perché ha scelto come ministro-ombra dell’economia uno come Paul Kirchhof, una specie di Tremonten (a buon intenditor) votato alla trasformazione del sistema sociale tedesco. Un sistema che ha certo molte pecche, ma che non poteva essere riformato a colpi di tagli come avrebbe voluto il professore scelto da Angela. La Merkel dovrebbe prima di tutto licenziare i suoi consigli per alcune uscite suicide come l’annuncio di aumentare l’iva, tagliare le sovvenzioni al lavoro notturno e nei giorni feriali e la dovuta accettazione del la lavoro offerto anche se lontano dalla residenza abituale (se per te del sud c’è un lavoro al nord o lo prendi o perdi tutti i sussidi) si capisce il perché di questo risultato. La Merkel può aver vinto, ma dovrà rassegnarsi a stare sul filo, sottoposta ai ricatti della FDP di Guido Westerwelle (una specie di Nicolazzi con più capelli), o addirittura rassegnarsi alla coalizione-Jamaica Verdi + Liberali. Alla fine dei conti uno si chiede: ma il duo Merkel-Stoiber era davvero il migliore?

La Merkel mentre si dice disponibile a un franco dialogo con l'opposizione

sabato, settembre 24, 2005

Quanto m'attizza st'omo

Un surfista si difende da uno squalo prendendolo a pugni. Forse quest uomo era un po' miope ("lo avevo scambiato per una foca"), ma come fare a non restare colpiti da uno così?

SYDNEY - Prendere a pugni uno squalo sembra esser il modo più sicuro per sopravvivere ad un attacco. Lo prova la vicenda Brad Satchell, un surfista australiano di 44 anni. L'uomo ieri era a 120 metri al largo della popolare spiaggia Scarborough a Perth, quando è stato attaccato da un piccolo squalo.

Il surfista - che è rimasto illeso - ha spiegato di aver scambiato in un primo tempo l'animale per una foca, poi, quando si è reso conto del pericolo, ha usato la sua tavola come scudo mentre il pescecane, lungo più di un metro, ha iniziato ad attaccarlo.

"Sono uscito dall'acqua, avevo solo i miei pugni e mi sono ricordato di quello che avevo letto una volta. Allora ho iniziato a colpire", ha detto Brad Satchell alla radio Australian Broadcasting Corp..

Un episodio simile è avvenuto all'inizio del mese. Il 4 settembre, un surfista di 40 anni, Jake Heron, è stato attaccato sotto gli occhi terrorizzati dei suoi due figli. L'uomo è stato morso ad un braccio e la sua tavola è stata distrutta da uno squalo di quattro metri, con cui ha lottato con calci e pugni.

In precedenza, ad agosto, un biologo marino è morto a causa dell'attacco di uno squalo durante un'immersione ad Adelaide. E' stato il secondo attacco fatale nella zona dal dicembre scorso.

In Australia il primo attacco documentato di uno squalo è avvenuto nel 1791. Ci sono stati oltre 630 attacchi durante i successivi 200 anni, i morti sono stati circa 190.
(Fonte: Repubblica.it)

PS Mi permetto di postare anche l'inquietante immagine di tale Totonno detto, per ovvie ragioni, "lo squalo". La foto l'ho trovata sul sito Cosentini in the World. Che fosse lui il malcapitato che incrociava nella acque australiane e che ha incontrato il cazzuto surfista?

Toni, quello che assomiglia a Marco


Una volta chiesero a una psicologa di spiegare a un bambino che cosa fosse la felicità. Quella, che era una persona seria, rispose: “La felicità? Non saprei cosa dirgli, ma saprei cosa fare. Gli darei una palla”. Troverete questa frase sul libro di Eduardo Galeano.
È per questo che il gioco del calcio è il più bello del mondo. Oggi, soprattutto in Italia e Spagna, è diventato una schifezza e non mi appassiona più. L’ultimo giocatore che davvero è riuscito a farmi sognare era un ragazzino di Bari vecchia dalla faccia un po’ così. Uno che quasi non sapeva esprimersi prima di approdare nella grande città. Ebbi la fortuna di vederlo giocare assieme a un giovane nero. Enninaya mi pare si chiamasse. Il primo veniva dai quartieri un po’ disagiati di una città difficile. Il secondo aveva fame e voglia di mostrare al mondo quello che poteva fare un nero se lo si metteva in condizione di giocare ad armi pari con gli altri. Quel barese e quell altro erano poesia allo stato puro. Quando segnavano, molto spesso, gli avversari la prendevano con filosofia. Il portiere non scaricava improperi sulla difesa. Perché quei due non si potevano fermare. Poi Enninaya si è perso. Quell altro, il ragazzino barese, ha invece perso la testa. Poteva diventare il più grande di tutti, ma non ce l’ha fatta. Si parla di lui come di un “talento da gestire”. Io intendo questa frase come se un fenomeno da baraccone dovesse essere ben gestito perché renda di più.
Mi sono allontanato dal gioco del calcio perché ormai mi annoiava. Eppure, nonostante tutto, esistono ancora dei giocatori che ogni tanto ci riescono a farmi sognare. Uno è Luca Toni. Cosa ha che fare questo lungagnone che chiamano Tiramolla con il genietto di Bari vecchia? Toni fa cose impobbili. El Pais gli dedicò un articolo splendido. Diceva pressappoco così.

