sembra ieri.....
Dai verbali emergono le responsabilità dei medici
per gli abusi commessi nel centro di detenzione
La donna kapò di Bolzaneto
Le violenze e le umiliazioni nella caserma di Bolzaneto
di CARLO BONINI E MASSIMO CALANDRI
GENOVA - Vive da qualche parte in città. Prigioniera del ricordo, inseguita dalla paura che sia rimasto poco tempo al suo anonimato. Il suo avvocato ripete a Repubblica che non ha nessuna intenzione di parlare. "Tantomeno a dei giornalisti". Ma sa bene che prima o poi dovrà farlo con i pubblici ministeri che da dodici mesi stanno pazientemente dando un volto alle spaventose ombre della caserma di Bolzaneto. E che ormai sanno.
E' una donna di 44 anni. Un medico generico, con studi a Genova e in Lombardia e una collaborazione mai interrotta con l'Amministrazione penitenziaria, la cui storia aggiunge ora alla vergogna di quei giorni del luglio scorso una nuova nota di umiliante sopraffazione. Di lei oggi si sa per il racconto che ai pubblici ministeri ha consegnato in questi mesi una delle sue asserite vittime, un ragazzo. Precipitato con altre decine di fermati nelle gabbie del disonore, là su, in quel buco nero sulla collina che chiamavano "centro di detenzione temporanea".
Spogliarsi a comando di fronte ad un estraneo in divisa, segnati dalle ecchimosi e dal sangue delle percosse, dalla sporcizia e il sudore di una fuga finita sull'asfalto, non è semplice. Farlo da detenuti di fronte a un medico non del proprio sesso lo è ancora di meno. A Bolzaneto accadeva anche questo, per l'umiliazione di tutti e l'eccitazione greve dei presenti. Le donne di fronte agli uomini: i due medici di turno, infermieri o agenti di custodia che fossero. Gli uomini di fronte a lei, la donna medico che ora vive nascosta, e ad una sua collega. Racconta il ragazzo ai magistrati: "Mi disse di spogliarmi e, nudo, le rimasi davanti per parecchi minuti. In silenzio. Prese a scrutarmi e quindi si rivolse al suo collega, un uomo: "Quasi, quasi, questo comunista me lo farei". E lui di rimando: "Guarda che i comunisti sono tutti froci". Un infermiere che assisteva alla scena li interruppe: "Se non sono froci, come minimo hanno la sifilide"".
Omissioni - Per le violenze di Bolzaneto qualcuno pagherà. Presto. Forse prima di altri. E non solo "quella" donna, quel "medico", che ai pochi cui si è confidata ha consegnato un unico ossessivo ricordo di chi ebbe a sfilarle di fronte: "Le decine di piercing spesso saldati nelle parti intime e comunque sempre estratti con le pinze". Nonostante il silenzio che ha avvolto l'istruttoria, quasi fosse un accidente minore dei giorni di Genova e l'ostentata omertà degli apparati che ne ha minato e ne mina ancora il cammino, la Procura ha già pronta una prima consistente serie di avvisi di garanzia, che, verosimilmente, raggiungeranno i loro destinatari quando Genova avrà consumato questa settimana di ricordo e di lutto. Dodici i nomi già identificati e iscritti nel registro degli indagati.
I tre responsabili della "gestione dei fermati", dunque delle pratiche di identificazione, fotosegnalazione, visite mediche e avvio alle carceri: un maresciallo della polizia penitenziaria e due funzionari di polizia (il vice questore Alessandro Perugini e una donna, il vicequestore Anna Poggi di Torino). Quindi, la catena gerarchica che a loro faceva capo: due ufficiali della polizia penitenziaria responsabili del contingente delle guardie carcerarie; due tenenti dei carabinieri; cinque ispettori di polizia. Nessuno di loro usò violenza ai fermati.
Ma nessuno di loro - argomenta la pubblica accusa - la impedì, pur avendone la piena percezione. Pur sapendo che in quelle gabbie si stava consumando l'intero campionario dell'umiliazione e a pieno regime la fabbrica dei falsi produceva verbali posticci da estorcere alla volontà piegata dei fermati. La circostanza non chiude evidentemente il circuito delle responsabilità. Lo sa la Procura di Genova, lo sanno le circa 360 parti lese. E dunque: chi allora quella violenza non solo non la impedì ma la usò nelle sue inesauribili varianti?
