Pentma vuol dire pietra, ma questo blog è solo un sassolino, come ce ne sono tanti. Forse solo un po' più striato.
venerdì, febbraio 29, 2008
martedì, febbraio 26, 2008
Riflessioni
Lunedì 25 febbraio. In Spagna va in onda un durisimo confronto Zapatero-Rajoy. Brutale, diretto, democratico.
Lunedì 25 febbraio. In Italia apre il Festival di Sanremo. Chiunque partecipa deve firmare una liberatoria dove s'impegna ad una condotta a-politica. Altrimenti sul palco non ci sale.
L'Italia È un paese in emergenza democratica. Tutto il resto è fuffa.
Like a certain country
Well, Italy has been like this video.... at least 30 yrs long. Enjoy a big "freeze" inTrafalgar Square
lunedì, febbraio 25, 2008
Bolzaneto 2002
sembra ieri.....
Dai verbali emergono le responsabilità dei medici
per gli abusi commessi nel centro di detenzione
La donna kapò di Bolzaneto
Le violenze e le umiliazioni nella caserma di Bolzaneto
di CARLO BONINI E MASSIMO CALANDRI
GENOVA - Vive da qualche parte in città. Prigioniera del ricordo, inseguita dalla paura che sia rimasto poco tempo al suo anonimato. Il suo avvocato ripete a Repubblica che non ha nessuna intenzione di parlare. "Tantomeno a dei giornalisti". Ma sa bene che prima o poi dovrà farlo con i pubblici ministeri che da dodici mesi stanno pazientemente dando un volto alle spaventose ombre della caserma di Bolzaneto. E che ormai sanno.
E' una donna di 44 anni. Un medico generico, con studi a Genova e in Lombardia e una collaborazione mai interrotta con l'Amministrazione penitenziaria, la cui storia aggiunge ora alla vergogna di quei giorni del luglio scorso una nuova nota di umiliante sopraffazione. Di lei oggi si sa per il racconto che ai pubblici ministeri ha consegnato in questi mesi una delle sue asserite vittime, un ragazzo. Precipitato con altre decine di fermati nelle gabbie del disonore, là su, in quel buco nero sulla collina che chiamavano "centro di detenzione temporanea".
Spogliarsi a comando di fronte ad un estraneo in divisa, segnati dalle ecchimosi e dal sangue delle percosse, dalla sporcizia e il sudore di una fuga finita sull'asfalto, non è semplice. Farlo da detenuti di fronte a un medico non del proprio sesso lo è ancora di meno. A Bolzaneto accadeva anche questo, per l'umiliazione di tutti e l'eccitazione greve dei presenti. Le donne di fronte agli uomini: i due medici di turno, infermieri o agenti di custodia che fossero. Gli uomini di fronte a lei, la donna medico che ora vive nascosta, e ad una sua collega. Racconta il ragazzo ai magistrati: "Mi disse di spogliarmi e, nudo, le rimasi davanti per parecchi minuti. In silenzio. Prese a scrutarmi e quindi si rivolse al suo collega, un uomo: "Quasi, quasi, questo comunista me lo farei". E lui di rimando: "Guarda che i comunisti sono tutti froci". Un infermiere che assisteva alla scena li interruppe: "Se non sono froci, come minimo hanno la sifilide"".
Omissioni - Per le violenze di Bolzaneto qualcuno pagherà. Presto. Forse prima di altri. E non solo "quella" donna, quel "medico", che ai pochi cui si è confidata ha consegnato un unico ossessivo ricordo di chi ebbe a sfilarle di fronte: "Le decine di piercing spesso saldati nelle parti intime e comunque sempre estratti con le pinze". Nonostante il silenzio che ha avvolto l'istruttoria, quasi fosse un accidente minore dei giorni di Genova e l'ostentata omertà degli apparati che ne ha minato e ne mina ancora il cammino, la Procura ha già pronta una prima consistente serie di avvisi di garanzia, che, verosimilmente, raggiungeranno i loro destinatari quando Genova avrà consumato questa settimana di ricordo e di lutto. Dodici i nomi già identificati e iscritti nel registro degli indagati.
I tre responsabili della "gestione dei fermati", dunque delle pratiche di identificazione, fotosegnalazione, visite mediche e avvio alle carceri: un maresciallo della polizia penitenziaria e due funzionari di polizia (il vice questore Alessandro Perugini e una donna, il vicequestore Anna Poggi di Torino). Quindi, la catena gerarchica che a loro faceva capo: due ufficiali della polizia penitenziaria responsabili del contingente delle guardie carcerarie; due tenenti dei carabinieri; cinque ispettori di polizia. Nessuno di loro usò violenza ai fermati.
Ma nessuno di loro - argomenta la pubblica accusa - la impedì, pur avendone la piena percezione. Pur sapendo che in quelle gabbie si stava consumando l'intero campionario dell'umiliazione e a pieno regime la fabbrica dei falsi produceva verbali posticci da estorcere alla volontà piegata dei fermati. La circostanza non chiude evidentemente il circuito delle responsabilità. Lo sa la Procura di Genova, lo sanno le circa 360 parti lese. E dunque: chi allora quella violenza non solo non la impedì ma la usò nelle sue inesauribili varianti?
Infermieri - Per molti mesi, un solo nome ha ballato nel registro degli indagati. Il dottor Giacomo Toccafondi, medico chirurgo in tuta mimetica della polizia penitenziaria, la cui storia e responsabilità vennero sottratte agli occhi della pubblica opinione da un accidente del destino. Che lo sorprese indagato nel salire i gradini della Procura l'11 settembre 2001, mentre il mondo guardava all'orrore del martedì di sangue del Pentagono e delle Torri Gemelle. Epperò, sei mesi di ricognizioni fotografiche su parvenze di foto-tessera e istantanee sbiadite dal tempo, dolosamente consegnate alla Procura dagli apparati perché capaci di grippare anche il più vivido dei ricordi sugli uomini in servizio a Bolzaneto, un qualche risultato lo hanno prodotto. In un estenuante pellegrinaggio di parti lese, che ha portato i pubblici ministeri anche in Germania e Inghilterra, dodici tra agenti di polizia e guardie carcerarie sono stati identificati con relativa certezza.
Non più ombre nelle gabbie, pugni anonimi in guanti di pelle, ma persone in carne ed ossa. Sommati ai 12 responsabili temporanei della struttura già indagati fanno salire la contabilità dell'istruttoria a ventiquattro nomi. Abbastanza per isolare una parte almeno di una catena di violenze protrattasi 76 ore e forse azzardare, presto, una prima serie di riconoscimenti personali. Ma anche per rendere merito a chi per primo, spontaneamente, ebbe il coraggio di denunciare la vergogna dall'interno, rompendo il patto omertoso dei violenti e pagandone il prezzo. A un infermiere bolognese dell'amministrazione penitenziaria. Marco Poggi. In servizio distaccato alla caserma di Bolzaneto dalle ore 20 del 20 luglio alla sera del 22. Da allora, la sua vita non è più la stessa.
A cinquant'anni è diventato "un infame" per aver semplicemente assolto al suo dovere e non aver smarrito la coscienza di uomo. Colleghi abituati a voltarsi dall'altra parte non gli perdonano quel sussulto di dignità che, in lacrime, lo ha spinto a firmare un verbale di "spontanee dichiarazioni" che ha trasformato le denunce di ragazzi e ragazze cui pochi intendevano credere in "verità" istruttorie.