Non lo aiutavano né il nome né la fortuna. Quella storia del nome sembrava una sciocchezza, però pesa: Toni. Fa pensare a una partita di quartiere, a un campo senza erba e a una panchina. Luca Toni poi, non aveva alternative: o Luca o Toni. A proposito della fortuna vale la testimonianza di Marta, la fidanzata di sempre. “Quando lo conobbi era un po’ sfigato”. Marta lo incontrò cinque anni fa, nel momento più basso della sua carriera di calciatore. Se una successione di fallimenti come quella si poteva chiamare carriera.

Toni iniziò nel 1994 nel Modena e la stagione successiva continuò un serie C scendendo poco a poco la scala che porta verso il dimenticatoio. Dopo Modena andò ad Empoli, al Fiorenzuola e alla Lodidigani. Aveva 23 anni e vegetava nella Lodigiani senza prospettive di migliorare. A un’età in cui i grandi calciatori si sono già consacrati o sono sul punto di farlo, Toni decise di lasciare. Fu Marta che lo convinse a provarci. Ancora per un altro po’. Oltretutto non è che lui avesse granché da fare.
Seguì una piccola speranza: Toni passò al Treviso e fece 15 gol. Lo sfigato che sbagliava gol fatti e mandava alla luna i rigori si stava trasformando in un centrattacco apprezzabile, di quelli che danno allegria alle squadre modeste e che poi vengono dimenticati. Lo prese il Vicenza e Toni approdò in serie A. Il massimo a cui poteva aspirare. Nel 2001 passò al Brescia dove giocò due anni e condivise il campo con Roberto Baggio. Era molto più del massimo, era una di quelle storie che i nipotini avrebbero ascoltato più e più volte.
Nel 2003 ritornò in serie B. Aveva 26 anni e la sua carriera iniziava la parabola discendente. Fu in quel momento che accadde qualcosa. Fu come se la sfiga evaporasse e Toni prese a fare cose prodigiose come segnare 30 gol e portare il Palermo in serie A. La stagione successiva fece anche di più: 20 gol e Palermo in coppa Uefa.
Cesare Prandelli è un buon allenatore, che conosce la sfiga. Nel 2004 dovette lasciare il posto di allenatore alla Roma per stare al fianco della moglie malata. Dopo un anno a riposo fu contrattato qualche mese addietro dai Della Valle, i nuovi proprietari della Fiorentina. Pose soltanto una condizione: che gli prendessero Luca Toni. I ricchi Della Valle pagarono 18 milioni di euro al Palermo e si portarono Toni a Firenze.
Luca Toni è, a 28 anni, un attaccante eccezionale. Qualche settimana fa segnò una tripletta con la nazionale. Segnò nella prima di campionato. Segnò anche nella seconda. Ieri la Fiorentina doveva vedersela con un avversario difficile: l’Udinese del bomber Iaquinta. Il duello di arieti ha avuto un chiaro vincitore: Luca Toni che ha segnato due reti e propiziato la terza. Risultato finale 4-1. Iaquinta, dal canto suo, ha segnato un rigore e un gol annullato senza motivo.
Toni è qualcosa di più. Nelle sue ripartenze c’è una elasticità inverosimile. C’è precisione. È impossibile non ripensare a un altro lungagnone (1,88) come lui che segnava gol a grappoli e che, come Toni, ha avuto pochi anni di gloria. Toni è arrivato tardi al successo. Il tipo che viene in mente guardando Toni se n’è andato troppo presto, a 28 anni, pieno di cicatrici. Un peccato perché non ci sarà un altro Marco van Basten. La consolazione è che dal nulla sia spuntato fuori Luca Toni, fino ad oggi il suo miglior surrogato. (E. González)

venerdì, settembre 23, 2005

Fatemi essere politicamente scorretto


Una mia amica carissima mi ha mandato questa perla in spagnolo che mi rifiut di tradurre ma che molti potranno comprendere. Secondo me è splendida.