Infermieri - Per molti mesi, un solo nome ha ballato nel registro degli indagati. Il dottor Giacomo Toccafondi, medico chirurgo in tuta mimetica della polizia penitenziaria, la cui storia e responsabilità vennero sottratte agli occhi della pubblica opinione da un accidente del destino. Che lo sorprese indagato nel salire i gradini della Procura l'11 settembre 2001, mentre il mondo guardava all'orrore del martedì di sangue del Pentagono e delle Torri Gemelle. Epperò, sei mesi di ricognizioni fotografiche su parvenze di foto-tessera e istantanee sbiadite dal tempo, dolosamente consegnate alla Procura dagli apparati perché capaci di grippare anche il più vivido dei ricordi sugli uomini in servizio a Bolzaneto, un qualche risultato lo hanno prodotto. In un estenuante pellegrinaggio di parti lese, che ha portato i pubblici ministeri anche in Germania e Inghilterra, dodici tra agenti di polizia e guardie carcerarie sono stati identificati con relativa certezza.
Non più ombre nelle gabbie, pugni anonimi in guanti di pelle, ma persone in carne ed ossa. Sommati ai 12 responsabili temporanei della struttura già indagati fanno salire la contabilità dell'istruttoria a ventiquattro nomi. Abbastanza per isolare una parte almeno di una catena di violenze protrattasi 76 ore e forse azzardare, presto, una prima serie di riconoscimenti personali. Ma anche per rendere merito a chi per primo, spontaneamente, ebbe il coraggio di denunciare la vergogna dall'interno, rompendo il patto omertoso dei violenti e pagandone il prezzo. A un infermiere bolognese dell'amministrazione penitenziaria. Marco Poggi. In servizio distaccato alla caserma di Bolzaneto dalle ore 20 del 20 luglio alla sera del 22. Da allora, la sua vita non è più la stessa.
A cinquant'anni è diventato "un infame" per aver semplicemente assolto al suo dovere e non aver smarrito la coscienza di uomo. Colleghi abituati a voltarsi dall'altra parte non gli perdonano quel sussulto di dignità che, in lacrime, lo ha spinto a firmare un verbale di "spontanee dichiarazioni" che ha trasformato le denunce di ragazzi e ragazze cui pochi intendevano credere in "verità" istruttorie.
Che ha consentito alla Procura di individuare con assoluta certezza almeno due responsabili delle violenze: il chirurgo Giacomo Toccafondi e un agente di polizia penitenziaria. Dal luglio scorso, Poggi, formalmente "in aspettativa", non ha più potuto mettere piede in carcere. I superiori gli consigliano di "cambiare aria". Qualcuno lo ha avvertito: "Non vorrei dover essere io, un giorno, a farti in galera la visita medica del "nuovo giunto"".
Isolata, in Parlamento, si è levata qualche giorno fa la richiesta del senatore dei Ds Aleandro Longhi di riconoscergli la medaglia al valore civile. Lo stesso Parlamento nei cui archivi - con protocollo 2001/0036164/GEN/COM Camera dei deputati - l'inedito verbale di Poggi, così come reso ai pm genovesi, è stato riservatamente acquisito per poi essere rapidamente dimenticato.