Che ha consentito alla Procura di individuare con assoluta certezza almeno due responsabili delle violenze: il chirurgo Giacomo Toccafondi e un agente di polizia penitenziaria. Dal luglio scorso, Poggi, formalmente "in aspettativa", non ha più potuto mettere piede in carcere. I superiori gli consigliano di "cambiare aria". Qualcuno lo ha avvertito: "Non vorrei dover essere io, un giorno, a farti in galera la visita medica del "nuovo giunto"".
Isolata, in Parlamento, si è levata qualche giorno fa la richiesta del senatore dei Ds Aleandro Longhi di riconoscergli la medaglia al valore civile. Lo stesso Parlamento nei cui archivi - con protocollo 2001/0036164/GEN/COM Camera dei deputati - l'inedito verbale di Poggi, così come reso ai pm genovesi, è stato riservatamente acquisito per poi essere rapidamente dimenticato.
Il verbale - Racconta Poggi: "I gabbioni erano nove e quando i fermati erano ritenuti idonei ad esservi collocati venivano dichiarati, con eufemismo, "abili e arruolati". (...) Ovunque sostassero all'interno della struttura - gabbione o corridoio - venivano posizionati in piedi, con le gambe divaricate, le mani larghe e la testa appoggiati al muro. Non dovevano muoversi, né parlare e così spesso dovevano rimanere per molte ore. Chi parlava o si muoveva veniva percosso". Nell'infermeria, il "medico" pensava a dare il resto: "Alcuni detenuti, che non sapevano come fare la flessione di routine prevista dalla perquisizione di primo ingresso in carcere, venivano presi a pugni e calci dagli agenti di polizia penitenziaria. Ho visto il medico in tuta mimetica (Toccafondi), anfibi e maglietta blu, togliere un piercing dal naso di una persona, far allargare le gambe di alcuni detenuti con piccoli calci alle caviglie e dare un ceffone. Al contrario di come espressamente previsto dall'Amministrazione a nessuno veniva chiesto come si fossero provocate ferite ed escoriazioni e non venivano neppure redatti referti medici. Venivano fatte considerazioni ad alta voce, come "Sei un brigatista", "te lo do io Che Guevara..."". Fuori dall'infermeria ognuno si sentiva in dovere di abbandonarsi al peggio. Ancora dal verbale: "Sia la sera del 20 che nella notte tra il 20 e il 21 luglio ho visto poliziotti e agenti di polizia penitenziaria (sia del Gom che del nucleo traduzioni) picchiare con violenza e ripetutamente i detenuti presenti. Con calci, pugni, schiaffi, testate contro il muro. Intorno alle 15.30 del 22, ho visto trascinare un detenuto in bagno da quattro agenti di polizia penitenziaria. Gli dicevano: "Devi pisciare, vero? Hai detto che devi pisciare, vero? Poi, una volta arrivati nell'androne, ho sentito che lo sottoponevano ad un vero e proprio pestaggio. Ho visto distruggere un cellulare con il tallone di un anfibio, e un agente della polizia di stato che, approfittando della finestra aperta, faceva sentire in un gabbione la suoneria del suo telefonino che suonava Faccetta nera". Naturalmente, l'Inferno aveva i suoi gironi e guai a finire nel più basso: "Alcuni ragazzi, venivano battezzati benzinai per l'odore di benzina che facevano, e ricevevano un trattamento "speciale". Ancora più violento...".
Il ministro e i carabinieri - Di quel che accadde nei gabbioni, il ministro di Grazia e giustizia Claudio Castelli - è noto - non ebbe percezione. O almeno così dichiarò di fronte alla commissione di inchiesta parlamentare, ricostruendo la sua visita a Bolzaneto nella notte tra il sabato 21 e la domenica 22 luglio. Trenta minuti, tra l'una e trenta e le due del mattino. Due passi all'interno della "sola struttura di pertinenza della polizia penitenziaria", sufficienti a concludere che tutto si svolgeva secondo regola ("Ho visto alcune persone in piedi con le gambe allargate e la faccia contro il muro e quando chiesi spiegazioni mi dissero che serviva ad impedire che i fermati dessero fastidio a una ragazza. Ma non ho assistito a pestaggi o scene di violenza").
Una spiegazione che ha ritagliato alla testimonianza del ministro una posizione defilata nell'economia dell'inchiesta della Procura e che anche l'Arma ha provato a spendere, ma con scarsa fortuna. A stare ai piani della vigilia, a Bolzaneto i carabinieri non dovrebbero proprio esserci. Perché hanno la loro di caserma (Forte san Giuliano) cui badare. Ma all'alba del 21 luglio, dopo la morte di Giuliani e l'immediata decisione di cancellare la presenza di quelle divise dalla piazza, l'allora questore Colucci decide di prelevarne due unità in piazza Fontane Marose per spedirle di rinforzo sulla collina dove ormai gira a pieno regime la fabbrica della violenza. La Procura ha accertato che sono trenta militari ausiliari del "Battaglione Sardegna" agli ordini di due tenenti di complemento (ora indagati, come detto). Restano a Bolzaneto dalle 7 del mattino alle 22 di sera del 21 luglio, di piantone a più "camere di sicurezza" dove una cinquantina di fermati vengono prelevati uno alla volta per essere "visitati" e fotosegnalati. Nella loro relazione - acquisita dai pubblici ministeri - i due tenenti scrivono: "...nulla si rileva in ordine a presunti maltrattamenti nelle camere di sicurezza a noi affidate".
E' una clausola di stile che dice una mezza verità. O almeno così ritiene la Procura. Perché se è vero che in quelle camere di sicurezza violenze sui singoli non ve ne furono, è altrettanto vero che soltanto un sordo o un cieco avrebbe potuto ignorare o quantomeno non notare neppure per un istante quale scempio si consumava all'interno di quel complesso che chiamavano carcere. Un fatto è certo: l'esperienza deve aver segnato quei trenta carabinieri che "nulla videro o sentirono". Non uno di loro (tenenti compresi), oggi, è ancora nell'Arma.
(16 luglio 2002)
Dai verbali emergono le responsabilità dei medici
per gli abusi commessi nel centro di detenzione
La donna kapò di Bolzaneto
Le violenze e le umiliazioni nella caserma di Bolzaneto
di CARLO BONINI E MASSIMO CALANDRI
GENOVA - Vive da qualche parte in città. Prigioniera del ricordo, inseguita dalla paura che sia rimasto poco tempo al suo anonimato. Il suo avvocato ripete a Repubblica che non ha nessuna intenzione di parlare. "Tantomeno a dei giornalisti". Ma sa bene che prima o poi dovrà farlo con i pubblici ministeri che da dodici mesi stanno pazientemente dando un volto alle spaventose ombre della caserma di Bolzaneto. E che ormai sanno.
E' una donna di 44 anni. Un medico generico, con studi a Genova e in Lombardia e una collaborazione mai interrotta con l'Amministrazione penitenziaria, la cui storia aggiunge ora alla vergogna di quei giorni del luglio scorso una nuova nota di umiliante sopraffazione. Di lei oggi si sa per il racconto che ai pubblici ministeri ha consegnato in questi mesi una delle sue asserite vittime, un ragazzo. Precipitato con altre decine di fermati nelle gabbie del disonore, là su, in quel buco nero sulla collina che chiamavano "centro di detenzione temporanea".