Enjoy!

Eduard fue a cazar osos, y al encontrarse con un pequeño oso de color marrón le disparó. Entonces sintió un golpecito sobre su hombro y al darse vuelta, vio un gran Oso Negro que le dijo: "Tienes dos opciones; O te golpeo hasta la muerte o nos entendemos con sexo" Eduard decidió agacharse.

Aunque se sintió dolido por 2 semanas, rápidamente se recuperó y juró venganza. Por lo que inició otro viaje para encontrar al Oso Negro y cuando por fin lo encontró le disparó. Entonces sintió otro golpecito en el hombro. Esta vez un enorme Oso Grisáceo estaba a su derecha. Era más grande que el Oso Negro y le dijo: "Esto te va a doler mas a ti que a mí pero tienes dos opciones; o te golpeo hasta la muerte o nos entendemos con sexo". Otra vez Eduard pensó que era mejor perder su dignidad que su vida.

Aunque sobrevivió, pasaron muchos meses hasta que logró recuperarse..
Ultrajado, se dirigió de nuevo al bosque con una sola meta:
¡¡Venganza!!. Logró encontrar la pista del Oso Grisáceo, lo ubicó y le disparó. De nuevo sintió un golpecito en el hombro, giró y vio un gigantesco Oso Polar que mirándolo fijamente le dijo: "Admítelo
Eduard, ...... tu no vienes a cazar."
>>
MORALEJA : La gente vengativa se vuelve Gay !!!

mercoledì, settembre 14, 2005

Io preferisco Mercedes



Non stiamo però parlando di automobili. Mi riferisco invece alle affermazioni della presidente della regione Piemonte intervenuta sul dibattito a proposito delle dichiarazioni del presidente Romano Prodi sui PACS e sulle coppie di fatto. Fango ne verrà gettato molto durante questa lunghissima campagna elettorale, ma le parole del Professore erano state davvero distorte. La Bresso ha detto qualcosa di interessante.

Cosa? Ecco "Credo che per certi versi i Pacs siano perfino meglio del matrimonio perché consentono di non discriminare i cittadini che non vogliono o non possono sposarsi. Le coppie possono essere costituite di omosessuali che non hanno accesso al matrimonio, ma non dimentichiamo che frequentemente si tratta di anziani che sposandosi perderebbero le pensioni che consentono loro di vivere. Ci sono poi coppie che per scelta vivono assieme per 50 anni senza sposarsi ed è assurdo che al compagno di una vita venga negato per esempio l'ingreso in ospedale per l'assistenza. Bene ha fatto Prodi, conclude la Bresso, "a dire ciò che ha detto. Il problema che ci troviamo di fronte è in realtà la discussione annosa sulla laicità dello stato, un valore che va difeso sino in fondo".

giovedì, settembre 08, 2005

Ron English: un artista che ci piace molto.

L'arte, si sa, spesso è provocazione. Ci sono artisti che, forse, non sono tali, ma che sanno scioccare.