Il verbale - Racconta Poggi: "I gabbioni erano nove e quando i fermati erano ritenuti idonei ad esservi collocati venivano dichiarati, con eufemismo, "abili e arruolati". (...) Ovunque sostassero all'interno della struttura - gabbione o corridoio - venivano posizionati in piedi, con le gambe divaricate, le mani larghe e la testa appoggiati al muro. Non dovevano muoversi, né parlare e così spesso dovevano rimanere per molte ore. Chi parlava o si muoveva veniva percosso". Nell'infermeria, il "medico" pensava a dare il resto: "Alcuni detenuti, che non sapevano come fare la flessione di routine prevista dalla perquisizione di primo ingresso in carcere, venivano presi a pugni e calci dagli agenti di polizia penitenziaria. Ho visto il medico in tuta mimetica (Toccafondi), anfibi e maglietta blu, togliere un piercing dal naso di una persona, far allargare le gambe di alcuni detenuti con piccoli calci alle caviglie e dare un ceffone. Al contrario di come espressamente previsto dall'Amministrazione a nessuno veniva chiesto come si fossero provocate ferite ed escoriazioni e non venivano neppure redatti referti medici. Venivano fatte considerazioni ad alta voce, come "Sei un brigatista", "te lo do io Che Guevara..."". Fuori dall'infermeria ognuno si sentiva in dovere di abbandonarsi al peggio. Ancora dal verbale: "Sia la sera del 20 che nella notte tra il 20 e il 21 luglio ho visto poliziotti e agenti di polizia penitenziaria (sia del Gom che del nucleo traduzioni) picchiare con violenza e ripetutamente i detenuti presenti. Con calci, pugni, schiaffi, testate contro il muro. Intorno alle 15.30 del 22, ho visto trascinare un detenuto in bagno da quattro agenti di polizia penitenziaria. Gli dicevano: "Devi pisciare, vero? Hai detto che devi pisciare, vero? Poi, una volta arrivati nell'androne, ho sentito che lo sottoponevano ad un vero e proprio pestaggio. Ho visto distruggere un cellulare con il tallone di un anfibio, e un agente della polizia di stato che, approfittando della finestra aperta, faceva sentire in un gabbione la suoneria del suo telefonino che suonava Faccetta nera". Naturalmente, l'Inferno aveva i suoi gironi e guai a finire nel più basso: "Alcuni ragazzi, venivano battezzati benzinai per l'odore di benzina che facevano, e ricevevano un trattamento "speciale". Ancora più violento...".
Il ministro e i carabinieri - Di quel che accadde nei gabbioni, il ministro di Grazia e giustizia Claudio Castelli - è noto - non ebbe percezione. O almeno così dichiarò di fronte alla commissione di inchiesta parlamentare, ricostruendo la sua visita a Bolzaneto nella notte tra il sabato 21 e la domenica 22 luglio. Trenta minuti, tra l'una e trenta e le due del mattino. Due passi all'interno della "sola struttura di pertinenza della polizia penitenziaria", sufficienti a concludere che tutto si svolgeva secondo regola ("Ho visto alcune persone in piedi con le gambe allargate e la faccia contro il muro e quando chiesi spiegazioni mi dissero che serviva ad impedire che i fermati dessero fastidio a una ragazza. Ma non ho assistito a pestaggi o scene di violenza").
Una spiegazione che ha ritagliato alla testimonianza del ministro una posizione defilata nell'economia dell'inchiesta della Procura e che anche l'Arma ha provato a spendere, ma con scarsa fortuna. A stare ai piani della vigilia, a Bolzaneto i carabinieri non dovrebbero proprio esserci. Perché hanno la loro di caserma (Forte san Giuliano) cui badare. Ma all'alba del 21 luglio, dopo la morte di Giuliani e l'immediata decisione di cancellare la presenza di quelle divise dalla piazza, l'allora questore Colucci decide di prelevarne due unità in piazza Fontane Marose per spedirle di rinforzo sulla collina dove ormai gira a pieno regime la fabbrica della violenza. La Procura ha accertato che sono trenta militari ausiliari del "Battaglione Sardegna" agli ordini di due tenenti di complemento (ora indagati, come detto). Restano a Bolzaneto dalle 7 del mattino alle 22 di sera del 21 luglio, di piantone a più "camere di sicurezza" dove una cinquantina di fermati vengono prelevati uno alla volta per essere "visitati" e fotosegnalati. Nella loro relazione - acquisita dai pubblici ministeri - i due tenenti scrivono: "...nulla si rileva in ordine a presunti maltrattamenti nelle camere di sicurezza a noi affidate".
E' una clausola di stile che dice una mezza verità. O almeno così ritiene la Procura. Perché se è vero che in quelle camere di sicurezza violenze sui singoli non ve ne furono, è altrettanto vero che soltanto un sordo o un cieco avrebbe potuto ignorare o quantomeno non notare neppure per un istante quale scempio si consumava all'interno di quel complesso che chiamavano carcere. Un fatto è certo: l'esperienza deve aver segnato quei trenta carabinieri che "nulla videro o sentirono". Non uno di loro (tenenti compresi), oggi, è ancora nell'Arma.
(16 luglio 2002)
Nessun commento:
Posta un commento