Spogliarsi a comando di fronte ad un estraneo in divisa, segnati dalle ecchimosi e dal sangue delle percosse, dalla sporcizia e il sudore di una fuga finita sull'asfalto, non è semplice. Farlo da detenuti di fronte a un medico non del proprio sesso lo è ancora di meno. A Bolzaneto accadeva anche questo, per l'umiliazione di tutti e l'eccitazione greve dei presenti. Le donne di fronte agli uomini: i due medici di turno, infermieri o agenti di custodia che fossero. Gli uomini di fronte a lei, la donna medico che ora vive nascosta, e ad una sua collega. Racconta il ragazzo ai magistrati: "Mi disse di spogliarmi e, nudo, le rimasi davanti per parecchi minuti. In silenzio. Prese a scrutarmi e quindi si rivolse al suo collega, un uomo: "Quasi, quasi, questo comunista me lo farei". E lui di rimando: "Guarda che i comunisti sono tutti froci". Un infermiere che assisteva alla scena li interruppe: "Se non sono froci, come minimo hanno la sifilide"".
Omissioni - Per le violenze di Bolzaneto qualcuno pagherà. Presto. Forse prima di altri. E non solo "quella" donna, quel "medico", che ai pochi cui si è confidata ha consegnato un unico ossessivo ricordo di chi ebbe a sfilarle di fronte: "Le decine di piercing spesso saldati nelle parti intime e comunque sempre estratti con le pinze". Nonostante il silenzio che ha avvolto l'istruttoria, quasi fosse un accidente minore dei giorni di Genova e l'ostentata omertà degli apparati che ne ha minato e ne mina ancora il cammino, la Procura ha già pronta una prima consistente serie di avvisi di garanzia, che, verosimilmente, raggiungeranno i loro destinatari quando Genova avrà consumato questa settimana di ricordo e di lutto. Dodici i nomi già identificati e iscritti nel registro degli indagati.
I tre responsabili della "gestione dei fermati", dunque delle pratiche di identificazione, fotosegnalazione, visite mediche e avvio alle carceri: un maresciallo della polizia penitenziaria e due funzionari di polizia (il vice questore Alessandro Perugini e una donna, il vicequestore Anna Poggi di Torino). Quindi, la catena gerarchica che a loro faceva capo: due ufficiali della polizia penitenziaria responsabili del contingente delle guardie carcerarie; due tenenti dei carabinieri; cinque ispettori di polizia. Nessuno di loro usò violenza ai fermati.
Ma nessuno di loro - argomenta la pubblica accusa - la impedì, pur avendone la piena percezione. Pur sapendo che in quelle gabbie si stava consumando l'intero campionario dell'umiliazione e a pieno regime la fabbrica dei falsi produceva verbali posticci da estorcere alla volontà piegata dei fermati. La circostanza non chiude evidentemente il circuito delle responsabilità. Lo sa la Procura di Genova, lo sanno le circa 360 parti lese. E dunque: chi allora quella violenza non solo non la impedì ma la usò nelle sue inesauribili varianti?
Infermieri - Per molti mesi, un solo nome ha ballato nel registro degli indagati. Il dottor Giacomo Toccafondi, medico chirurgo in tuta mimetica della polizia penitenziaria, la cui storia e responsabilità vennero sottratte agli occhi della pubblica opinione da un accidente del destino. Che lo sorprese indagato nel salire i gradini della Procura l'11 settembre 2001, mentre il mondo guardava all'orrore del martedì di sangue del Pentagono e delle Torri Gemelle. Epperò, sei mesi di ricognizioni fotografiche su parvenze di foto-tessera e istantanee sbiadite dal tempo, dolosamente consegnate alla Procura dagli apparati perché capaci di grippare anche il più vivido dei ricordi sugli uomini in servizio a Bolzaneto, un qualche risultato lo hanno prodotto. In un estenuante pellegrinaggio di parti lese, che ha portato i pubblici ministeri anche in Germania e Inghilterra, dodici tra agenti di polizia e guardie carcerarie sono stati identificati con relativa certezza.
Non più ombre nelle gabbie, pugni anonimi in guanti di pelle, ma persone in carne ed ossa. Sommati ai 12 responsabili temporanei della struttura già indagati fanno salire la contabilità dell'istruttoria a ventiquattro nomi. Abbastanza per isolare una parte almeno di una catena di violenze protrattasi 76 ore e forse azzardare, presto, una prima serie di riconoscimenti personali. Ma anche per rendere merito a chi per primo, spontaneamente, ebbe il coraggio di denunciare la vergogna dall'interno, rompendo il patto omertoso dei violenti e pagandone il prezzo. A un infermiere bolognese dell'amministrazione penitenziaria. Marco Poggi. In servizio distaccato alla caserma di Bolzaneto dalle ore 20 del 20 luglio alla sera del 22. Da allora, la sua vita non è più la stessa.
A cinquant'anni è diventato "un infame" per aver semplicemente assolto al suo dovere e non aver smarrito la coscienza di uomo. Colleghi abituati a voltarsi dall'altra parte non gli perdonano quel sussulto di dignità che, in lacrime, lo ha spinto a firmare un verbale di "spontanee dichiarazioni" che ha trasformato le denunce di ragazzi e ragazze cui pochi intendevano credere in "verità" istruttorie.
Che ha consentito alla Procura di individuare con assoluta certezza almeno due responsabili delle violenze: il chirurgo Giacomo Toccafondi e un agente di polizia penitenziaria. Dal luglio scorso, Poggi, formalmente "in aspettativa", non ha più potuto mettere piede in carcere. I superiori gli consigliano di "cambiare aria". Qualcuno lo ha avvertito: "Non vorrei dover essere io, un giorno, a farti in galera la visita medica del "nuovo giunto"".
Isolata, in Parlamento, si è levata qualche giorno fa la richiesta del senatore dei Ds Aleandro Longhi di riconoscergli la medaglia al valore civile. Lo stesso Parlamento nei cui archivi - con protocollo 2001/0036164/GEN/COM Camera dei deputati - l'inedito verbale di Poggi, così come reso ai pm genovesi, è stato riservatamente acquisito per poi essere rapidamente dimenticato.
Il verbale - Racconta Poggi: "I gabbioni erano nove e quando i fermati erano ritenuti idonei ad esservi collocati venivano dichiarati, con eufemismo, "abili e arruolati". (...) Ovunque sostassero all'interno della struttura - gabbione o corridoio - venivano posizionati in piedi, con le gambe divaricate, le mani larghe e la testa appoggiati al muro. Non dovevano muoversi, né parlare e così spesso dovevano rimanere per molte ore. Chi parlava o si muoveva veniva percosso". Nell'infermeria, il "medico" pensava a dare il resto: "Alcuni detenuti, che non sapevano come fare la flessione di routine prevista dalla perquisizione di primo ingresso in carcere, venivano presi a pugni e calci dagli agenti di polizia penitenziaria. Ho visto il medico in tuta mimetica (Toccafondi), anfibi e maglietta blu, togliere un piercing dal naso di una persona, far allargare le gambe di alcuni detenuti con piccoli calci alle caviglie e dare un ceffone. Al contrario di come espressamente previsto dall'Amministrazione a nessuno veniva chiesto come si fossero provocate ferite ed escoriazioni e non venivano neppure redatti referti medici. Venivano fatte considerazioni ad alta voce, come "Sei un brigatista", "te lo do io Che Guevara..."". Fuori dall'infermeria ognuno si sentiva in dovere di abbandonarsi al peggio. Ancora dal verbale: "Sia la sera del 20 che nella notte tra il 20 e il 21 luglio ho visto poliziotti e agenti di polizia penitenziaria (sia del Gom che del nucleo traduzioni) picchiare con violenza e ripetutamente i detenuti presenti. Con calci, pugni, schiaffi, testate contro il muro. Intorno alle 15.30 del 22, ho visto trascinare un detenuto in bagno da quattro agenti di polizia penitenziaria. Gli dicevano: "Devi pisciare, vero? Hai detto che devi pisciare, vero? Poi, una volta arrivati nell'androne, ho sentito che lo sottoponevano ad un vero e proprio pestaggio. Ho visto distruggere un cellulare con il tallone di un anfibio, e un agente della polizia di stato che, approfittando della finestra aperta, faceva sentire in un gabbione la suoneria del suo telefonino che suonava Faccetta nera". Naturalmente, l'Inferno aveva i suoi gironi e guai a finire nel più basso: "Alcuni ragazzi, venivano battezzati benzinai per l'odore di benzina che facevano, e ricevevano un trattamento "speciale". Ancora più violento...".