Furbi che riescono a vendersi scandalizzando i borghesi. Uno di questi è Andres Serrano, diventato famoso per questo quadro, chiamato "Piss Christ" e la querelle che ne seguì con il senatore repubblicano Jesse Helms contrario (a mio modo di vedere, giustamente) a una rappresentazione che feriva, senza alcun motivo la sensibilità di milioni di credenti, favorevole (una cosa per me opinabile) a proporre l'infame legge che da lui prende il nome. Stiamo parlando della Helms-Burton che inasprisce il blocco contro Cuba vietando i prestiti, i crediti o i finanziamenti da parte di istituzioni o persone degli Stati Uniti a chi "negozi" con qualsiasi proprietà espropriata dal governo di Cuba che sia rivendicata da una "persona degli Stati Uniti".
Solo a titolo didattico ecco cosa altro chiede la legge del senatore:
Gli Stati Uniti si opporranno all'ammissione di Cuba nelle istituzioni finanziarie internazionali e, nel caso qualcuna di queste istituzioni approvasse un credito o qualche altra forma di assistenza a Cuba, gli Stati Uniti sospenderanno i contributi a detta istituzione per un importo uguale a quello concesso a Cuba.
L'Agenzia di informazioni degli Stati Uniti prenderà misure per incrementare le trasmissioni televisive verso Cuba e informerà il Congresso 45 giorni dopo l'approvazione della legge e, successivamente, ogni tre mesi.
Non verrà permessa l'entrata, nel territorio doganale degli Stati Uniti, di zucchero, sciroppi e melasse che siano prodotti da un paese che abbia importato zucchero, sciroppi o melasse da Cuba.
Il presidente farà i passi necessari affinché l'Organizzazione degli Stati Americani (OSA) crei un fondo speciale di non meno di 5 milioni di dollari per impiegare a Cuba ispettori dell'OSA per i diritti umani. Gli Stati Uniti sospenderanno il pagamento dei loro debiti all'OSA, per non meno di 5 milioni di dollari, fino a quando questa organizzazione accetti di fare quanto detto.
Non può essere fatto entrare nel territorio degli Stati Uniti qualsiasi straniero che:
1) abbia confiscato, diretto o supervisionato la confisca, o converta o abbia convertito a beneficio personale, proprietà rivendicate da "persone degli Stati Uniti";
2) negozi con tali proprietà;
3) sia proprietario, funzionario o azionista di un ente che gli Stati Uniti determinino, o vengano informati, che sia stato coinvolto nella confisca, nei negozi, nell'uso, o ottenga beneficio da proprietà rivendicate da una "persona degli Stati Uniti";
4) sia coniuge o figlio di una persona di cui al punto 1.
Ma non stavamo parlando di arte? Certo. Allora ecco un artista sovversivo che ci piace molto.

Si chiama Ron English e ha prodotto alcune delle immagini più belle e controverse di quello che resta un meraviglioso paese: gli Stati Uniti d'America.
Famoso soprattutto per le sue immagini critiche nei confronti della McDonald ha realizzato quadri che, ovviamente, hanno avuto una certa difficoltà a trovare luoghi dove essere esposti, ma che credo abbiano un loro posto nella storia dell'arte contemporanea.

mercoledì, settembre 07, 2005

2005, fuga da New Orleans



Fra i film che mi sono piaciuti quando ero un ragazzino capellone c'erano "1997, Fuga da New York & I guerrieri della notte". Erano due filmoni da adolescenti brufolosi e vuotamente protestatari. Due film talmente assurdi che uno era convinto quelle storie non si sarebbero mai potute verificare. Non in America.
Poi è passata Katrina, una signora che non ha guardato in faccia a nessuno ricordando peersino agli USA la propria condizione limitata di esseri umani.

Ecco un articolo di Repubblica su ciò che è accaduto al Superdome di New Orleans.

I racconti incrociati dei testimoni concordano: scene infernali tra chi si era rifugiato nel Superdome
Stupri, violenze, rapine erano i giorni dell' orrore

Suicidi tra poliziotti e pompieri, 200 hanno disertato il reportage La città è ancora senza legge: ieri almeno 6 criminali uccisi dalla polizia durante una sparatoria scoppiata su un ponte I rapporti della polizia confermano i soprusi. La gente esasperata è arrivata a linciare uno stupratore

