Fonte l'Espresso
L'Italia? Non conta niente
di Antonio Carlucci e Gigi Riva
Non c'è bisogno di Wikileaks per scoprire che la nostra politica estera è a pezzi. Basta vedere come Roma viene esclusa da tutti gli organismi internazionali. Perché il nostro governo è considerato inaffidabil
L'ultimo a dover battere in ritirata è il generale di brigata aerea Carlo Magrassi. Stretto dall'asse franco-tedesco e senza adeguata copertura alle spalle (leggi sostegno politico) ha perso la corsa ad amministratore delegato dell'Agenzia europea degli armamenti (Eda) su cui siederà l'uomo di Berlino Alexander Weis. L'ennesimo schiaffo all'Italia. Da anni non vinciamo una battaglia sia che schieriamo soldati, ambasciatori o economisti. Alle Nazioni Unite, in Europa o nelle istituzioni finanziarie internazionali, siamo un peso piuma e abbiamo toccato il punto più basso della nostra storia recente.
L'11 settembre della nostra diplomazia, per parafrasare il ministro degli Esteri Franco Frattini, è in corso da tempo. E non per colpa di WikiLeaks. Semmai il rapporto causa-effetto va ribaltato. Se abbiamo un premier "incapace, vanitoso e inefficace", un "portavoce di Putin", "fisicamente e politicamente debole" a causa delle "feste selvagge", come da efficace sintesi americana, poi non possiamo pretendere di essere presi sul serio quando avanziamo candidature per posti di prestigio. Se l'immagine che forniamo all'estero sono le escort di Palazzo Grazioli o di Arcore, allora è la considerazione generale del Paese che ne soffre. Le analisi fornite da Elizabeth Dibble, ex numero due dell'ambasciata Usa a Roma, e divulgate da WikiLeaks, sarebbero solo un parere personale se non fossero largamente condivise. E non producessero poi la lunga sequela di sconfitte sulla scena planetaria. Nessuno prende sul serio il Belpaese delle barzellette e della politica del cucù. E fossero soltanto i vizi privati di un premier giocherellone. Accanto ci sono, ancora più gravi, scelte strategiche sbagliate, violazioni di accordi, inaffidabilità, beghe di cortile che impediscono di fare sistema. E che rendono ogni giorno più complicato e frustrante il lavoro dei diplomatici italiani. C'è, insomma, la mancanza di una visione internazionale che vada oltre le relazioni privilegiate con una dittatura (la Libia) e una democratura (la Russia).Prendiamo l'Onu. Nonostante un segretario generale, Ban Ki-moon, che viene dipinto ben disposto nei nostri confronti, non c'è nessun italiano nel suo staff da quando, tre anni fa, è andato in pensione Patrizio Civili, suo assistente. All'agenzia di Vienna sulle droghe e il crimine, un nostro feudo da 20 anni, scaduto il mandato di Antonio Costa l'estate scorsa, c'è andato un russo Yuri Fedotov. Si pensava che, per compensazione, avremmo avuto un capo all'ufficio di Ginevra: niente. Contavamo, in passato, almeno tre rappresentanti speciali: c'è rimasto solo Lamberto Zannier in Kosovo. Se si aggiunge Filippo Grandi commissario generale dell'Unrwa (l'agenzia per i rifugiati palestinesi) ecco che si è completato l'elenco delle cariche di spicco. Gli ottimisti (e un po' burloni) si sforzano di infilare la casacca tricolore a Staffan de Mistura (Afghanistan, inviato speciale) dimenticandosi che è in quota svedese. Siamo all'ottavo posto per numero di caschi blu in missioni direttamente gestite dal Palazzo di Vetro, in una classifica che vede, prima di noi, nell'ordine, Pakistan, Bangladesh, India, Nigeria, Nepal, Giordania e Ghana, e alle nostre spalle Uruguay e Rwanda (nessun altro Paese del G8). Eppure non vantiamo nessun comandante (lo avevamo in Libano, il generale Claudio Graziano). Al contrario siamo usciti dai primi dieci nella graduatoria dei finanziatori (siamo undicesimi, dopo essere stati anche sul podio) che vede nell'ordine: Stati Uniti, Giappone, Gran Bretagna, Germania, Olanda, Spagna, Canada, Svezia, Norvegia e Francia. Si sarebbe detto un tempo: non potendo dare soldi, diamo carne da cannone.
Soldi, soldi, soldi. Sono la nota dolente di un governo che minimizza la crisi ad uso interno, coi sorrisi a 32 denti di Berlusconi, e la enfatizza appena si varca la frontiera di Chiasso. A Giulio Tremonti, il ministro dell'Economia, piace giocare il ruolo del cattivo, o del signor "No". Lo interpreta efficacemente sia coi colleghi a Palazzo Chigi sia nel contesto internazionale. E non è solo (supposta) mancanza di disponibilità in cassa ma una scelta politica che ha teorizzato, ad esempio, in una riunione preparatoria all'ultimo G8 a Muskoka in Canada, lasciando attoniti i suoi parigrado. La sua filosofia, in breve: "La cooperazione internazionale non serve a nulla e siccome ho io le chiavi della cassaforte, decido di non pagare quanto l'Italia deve". Ragionamento che Franco Frattini conosce bene se Tremonti gli ha detto più volte: "Non sono disposto a dare fondi alla Farnesina, anzi gliene tolgo ancora un po' perché siete inefficienti. Tanto la cooperazione allo sviluppo la faccio io attraverso i rapporti con i vari organismi economici internazionali".
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