Il ministro e i carabinieri - Di quel che accadde nei gabbioni, il ministro di Grazia e giustizia Claudio Castelli - è noto - non ebbe percezione. O almeno così dichiarò di fronte alla commissione di inchiesta parlamentare, ricostruendo la sua visita a Bolzaneto nella notte tra il sabato 21 e la domenica 22 luglio. Trenta minuti, tra l'una e trenta e le due del mattino. Due passi all'interno della "sola struttura di pertinenza della polizia penitenziaria", sufficienti a concludere che tutto si svolgeva secondo regola ("Ho visto alcune persone in piedi con le gambe allargate e la faccia contro il muro e quando chiesi spiegazioni mi dissero che serviva ad impedire che i fermati dessero fastidio a una ragazza. Ma non ho assistito a pestaggi o scene di violenza").
Una spiegazione che ha ritagliato alla testimonianza del ministro una posizione defilata nell'economia dell'inchiesta della Procura e che anche l'Arma ha provato a spendere, ma con scarsa fortuna. A stare ai piani della vigilia, a Bolzaneto i carabinieri non dovrebbero proprio esserci. Perché hanno la loro di caserma (Forte san Giuliano) cui badare. Ma all'alba del 21 luglio, dopo la morte di Giuliani e l'immediata decisione di cancellare la presenza di quelle divise dalla piazza, l'allora questore Colucci decide di prelevarne due unità in piazza Fontane Marose per spedirle di rinforzo sulla collina dove ormai gira a pieno regime la fabbrica della violenza. La Procura ha accertato che sono trenta militari ausiliari del "Battaglione Sardegna" agli ordini di due tenenti di complemento (ora indagati, come detto). Restano a Bolzaneto dalle 7 del mattino alle 22 di sera del 21 luglio, di piantone a più "camere di sicurezza" dove una cinquantina di fermati vengono prelevati uno alla volta per essere "visitati" e fotosegnalati. Nella loro relazione - acquisita dai pubblici ministeri - i due tenenti scrivono: "...nulla si rileva in ordine a presunti maltrattamenti nelle camere di sicurezza a noi affidate".
E' una clausola di stile che dice una mezza verità. O almeno così ritiene la Procura. Perché se è vero che in quelle camere di sicurezza violenze sui singoli non ve ne furono, è altrettanto vero che soltanto un sordo o un cieco avrebbe potuto ignorare o quantomeno non notare neppure per un istante quale scempio si consumava all'interno di quel complesso che chiamavano carcere. Un fatto è certo: l'esperienza deve aver segnato quei trenta carabinieri che "nulla videro o sentirono". Non uno di loro (tenenti compresi), oggi, è ancora nell'Arma.
(16 luglio 2002)
Bolzaneto
"Umiliazioni, pestaggi, sputi ecco l'inferno della Bolzaneto"
di MASSIMO CALANDRI
GENOVA - Qualcuno dovrà pure spiegare l'odio e la violenza, la barbarie, la crudeltà gratuita. L'accanimento. Gli insulti, le umiliazioni, le botte. I capelli tagliati a colpi di forbice, gli sputi, i volti marchiati, le dita spezzate. Qualcuno dovrà spiegare, ed assumersene le responsabilità.
Nella seconda udienza dedicata alla requisitoria del processo per le violenze e i soprusi nella caserma di Bolzaneto, i pubblici ministeri si sono concentrati sull'attendibilità dei testi. Spiegando che non furono solo le 209 vittime a raccontare nei dettagli l'orrore di quei tre giorni, ma che gli stessi imputati generali, funzionari di polizia, ufficiali dell'Arma, guardie carcerarie, poliziotti, carabinieri, medici hanno più o meno direttamente confermato quegli sconcertanti resoconti.
Vale allora la pena di riportare alla lettera una parte dell'intervento di Vittorio Ranieri Miniati, a nome anche dell'altro pm, Patrizia Petruzziello. Un breve elenco di fatti specifici accaduti nel "carcere del G8". Una esemplare tessera del mosaico. Miniati cita ad esempio "le battute offensive e minacciose con riferimento alla morte di Carlo Giuliani o di alcuni motivi parafrasati a scopo di scherno". "Per la giornata di venerdì, in particolare: il malore di Angelo Rossomando e quello di Karl Schreiter. Il taglio di capelli di Taline Ender e Saida Teresa Magana. Il capo spinto verso la tazza del water a Ester Percivati. Lo strappo della mano di Giuseppe Azzolina. le ustioni con sigaretta sul dorso del piede a Carlos manuel Otero Balado, percosso tra l'altro sui genitali con un grosso salame. Le percosse con lo stesso grosso salame sul collo di Pedro Chicarro Sanchez".
"Per la giornata di sabato, in particolare: il malore di Katia Leone per lo spruzzo in cella di spray urticante. Il malore di Panagiotis Sideriatis, cui verrà riscontrata la rottura della milza. Il pestaggio di Mohammed Tabbach, persona con arto artificiale. Gli insulti a Massimiliano Amodio, per la sua bassa statura. Gli insulti razzisti a Francisco Alberto Anerdi per il colore della sua pelle. Le modalità vessatorie della traduzione di David Morozzi e Carlo Cuccomarino, che vengono legati insieme e le cui teste vengono fatte sbattere l'una contro l'altra".
"Per la domenica, in particolare: il malore di Stefan Brauer in seguito allo spruzzo di spray urticanti, lasciato con un camice verde da sala operatoria al freddo. Il malore di Fabian Haldimann, che sviene in cella ove è costretto nella posizione vessatoria. L'etichettatura sulla guancia, a mo' di marchio, per i ragazzi arrestati alla Diaz nel piazzale al momento dell'arrivo a Bolzaneto. La sofferenza di Anna Julia Kutschkau che a causa della rottura dei denti e della frattura della mascella non è neppure in grado di deglutire. Il disagio di Jens Herrrmann, che nella scuola Diaz per il terrore non è riuscito a trattenere le sue deiezioni e al quale non è consentito di lavarsi. La particolare foggia del cappellino imposto a Thorsten Meyer Hinrrichs: un cappellino rosso con la falce ed un pene al posto del martello, con cui è costretto a girare nel piazzale senza poterlo togliere". Per chi lo avesse dimenticato, i responsabili di questi episodi sono uomini dello Stato. Quello che ci dovrebbero proteggere dai criminali.
da Repubblica.it
Lombardo chi?
da Repubblica
Attilio Bolzoni per “la Repubblica”
Da lontano sembra molle, fatto di burro. E invece è fatto di acciaio, freddo e duro. Fin da quando il suo compare Cuffaro è caduto su un comma del codice non aveva mai nascosto quello che sarebbe avvenuto da lì a poco, incurante è andato avanti per la sua strada. A tutti ripeteva che avrebbe corso da solo. Comunque.