DAL NOSTRO INVIATO DANIELE MASTROGIACOMO

NEW ORLEANS - Un silenzio, cupo, profondo, quasi surreale. E poi l' odore, forte, totale, assoluto dei cadaveri in putrefazione. Un odore che ti aggredisce lo stomaco, che impregna ogni cosa. Vestiti, pelle, occhi, bocca. New Orleans è la città dei morti. Decine, centinaia, forse migliaia. Nessuno lo sa e chi lo immagina ha paura ad azzardare solo una cifra. «Credo che sia una verità», ci dice il sindaco Ray Nagin mentre inizia il suo nuovo giro di perlustrazione nella città fantasma seguito dai giornalisti. «I morti sono tanti, tantissimi. Sicuramente molti di più di quelli dell' 11 settembre». Molti cadaveri affiorano dai vicoli che dal quartiere francese immettono su Canal street. Altri sono stati restituiti dalle acque del Lago Pontchartrain. Altri ancora vengono ritrovati nelle loro case. Seduti su una poltrona, distesi sul letto, adagiati per terra, raccolti su loro stessi, aspettando, rassegnati, che morte li portasse via. Mentre un sole rosso fuoco tramonta verso ovest, anche l' ultimo pugno di profughi lascia il Convenction center e il Superdome. La città è ufficialmente evacuata. I racconti di quello che è successo per quattro giorni nell' inferno del Superdome sono raccapriccianti. Racconti dell' orrore. Una violenza fatta non solo di sopraffazione e di arroganza dei più forti e organizzati nei confronti dei più deboli e più indifesi. Ma di torture fisiche e psicologiche, di pretese perverse e maniacali, di regole stabilite e imposte a seconda dell' umore dei capi. Quattro giorni senza legge che si sono trasformate nell' apoteosi della brutalità. Ben presto i boss, alcuni girando con dei machete che brandivano minacciosi, sono diventati i padroni di questo teatro della sofferenza. Centinaia famiglie spaventate e confuse, coppie di anziani abituate ad una vita semplice e regolare, studentesse e commesse dei negozi, fidanzati, ragazzi e bambine, mamme e papà, hanno convissuto quattro giorni e quattro notti con banditi e tagliagole. Nel caos che cresceva di ora in ora, con il sindaco Nagin che si sgolava invocando aiuto, con un pugno di poliziotti diventati loro stessi profughi e prigionieri, la vita dentro il Superdome è diventata un vero inferno. Duecento dei 1.300 agenti della polizia di New Orleans non hanno retto. Senza più casa, con le famiglie decimate, sporchi e laceri, aggrediti dalle gang, non se la sono sentita di andare a fare le ronde nella città preda dei saccheggiatori. Hanno preferito disertare. «Li capisco», dice il capo della polizia, Henry White Horn. «Erano disgustati di come si stava gestendo la situazione. Hanno perso tutto e non erano disposti a perdere anche la vita». Ancora più drammatica questa notizia: almeno due pompieri si sono suicidati, e con loro ci sarebbe qualche agente. Dentro il Superdome non c' era cibo e quel poco che si trovava veniva pagato a peso d' oro. Stessa cosa per l' acqua, per le sigarette, per una coperta, un cuscino, una pila. «Bisognava organizzarsi», racconta Dave, 20 anni, studente di Medicina all' università della città. «Per difendere la roba da mangiare, per dormire, per lavarsi. Facevamo dei turni anche per dormire.

Qualcuno si era portato la pistola dietro e la teneva bene in vista». Ma l' incubo era il bagno. Ce n' erano trenta, sparpagliati al piano terra del grande stadio dell' Nba, il campionato nazionale di basket americano. Era il posto preferito per gli assalti e gli stupri. Sembravano favole, storie nate da qualche mente troppo fantasiosa. Ma nei rapporti della polizia della città, si racconta di peggio. La testimonianza di Africa Brumfield, 37 anni, donna ovviamente di colore, come del resto la stragrande maggioranza di quelli rimasti ad affrontare «Katrina», ha squarciato il velo della vergogna. «Andare al bagno da sola», ha raccontato alla polizia e poi confermato ai colleghi della Bbc, «era impossibile. Chi lo faceva rischiava di essere violentato o sgozzato». Una vittima è uscita sconvolta dai bagni. E la gente, stanca dei continui soprusi, ha preso coraggio, si è ribellata e si è fatta giustizia da sola. Lo stupratore è stato individuato, preso e linciato. C' è voluto l' intervento dell' esercito, i primi 3000 soldati accorsi dopo l' ennesimo appello disperato del sindaco Nagin, per riportare un barlume di umanità in quella era diventata una giungla. Lo scalo internazionale ha riaperto solo agli aerei d' emergenza. In 24 ore, oltre 40 voli hanno trasferito 25 mila sfollati in Texas e Arizona. Altri 15 mila partiranno nelle prossime ore. Ammassati per l' ennesima volta dentro un enorme hangar, migliaia di persone hanno vissuto la loro ultima notte da incubo. Li abbiamo raggiunti e da loro abbiamo ottenuto nuove conferme delle violenze. Gli stupri sono stati molti. Nei confronti delle donne. Molti parlano di anche di uomini e bambini. E non solo nei bagni. Spesso davanti a tutti. Bloccare per tre giorni ventitremila persone in uno stadio è come fumare in un deposito d' esplosivo. «Non c' erano regole», ci dice Nick, 45 anni, pescatore che ha difeso più volte sua figlia di 14. «Era come in carcere. Peggio del carcere. Comandavano i più forti. Si vendeva di tutto: droga, armi, cibo, gioielli, orologi. Persino le medicine». I più organizzati uscivano di notte e approfittando del buio pesto che avvolgeva la città, andavano a procurarsi la merce.
Poi tornavano nel Superdome e iniziavano l' asta di vendita. Le risse erano continue. «Eravamo chiusi, bloccati in quell' inferno», ricorda ancora Nick. «Anche volendo, non si poteva più andare via.