Dopo tre settimane sono gli altri che adesso corrono con lui. E per lui. La cronaca di questi ultimi venti giorni disvela il vero volto di Raffaele Lombardo, l´erede di Totò, il nuovo signore della Sicilia.
Il gelo è la sua arma segreta. «L´acqua lo bagna e il vento lo asciuga», dicono i siciliani per descrivere l´autocontrollo del personaggio, l´impassibilità del catanese che sta dislocando le sue truppe in ogni angolo delle nove provincie dell´isola per prendere d´assalto la Regione. Il resto l´ha già dimenticato. O farà finta di dimenticarlo. Le bizze e gli attacchi di Gianfranco Micciché che si agitava sulla sua candidatura ispirata da «losche logiche di potere», le snervanti trattative (per gli altri) con quelli di Palermo, il ponte aereo con Roma. Fino all´altra notte.
Fino alla farse palermitane, agli acrobatici ripensamenti. Fino all´incoronazione del nuovo futuro governatore.
Era predestinato. «Chi ama mi segua», aveva sibilato l´altro ieri mattina quando l´intesa con Berlusconi non aveva ancora il timbro.
E lo aspettava da tanto questo momento Raffaele Lombardo, cinquantotto anni, medico con specializzazione in psicologia forense, una bellissima signora bionda per moglie, due figli, un baffetto brizzolato, un aspetto quasi insignificante che nasconde un carattere forte, una raffinata intelligenza politica. A Catania è un califfo. Comanda più lui oggi di quanto avessero comandato insieme, negli anni ‘70 e poi negli anni ‘80, l´andreottiano Nino Drago e l´ex presidente della Regione Rino Nicolosi. Ha le mani ovunque. Sulla Sanità, soprattutto.
Come Totò Cuffaro a Palermo. Se però Cuffaro è l´Udc (con tre volte in più dei voti che Casini ha nel resto d´Italia), Lombardo un partito se l´è fatto da solo. Nel 2005. E´ l´Mpa, il Movimento per l´Autonomia. Un anno dopo, alle regionali, aveva già portato 10 parlamentari a Palazzo dei Normanni e si era fatto nominare tre assessori. In Sicilia prende il 13 per cento. Alle «politiche» ha stretto un patto spericolato con la Lega di Bossi. Dei suoi, a Roma, volano cinque deputati e due senatori.
Si sono spartiti la Sicilia, lui e Totò. A Raffaele quella orientale, a Totò l´altra. A Catania ha il 20 per cento dei voti.
I suoi detrattori lo chiamano «don Rafè», quel don però non gli rende giustizia. Ormai è molto di più l´ex democristiano nato a Grammichele che l´arte della politica l´ha assorbita alla corte di Calogero «Lillo» Mannino, il padrino suo e pure di Cuffaro. Con lui, tutti e due sono scesi nell´arena siciliana.
Quasi un legame di sangue, una «storia» comune, fedeli servitori dell´ex ministro di Sciacca nella buona e nella cattiva sorte, nei favolosi anni ‘80 e nei tormentati anni ‘90. Quando entra alla Regione per la prima volta come deputato Cuffaro, il catanese algido è assessore agli Enti Locali. Sembra lanciato nello spazio. E´ però il 1992, Tangentopoli. Ad aprile i carabinieri lo vanno a prendere a casa. L´accusa è quella che la sua segretaria avrebbe rivelato, qualche giorno prima a qualcuno, i temi di un concorso per un posto in una Asl. E´ abuso di ufficio. Lo condannano in primo grado, lo assolvono in appello.
Due anni dopo, nel 1994, torna in carcere per una vicenda di tangenti che alla fine però diventano «regali». Nell´inchiesta c´è il ministro della Difesa Salvò Andò, ci sono Nicolosi e Drago, c´è l´ex presidente dell´Inter Ernesto Pellegrini che si accaparra un appalto per la fornitura di pasti in un ospedale di Catania in cambio di denaro. Pellegrini patteggia, gli altri se la cavano.
Cade l´associazione per delinquere, la corruzione si trasforma nel reato di finanziamento illecito ai partiti, dopo un po´ è già tutto prescritto. E´ la stagione in cui su Catania domina un comitato d´affari. E´ in quegli anni che Lombardo si inabissa, scompare, diventa invisibile. Ritorna quando capisce che può tornare. Ed entra nell´Udc. Fa la sponda a Cuffaro. Si fa eleggere deputato europeo, poi vicesindaco di Catania, poi ancora presidente della Provincia. C´è già l´Mpa.
Che cos´è, una Lega del Sud? «Io voglio riportare la questione meridionale al centro del dibattito politico, al Sud sono tutti stufi», esordisce Lombardo. Chiede «zone franche» per la Sicilia, parla di federalismo, con i suoi marcia sullo Stretto di Messina per protestare contro il Ponte che non si fa più. E intanto raccatta voti in ogni provincia, si fa amici a Caltanissetta, a Ragusa, a Enna e a Siracusa. Nella sua Catania ha già fatto il pieno. Nelle aziende ospedaliere, fra i precari (ne fa assumere duemila), nelle amministrazioni pubbliche, Lombardo guarda lontano. Il suo amico Totò è già incriminato per favoreggiamento alla mafia, il processo chissà come andrà a finire. Si prepara. Alla sua maniera. Con passo felpato e pugno di ferro.
Scusi?
Volontè (Udc): "Il Pdl si tenga le ballerine"
Duro attacco di Luca Volontè dell'Udc al Pdl: "Leggo di una supposta generosità di Bonaiuti non ricambiata dall'Udc. Forse si riferisce al proclama di San Babila o alla telefonata in treno.Il Pdl di destra non diverge dal Pd, non c'è differenza tra i comizi dal pullman e quelli dal tettuccio dell'auto. Si tenga le ballerine, lasci stare valori ed idealità".
Nel senso che loro si tengono il nano?
Kamikaze a Bari
Giovani kamikaze per la mafia - A Bari smantellato il clan Telegrafo
Dalle intercettazioni telefoniche la prova della presenza di ragazzini pronti a fare qualsiasi cosa per difendere e valorizzare l'attività del clan.
da Repubblica.it
BARI - Un clan mafioso che disponeva di giovani 'kamikaze', cioè di killer di 20 anni pronti a fare "qualsiasi cosa" e a "sacrificarsi" per il bene dell'organizzazione è stato smantellato con 24 arresti dai carabinieri del comando provinciale nel rione san Paolo di Bari. Agli indagati, affiliati all'agguerrito clan Telegrafo, vengono contestati i reati di associazione mafiosa, associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, detenzione di armi ed estorsioni.
L'operazione, denominata "Manhattan", è stata eseguita all'alba con l'impiego di oltre 300 carabinieri, supportati da elicotteri ed unità cinofile. E' stata coordinata dal comandante provinciale dei carabinieri di Bari, colonnello Gianfranco Cavallo. Nel corso dell'indagine, in cui sono indagate 61 persone, sono state sequestrate nove pistole, un fucile a canne mozze, circa 900 munizioni, 700 grammi di cocaina e sette chili di hascisc.
Il clan Telegrafo è uno dei più vecchi e temuti gruppi criminali baresi. E' capeggiato - secondo l'accusa - dal quarantenne Lorenzo Valerio e dal suo luogotenente Carlo Iacobbe, di 38 anni, ed è già stato duramente colpito con 46 arresti nell'ottobre del 2003.
La presenza dei 'kamikaze' ventenni è provata anche da intercettazioni telefoniche. In una conversazione tra due indagati uno dice all'altro, parlando sottovoce e consapevole di rivelare un segreto: "Qualche giorno...ti devo portare...ti devo portare a vedere i... i kamikaze; ragazzini di 20 anni!... di 20 anni...kamikaze!... ti dico kamikaze... che non... non ci pensano".
All'inizio i militari quasi non credevano al contenuto di questo colloquio intercettato, ma la prova la raccolsero nel corso di controlli compiuti il 25 novembre del 2004 in via Riccardo Ciusa, al San Paolo. Per impedire la scoperta di una 'cupa' (un nascondiglio di armi), i vertici del clan decisero di mandare i kamikaze a sparare ai militari. L'agguato fu evitato solo perché i carabinieri avevano in corso un'attività di intercettazione e riuscirono ad anticipare per tempo le mosse del clan bloccando i responsabili di zona che non riuscirono più ad impartire i loro ordini ai kamikaze.
Dall'esame dei tre assetti del gruppo mafioso, emerge che i ruoli e le competenze sono definiti nel dettaglio. Al livello più basso, il primo, ci sono quelli che i militari chiamano i 'kamikaze', ragazzini di 20 anni pronti a fare qualsiasi cosa per difendere e valorizzare l'attività del clan. Al secondo gli addetti allo spaccio della droga e alla riscossione dei pizzo. Al terzo i responsabili di zona, addetti alla gestione dei kamikaze e dei pusher e responsabili degli introiti, a diretto contatto con Carlo Iacobbe, con compiti di gestione e direttamente dipendente dal boss detenuto, Lorenzo Valerio.
La scalata ai gradi più alti avveniva in base alla capacità di massimizzare i guadagni, all'omertà in caso di arresto e alla disponibilità nei confronti del clan, anche a costo di sacrificare gli affetti familiari. Se queste regole venivano rispettate si poteva accedere all'affiliazione di sangue, la cosiddetta 'terza', che sanciva l' ascesa dell'affiliato al vertice della gerarchia mafiosa. Il conferimento della 'terza' - secondo le indagini dei carabinieri - avveniva durante una cerimonia di affiliazione con giuramento di fedeltà al padrino, Carlo Iacobbe. Per suggellare l'evento, durante la festa, l'affiliato portava un anello con un solitario di brillante al boss. L'anello non era altro che il simbolo di un legame indissolubile, come un matrimonio. In caso di contrasti con il capo, l'anello non poteva essere più indossato a simboleggiare il momentaneo allontanamento dal clan.
Il clan, secondo i carabinieri, teneva sotto stretto controllo tutti i commercianti, gli imprenditori edili e gli ambulanti del mercato rionale del quartiere san Paolo. Tutti erano tenuti a versare il 'pizzo', che arrivava fino a 1000 euro al mese. L'importo dell'estorsione era commisurata al volume d'affari delle vittime e doveva essere corrisposta puntualmente il giorno 5 di ogni mese. Chi ritardava veniva avvicinato da esponenti dell'organizzazione e minacciato.
Anche le minacce sono state documentate - secondo le indagini dei carabinieri - da alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Una di queste riguarda il boss Carlo Iacobbe e il suo consigliere Raffaele Caputo. Uno dice all'altro: "Che sta facendo lo scemo!... ora passiamo.. devo dirgli: '... lo lasciasti il coso... che qua il pensiero devi mettere... che qua non stiamo a giocare... te lo dovessimo far vedere...!'".
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domenica, febbraio 24, 2008
Il tenero Sansonetti
COMPAGNO CIRIACO
Sebastiano Messina per La Repubblica
Al direttore di Liberazione, Piero Sansonetti, non è andata giù l´esclusione di Ciriaco De Mita dalle liste del Pd. Sansonetti rivela una insospettata stima per l´ex avversario. E´ vero, dice, «è stato un potente padrone della Democrazia cristiana», è stato «un uomo di gran potere», e ha «usato largamente il clientelismo di massa». Eppure aveva un suo pensiero forte, sia pure «contorto», e aveva un suo progetto, «che se ho capito bene più o meno era questo...».
Ora, Sansonetti si è convinto che De Mita sia stato escluso dalle liste solo perché «è un gran rompicoglioni». E dunque non ci sta: «La cosa un po´ mi indigna». Nobile e alto sentimento, l´indignazione per l´esclusione di un avversario (anche quando non si è certi di averlo capito bene). Ma questa è una di quelle rare volte in cui il direttore di un giornale comunista può riparare subito a tanta ingiustizia, e approfittare al volo del clamoroso errore del Pd: lo candidi lui, nelle liste di Bertinotti, il valoroso compagno Ciriaco.
L'inquieto Sansonetti
Sebastiano Messina per La Repubblica
Al direttore di Liberazione, Piero Sansonetti, non è andata giù l´esclusione di Ciriaco De Mita dalle liste del Pd. Sansonetti rivela una insospettata stima per l´ex avversario. E´ vero, dice, «è stato un potente padrone della Democrazia cristiana», è stato «un uomo di gran potere», e ha «usato largamente il clientelismo di massa». Eppure aveva un suo pensiero forte, sia pure «contorto», e aveva un suo progetto, «che se ho capito bene più o meno era questo...».
Ora, Sansonetti si è convinto che De Mita sia stato escluso dalle liste solo perché «è un gran rompicoglioni». E dunque non ci sta: «La cosa un po´ mi indigna». Nobile e alto sentimento, l´indignazione per l´esclusione di un avversario (anche quando non si è certi di averlo capito bene). Ma questa è una di quelle rare volte in cui il direttore di un giornale comunista può riparare subito a tanta ingiustizia, e approfittare al volo del clamoroso errore del Pd: lo candidi lui, nelle liste di Bertinotti, il valoroso compagno Ciriaco.
L'inquieto Sansonetti
Madia? Maddài!
di nuovo sulla capolista del PD nel Lazio.
Maria Corbi da La Stampa
Segni particolari: sponsorizzata tre volte. Per sua stessa ammissione la neocapolista nel Lazio per Veltroni, Marianna Madia, classe 1980, romana, deve dire grazie a chi l’ha portata fino a qui, a iniziare dal «maestro di vita», come lo definisce lei stessa, Giovanni Minoli, per continuare con Enrico Letta («che ad una ragazzina non ancora laureata ha dato la possibilità di entrare all’Arel», il Centro studi economici promosso dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio). E ovviamente a Walter Veltroni a cui è bastato un colloquio dopo la segnalazione degli altri due padrini per decidere che quella sarebbe stata la sua Marianna.
La ragazza, capello con boccoli biondi, aria da pariolina ricevuta in dote dalla famiglia di noti avvocati della capitale (suo zio Titta Madia difende Clemente Mastella), amicizie giuste come quella con Albertina Carraro, ringrazia e spiega i punti fondamentali del suo programma: «Io penso che sia urgente ritrovare il tempo delle idee e dell'amore». Un po' preoccupata - «Sento il peso della responsabilità che mi attende; spero non mi sovrasterà» - ma felice.