Il rifugio che ci aveva risparmiato dall' uragano si era trasformato in una trappola mortale». La reazione, anche questa carica di rabbia e di violenza, è arrivata tra sabato notte e ieri mattina. I 50 mila soldati, poliziotti e volontari hanno decretato una sorta di legge marziale. Una vera licenza per uccidere. Si sono accaniti soprattutto i riservisti. Oltre a barche, gommoni, persino moto d' acqua, hanno caricato di armi i loro pick up e sono sbarcati a New Orleans con una gran voglia di menare le mani. Qualcuno è stato rispedito indietro. Aveva svuotato l' armeria vicino casa e si era portato appresso persino un bazooka. Ieri mattina l' ultima sparatoria su un ponte: un pattuglione ha ucciso 6 o 7 criminali che li avevano sfidati con i loro fucili. Abbiamo visto e incontrato i riservisti. Qualificarsi come giornalisti è come un insulto. Solo l' accortezza di alcuni poliziotti con cui abbiamo diviso gli ultimi giorni, ci ha evitato un arresto del tutto arbitrario o qualche proiettile. In America tutti girano armati per difesa. Ma quello che è accaduto fino a ieri sera si chiama omicidio. Volontario. Un ragazzo di 16 anni è stato investito da un' auto della polizia e poi finito con un colpo di pistola in testa. I comandi ammettono gli episodi. «Stiamo facendo del nostro meglio», dicono, «con le riserve che abbiamo, ma la maggior parte si trova in Iraq». Quasi 200 morti sono già allineati all' aeroporto internazionale. Ma non tutti sono vittime di «Katrina». Decine di persone sono sparite, date per disperse e poi ritrovate nei vicoli, sui marciapiedi, sotto i ponti, i cavalcavia, nelle case, dentro i cassonetti. Uccisi a colpi di pistola e fucile. Inghiottiti nel buco nero di questa Apocalisse.

sabato, settembre 03, 2005

La Polonia. Un'altra Europa.



“Bienvenue à Varsovie” recita il cartellone pubblicitario di un ipermercato francese. La scritta appare come un miraggio dopo un viaggio allucinante, durato parecchie ore, sulle terribili strade polacche. Dal confine con la Germania, si arriva nella capitale, attraversando Zielona Gora, le sue foreste e la “via della gioia”, come la chiamano i camionisti, per via delle centinaia di giovanissime prostitute che la costellano. Sono quasi tutte ucraine o russe, molte deportate dai loro paesi d’origine. La loro presenza causa spesso paurosi incidenti.

A questo va aggiunto il fatto che la rete viaria del grande paese mitteleuropeo è disastrosa. Autostrade ce ne sono poche e la condotta di guida è affidata più alla fede che al codice della strada.
Varsavia di sera si staglia in tutta la sfacciata magnificenza dei suoi ipermercati. La globalizzazione qui si taglia a fette. Le zone sono separate fra loro da muri di luce che dividono i quartieri popolari come Bemowo da quelli moderni come _ródmiescie, con i grattacieli che circondano come una corona il Palazzo della Cultura e delle Scienze, una torre gigantesca davanti alla stazione centrale. È stato l’ultimo lascito di Stalin. Il dittatore sovietico avrebbe voluto costruire otto di questi giganteschi pinnacoli nella sola Mosca, ma, visti i costi, alla fine decise di optare per otto di questi “torte nuziali” in altrettante città dell’ex cortina di ferro, in maniera da dividere le spese con i paesi socialisti fratelli. Oggi, dopo un lunghissimo dibattito sull’avvenire di questo “coso” di cemento, si è deciso di ristrutturarlo e affittarne le varie parti. Perché questa è oggi la filosofia di Varsavia: affidarsi al mercato, convinta com’è, che questo aiuterà la ripresa. La città è un cantiere. Attorno alla Warszawa Centralna, la stazione centrale, le gru tirano su decine di palazzoni in vetrocemento che hanno completamente stravolto il volto della capitale. Varsavia alla fine della seconda guerra mondiale fu completamente ricostruita, esattamente come sta avvenendo oggi. Allora era stata distrutta dai bombardamenti. Oggi si sta ricostruendo da oltre quattro decenni di comunismo.