E mentre Marianna si gode i suoi giorni di gloria incoronata non solo candidata e capolista ma anche «economista», come l’ha presentata Veltroni (laurea in scienze politiche con lode nel 2004), la base del partito democratico, i ragazzi che hanno lavorato alle primarie e che da anni si impegnano in politica, nelle federazioni, e che aspettavano l’occasione da sempre, sospendono il giudizio. Silenzio che condividono con le donne del Pd.
Sarà perché non conoscono la nuova collega, sarà per dissenso, sarà per non creare occasioni di polemica, o per stupore. L’unica a parlare per spezzare questo silenzio imbarazzato è Franca Chiaromonte: «La candidatura come capolista, dietro Walter Veltroni, di Marianna Madia mi convince come donna e come democratica. E le parole di Marianna mi convincono ancor più che la strada del rinnovamento è davvero iniziata».
E mentre nel partito la nuova Marianna altera umori e fa discutere, sul web corre un passaparola di rassegnata critica. E di informazioni biografiche sull’astro nascente del Pd. A iniziare dal padre, Stefano Madia, amicizie di destra negli Anni 70, attore prima (un premio a Cannes per «Caro papà») e consigliere comunale con una lista civica per Veltroni fino alla sua morte nel 2004.
Vita privata scandagliata senza pietà anche per il fidanzamento con il figlio del presidente della Repubblica Napolitano, Giulio, che dopo anni di corteggiamento, riuscì a farla capitolare in tempo per andare alla festa del 2 Giugno al Quirinale. Amore sfumato presto, e dimenticato con il lavoro all’Arel e a organizzare il pensatoio «Vedrò» per Enrico Letta, prima, e poi alla televisione con Giovanni Minoli che le ha affidato un programma sui temi ambientali, ECubo, quattro puntate a tarda notte.
Sul sito degli studenti della Bicocca impazzano i commenti. Sulla sua ascesa professionale iniziata quando non era laureata, con il posto all’Arel: «C'è gente che nemmeno da laureata trova posti simili». Sul suo curriculum: «È fortunata... è stata scelta tra 1000 altre ragazze, non fosse che sia la figlia di Stefano Madia, sia la ex del figlio di Giorgio Napolitano». Sulla sua qualifica professionale: «Ed è proprio grazie a questa non meglio precisata collaborazione con l’Arel che i media potranno presentarla come "giovane economista"». E sulla sua promessa: «Porterò la mia inesperienza in Parlamento».
mah.....
sabato, febbraio 23, 2008
Sconosciuti alla riscossa
http://nullo.ilcannocchiale.it/?id_blogdoc (fonte)
Veltroni annuncia ufficialmente il capolista per il Partito Democratico alla Camera nella circoscrizione Lazio 1, che include la citta’ di Roma: Marianna Madia. Chi? Marianna Madia, ho detto. E chi e’? Domanda difficile; perche’ Marianna Madia, in pratica, non e’, apparentemente, nessuno. Nella sua disperata rincorsa dell’antipolitica, Veltroni, dopo aver imbarcato Di Pietro, cerca di contrastare il risentimento contro ‘i soliti noti’ candidando una ragazza qualunque, ventisettenne, sconosciuta: alla quale non potremo cosi’ contestare di scaldare gli scranni del parlamento da una vita; fuori i Ciriaco De Mita, dentro le Marianna Madia. Perche’ avere una storia, in Italia, significa essere compromessi, quale che sia la propria storia. Il Partito Democratico e’ il partito del cambiamento, dei giovani, delle donne: allora ecco una giovane donna senza una storia, for a change. La strategia, fin troppo ovvia: la qualita’, come dimostrano le presidenziali americane, e’ molto piu’ difficile da comunicare della novita’.
Peccato pero’ che Marianna Madia Veltroni non l’abbia trovata in fila al supermercato: no, Marianna Madia e’ la figlia di Stefano Madia (nella foto qui a fianco), attore (“Caro papa’”, “Il miele del diavolo”) prestato alla politica, consigliere comunale a Roma con una lista civica per Veltroni, fino alla morte, nel Dicembre del 2004. Insomma Marianna Madia e’ l’orfana di un amico di Veltroni. Non sorprende che il buon Walter si sia sentito in dovere di prendersi cura della figlia dell’amico morto - quando poi c'e' di mezzo il cinema... Tutto questo, se avete la pazienza di un political junkie, potete trovarlo su internet. Dove potete anche scoprire che la bella Marianna lavora alla Presidenza del Consiglio: apparentemente alla segreteria tecnica dell’Osservatorio per la piccola e media impresa, con un contratto di consulenza – quelli che si usano per le assunzioni politiche; in realta’ mi dicono che la Dr.ssa Madia lavori alla segreteria di Enrico Letta – cui e’ legata anche attraverso l’Arel, l’Agenzia Ricerche E Legislazione, fondata da Nino Andreatta, che adesso e’, appunto, nell'orbita di Letta – ed e’ proprio grazie a questa non meglio precisata collaborazione con l’Arel che i media potranno presentarla come ‘giovane economista’. Sul web potrete anche scoprire che Marianna Madia collabora con Minoli a Rai Educational, conducendo, all’una di notte, una trasmissione su questioni ecologiche ed energetiche, e Cubo.
Quello che non troverete da nessuna altra parte e’ questo: Marianna Madia non e’ solo giovane, donna, figlia di un amico morto di Veltroni, e collaboratrice di Enrico Letta (a proposito: dalle parti di Letta fanno sapere che la Madia non sara’ un loro candidato: ci tengono a dire che e’ in quota Veltroni); Marianna Madia e’ anche la ex del figlio del Presidente della Repubblica: sembra infatti che la storia tra la ventisettenne Marianna e Giulio Napolitano, quarantenne professore di diritto pubblico all’Universita’ della Tuscia, sia finita.
venerdì, febbraio 22, 2008
Ci stiamo arrivando
... piano, piano, senza rumore, stiamo arrivando all'uso sistematico della repressione violenta. Aldilà delle provocazioni del tipo col microfono, mi chiedo se non sia il caso di aprire un procedimento contro il dirigente della polizia che ha autorizzato l'assalto, perché di questo si tratta. Sempre più l'Italia sta diventando la fogna d'Europa. Queste son cose che eravamo abituati a vedere in altre nazioni. Ma cosa è diventato il nostro paese?
Strage di Erba
Un fatto che è lo specchio del paese
Lite tra avvocati, la Corte lascia l'aula - Pesante scambio di battute tra i legali dei Romano e Marzouk. E il presidente se ne va
Olindo Romano scortato dalla polizia penitenziaria al Palazzo di giustizia di Como (TamTam)COMO - È cominciata in una atmosfera di forte tensione l'udienza di venerdì del processo per la strage di Erba. Quasi subito, infatti, c'è stato un vibrante battibecco tra uno dei difensori dei coniugi Romano, Enzo Pacia, e il difensore di Azouz Marzouk, Roberto Tropescovino.
SCAMBIO DI BATTUTE - Pacia ha lamentato che alcuni avvocati «già abbiano emesso condanne in interviste». Tropescovino ha risposto parlando di «attacco personale sconsiderato», per poi affermare: «Il diritto di cronaca è sacrosanto e questo è un attacco inutile e sconsiderato». «Sconsiderato sei tu», ha risposto con veemenza Pacia. Il presidente della Corte d'assise di Como, Alessandro Bianchi, ha lasciato l'aula con i giudici popolari affermando: «Quando avete finito con queste sceneggiate riprendiamo».