Da questo maquillage la città ne sta uscendo completamente trasformata. Tutto si mischia e si sovrappone. All'incrocio della Jerozolimskie con la Nowy Swiat è, per fortuna, riconoscibilissima la monumentale ex sede del partito comunista, vero emblema del cambiamento se oggi ospita la Borsa, come segnalano la scritta a caratteri cubitali Centrum Bankowo Finansowe e il display luminoso sul quale scorre il listino. Gli affari vanno bene al punto che gli stranieri pompano denaro in modo sempre più massiccio (31 miliardi di euro investiti in un decennio), lo sterminato palazzo non è in grado di contenere gli uffici e una Borsa 2 è cresciuta lì accanto. La città è un cantiere. Da qualche parte devono pur risultare visibili i 70 mila miliardi spesi ogni anno in edilizia. Nella zona deambulano giovani in giacca e cravatta, lampadati (una delle mode importate dall’occidente) e perennemente attaccati alla protesi-telefonino. Il ritmo è quello forsennato dei quartieri degli affari di tutto il mondo. Se questi yuppies rallentano è solo per spazzare il parabrezza della loro auto dalle decine di bigliettini “Towarzyskie”, delle agenzie escort che sembrano essere, assieme all’edilizia, il settore economico in massima espansione.
La Varsavia dei turisti non ha nulla da invidiare a quelle grandi capitali europee a cui la città s’ispira, anche se sembra vivere in una situazione di precarietà, d’attesa. Qui tutto si trasforma. Capita così che il palazzo che ospita il minuscolo ufficio del generale Jaruzelski, ultimo dinosauro di un mondo comunista che non c’è più, abbia, fra i suoi affittuari, una palestra all’ultima moda, alcuni gabinetti legali e un paio di agenzie specializzate in import-export.
Lontano dal centro però la musica cambia. La Vistola, il fiume che attraversa la capitale polacca, è un confine invisibile fra la zona turistica che esplode nei mille locali della Wybrzeze Gda_skie, che ogni sera si popolano di giovani, e il quartiere Praga, una delle zone più pericolose della città con i suoi immensi condomini, molti dei quali guardano sullo stadio Warszawa. È qui che ogni giorno sin dalle prime luci dell’alba, nasce una nuova città: Europa. È un gigantesco mercato all’aperto dov’è possibile trovare di tutto. La provenienza illecita della gran parte delle merci è stata addirittura un argomento di discussione quando, in sede comunitaria, si è parlato d’adesione all’Unione Europea, di cui la Polonia è entrata a far parte nel maggio 2004.
“La divisione fra quartieri propria della capitale, è la metafora del paese oggi”, dice un ricercatore della fondazione tedesca Konrad Adenauer. In effetti, la Polonia sembra una società divisa in tre: un terzo sono gli sconfitti, quelli che hanno più di quarant’anni e sono stati travolti dai cambiamenti sistemici di mercato e politici. Un altro terzo sono i vincenti. Quelli che hanno saputo adattarsi, come Pavel, ventisei anni e un diploma di tecnico informatico all’Accademia dell’esercito (gratuita) in tasca. Due anni fa ha creato il suo business privato (due aziende, 50 dipendenti e un fatturato di dieci milioni di euro nel 2002). Nel terzo gruppo ci sono quelli come Darek. Stesso corso di Pavel, anche lui preparato, ma con meno fortuna. Fa parte del popolo delle partite iva (esiste anche qui), contento dell’ottimo stipendio di 500 euro al mese. Peccato che la sua azienda non lo paghi da circa quattro mesi. “Mi hanno detto che è un fatto temporaneo”, dice. Sempre meglio che fare parte di quel 18% di senza lavoro, o di quel 19% che vive al di sotto della soglia di povertà. Molte di queste persone, anche a Varsavia, non votano più o, se lo fanno, scelgono Samoobrona (autodifesa), oppure la Lega della Famiglie Polacche. Sono partiti ultraconservatori che, infatti, assieme raccolgono circa il 18% dei suffragi. Praticamente non hanno programma e sono in mano a due personaggi da operetta: Andrzej Lepper e Roman Gyertich, due populisti ferocemente antieuropei che vivono sul malcontento di tanti. Del loro bacino elettorale fanno parte quelli che, al sabato, si mettono il vestito buono e vanno a passeggiare nei centri commerciali spuntati come funghi. Sono tanti, c’è chi dice un centinaio in tutto il paese, e offrono di tutto. Ma cosa può permettersi una famiglia di quattro persone con uno stipendio di 400 euro al mese in una città in cui il caro-vita è superiore a quello di Berlino?
Eppure l’economia va. Dal punto di vista statistico le scelte del presidente Aleksandr Kwasniewski sono state vincenti: privatizzare e aprire al mercato. La Polonia è stata ribattezzata Tigre dell'Est Europa, importa manodopera dall'Ucraina, perché i polacchi i lavori umili non li fanno più, e bisognerà dimenticarsi dello stereotipo polacco-lavavetri.
L’altra faccia della medaglia è rappresentata dall’altissimo rischio di conflitti sociali. Sono tanti a chiedersi che cosa significherà per Varsavia e per la Polonia l’ingresso nell’UE. Più lavoro? O semplicemente una colonizzazione dall’estero, com’è successo nel settore bancario dove in pratica tutti gli istituti di credito sono in mano a banche estere? Il governo dice di non preoccuparsi e anche la chiesa, inizialmente scettica sull’adesione, ha barattato il proprio appoggio in cambio del sostegno dell’esecutivo ad una costituzione comunitaria in cui siano citate le radici cristiane del continente. “Il Papa è un grande”, dicono tanti imprenditori. Peccato che il messaggio del Pontefice sia ripreso solo quando fa comodo. Le chiese, nella capitale, così come nel resto del paese, si sono svuotate (solo il 35% dei praticanti) e la Polonia è sempre più confusa. Nessuno rimpiange il comunismo, ma questo presente non piace e il futuro, malgrado i risultati del referendum sull’adesione all’UE, fa paura. Un sondaggio lanciato tra i lettori dalla Gazeta Wiborcza, uno dei quotidiani di riferimento, perché indicassero il meglio e il peggio dopo 10 anni di libertà, ha dato risultati sorprendenti. In negativo ha vinto la presidenza dell’ex leader di Solidarnosc, Lech Walesa, un personaggio rispettato all’estero, ma che in patria è oggetto, da anni, di un crescente numero di barzellette.
Ecco com’è la vita di Varsavia e della Polonia. In bilico fra un passato che nessuno vuole ritorni e un futuro che tanti temono, ma a cui si corre incontro in maniera sfrenata. Le risposte ai dubbi, se ci sono, si avranno fra qualche anno. Una l’ha data il regista Krzysztof Zanussi nel titolo di un suo film, copiato da una scritta su un muro: “La vita è una malattia mortale trasmessa per via sessuale”. C’è solo da sperare che abbia torto.

venerdì, settembre 02, 2005

Beslan, un anno fa, l'orrore



Notte fra il 31 agosto e il 1 settembre 2005. Le agenzie cominciano a rilanciare le immagini della tragedia di Beslan, uno sconosciusto paesino dell'Ossezia del Nord. Si tratta di una delle ex Repubbliche Socialista Sovietiche diventata il centro dell'inferno. Un gruppo di terroristi ceceni irrompe in un istituto il primo giorno di scuola. Le teste di cuoio russe, dopo un'attesa di molte ore il 3 settembre decidono di entrare. L'ordine arriva dall'alto. Pare da Putin in persona. Come al solito il capo del Cremlino ha deciso che con i terroristi non si tratta. È un massacro: 330 morti. In maggioranza donne e bambini.


A un anno dalla strage, dimostrando notevole cinismo politico, il presidente russo decide di convocare al Cremlino le madri di Beslan. L'associazione che da oltre un anno chiede risposte alle sue domande: molta gente è morta bruciata, ma non uccisa dai terroristi. Sono State le bombe al fosforo gettate dai Russi? È vero che uno dei terroristi uccisi, quello che teneva il piede sul detonatore, è stato ammazzato dal colpo di un tiratore scelto e che ricadendo abbia fatto scattare l'innesto della bomba? Era davvero impossibile discutere con quella gente? Sono domande che turbano. Come se non bastasse il probabile mandante, il capo ribelle ceceno Bassaiev, prima rivendica e poi ritratta scaricando la responsabilità sull'FSB, i servizi segreti russi.
Pochi, soprattutto in Italia, fanno disamine ragionate. Una di queste è quella di Giulietto Chiesa, ex corrispondente da Mosca che punta il dito sulle troppe incongruenze e chiude un intervento su Sky affermando che, ancora una volta, è stato dimostrato la scarso rispetto per la vita delle autorità russe che poco hanno fatto per salvare quegli innocenti. Chiesa aggiunge: "tutti sanno che i capi ribelli ceceni vanno a curarsi in Turchia e nessuno interviene su Ankara per chiedere che si faccia qualcosa. Pochi s'interrogano sul genocidio russo in Cecenia (1/3 della popolazione sterminata in una sporca guerra). Forse anche questi temi andrebbero presi in considerazione".

Ecco alcune immagini trovate in rete di ex ostaggi e quello che sono diventati un anno dopo. Le ferite del corpo forse sono curate. Quelle dell'anima, no.