LEGALI TURBATI - La difesa dei Romano si è detta «molto turbata» dall'atteggiamento degli avvocati delle parti civili che continuano a rilasciare interviste sulla condanna certa di Olindo e Rosa Bazzi, accusati del quadruplice omicidio di Erba. L'avvocato Enzo Pacia, che difende i coniugi, preannuncia «istanza di remissione». «Comincio ad essere molto turbato - ha detto l'avvocato in aula - nessuno può ignorare che vengano pronunciate sentenze da parte di avvocati che rappresentano l'accusa». La difesa per ora ha solo preannunciato istanza di remissione e quindi la possibilità che il processo possa essere celebrato in un'altra città e ha chiesto al presidente della Corte d'Assise, Alessandro Bianchi, di «intervenire perché si finisca di processare i nostri assistiti - sottolinea Pacia - fuori da quest'aula».
TAVAROLI TESTIMONE - Oltre alle testimonianze di Carlo Castagna, di suo figlio Pietro e di Azouz Marzouk, nel pomeriggio è prevista, nel processo per la strage di Erba, anche la deposizione dell'ex responsabile della security Telecom, Giuliano Tavaroli. Nel carcere del Bassone di Como ricevette infatti le confidenze di Olindo Romano, imputato per la strage con la moglie Rosa. Tavaroli, che all'epoca era detenuto nell'ambito dell'inchiesta milanese sulle indagini illegali del servizi, durante le indagini sulla strage di Erba rivelò che Olindo Romano gli aveva confidato di essere responsabile dell'eccidio.
Pornoreport II?
Lettera di Milena Gabanelli e risposta di Paolo Barnard
Febbraio 8, 2008 di mediazione
Lettera di Milena Gabanelli sul Forum di Report
Ogni azienda, giornale o tv fornisce l’assistenza legale (ovvero paga l’avvocato) ai propri dipendenti, non ai collaboratori. Quando abbiamo iniziato (1997)nessuno di noi si era posto il problema, che invece abbiamo affrontato quando sono arrivate le prime cause (2000). Si trattava di querele per diffamazione. La sottoscritta e il direttore di allora chiedemmo assistenza legale e ci fu concessa. Fatto che si verificò in tutti i successivi procedimenti penali. Le prime cause civili arrivarono nel 2004, e lì scoprimmo che invece non ci sarebbe stata copertura legale. La tutela veniva fornita a me in virtù del contratto di collaborazione con la rai, ma “a discrezione”, ovvero dovevo presentare una memoria difensiva con la quale dimostravo, punto per punto, di aver agito bene. Non avendo l’autore del servizio nessun contratto di collaborazione con la rai (pochè vende il pezzo), si assume i rischi in caso di richiesta di risarcimento danni. La realtà era questa: o prendere, o lasciare. Gli autori furono messi a conoscenza della questione e tutti decisero di continuare “l’avventura” con Report. Con tutte le angoscie del caso, ma a dominare è stata la convinzione di tutti noi che lavorando bene alla fine le cause si vincono e il soccombente dovrà pure pagare le spese. Da parte mia ho iniziato una lunga battaglia per poter avere ciò che nessuna azienda normalmente fornisce ai non dipendenti: l’assistenza di un avvocato in caso di causa civile (nel penale, come ho già detto, ci è stata fornita fin dall’inizio). Dal 2004 in poi la tendenza è stata quella di farci prevalentemente cause civili, con tutto quel che ne consegue in termini di stress, tempo che perdi, e paure che ti assalgono. E’ bene sapere che quando si va in giudizio ognuno risponde per la parte che gli compete: gli autori rispondono del loro pezzo, la sottoscritta per tutti i pezzi (in qualità di responsabile del programma), la rai in quanto network che diffonde la messa in onda. Qualora il giudice dovesse stabilire che c’è stato dolo da parte dell’autore, a pagare saranno tutti i soggetti coinvolti (la rai, la sottoscritta, l’autore). E questo vale per tutti, anche i dipendenti. La differenza è che prima di arrivare alla sentenza nessuno ti paga l’avvocato. Nel 2007 le cause arrivano ad un numero talmente elevato che passo più tempo a difendere me e i miei colleghi che non a lavorare. Ma a luglio 2007 il direttore generale Cappon chiede all’ufficio legale della rai di garantire la piena assistenza legale a tutti gli autori di Report. Questo non ci toglie le ansie (finchè non c’è una sentenza non sai di che morte muori), però almeno sai che alle tue spalle c’è un’azienda che ha riconosciuto il valore del tuo lavoro e ti paga l’avvocato. E’ stato difficile ottenere questo risultato, ma c’è stato e questo è oggi quello che conta.
Certo, se su ogni puntata vieni trascinato in tribunale, alla fine può darsi che lasci la partita perchè non riesci più a reggere fisicamente. Ma questo non è colpa della rai di turno, bensì di un sistema giudiziario che permette a chiunque di fare cause pretestuose, senza che ci sia a monte un filtro (come avviene invece nelle cause penali) che valuti l’eventuale inconsistenza della causa stessa.
Paolo Barnard. E’ un professionista che stimo molto, ma purtroppo l’incompatibilità ad un certo punto era diventata ingestibile, e così a fine 2003 le strade si sono separate. Per quel che riguarda la questione legale che lo coinvolge, sono convinta della bontà della sua inchiesta e penso che alla fine ci sarà una sentenza favorevole. Ci credo al punto tale da aver firmato a suo tempo un atto (che lui possiede e pure il suo avvocato) nel quale mi impegno a pagare di tasca mia anche la parte sua in caso di soccombenza. Non saprei che altro fare.
Non ho il potere di cambiare le regole di un’azienda come la Rai, credo di aver fatto tutto quello che è nelle mie modeste capacità. Il lavoro che io e gli altri colleghi di report abbiamo deciso fin qui di fare non ce lo ha imposto nessuno. E’ un mestiere complesso che comporta molti rischi, anche sul piano personale. Si può decidere di correrli oppure no, dipende dalla capcità di tenuta, dal carattere e dagli obiettivi che ognuno di noi si da nella vita. Il resto sono polemiche che non portano da nessuna parte e sottragono inutilmente energie.
Un caro saluto a tutti.
Milena Gabanelli
Risposta di Paolo Barnard
Sono Paolo Barnard. Rispondo innanzi tutto agli spettatori di Report, che assieme a tanti altri italiani meritano verità, onestà, e finalmente pulizia in questo Paese. Poi anche alle righe della signora Gabanelli postate ieri alle ore 21,16.
Mi spiace che alcuni di voi si siano ritenuti soddisfatti dalle parole dell’autrice di Report, che non ha risposto a nessuno dei punti cruciali, a nessuno dei gravissimi fatti.
Milena Gabanelli scrive:
“Per quel che riguarda la questione legale che lo coinvolge, sono convinta della bontà della sua inchiesta e penso che alla fine ci sarà una sentenza favorevole. Ci credo al punto tale da aver firmato a suo tempo un atto (che lui possiede e pure il suo avvocato) nel quale mi impegno a pagare di tasca mia anche la parte sua (di Barnard, nda) in caso di soccombenza. Non saprei che altro fare.”
Quell’atto esiste solo nella fantasia della signora Gabanelli. Né io, né il mio legale Avv. Pier Luigi Costa di Bologna, ne abbiamo mai ricevuto una copia. Inoltre l’affermazione della sua esistenza da parte dell’autrice di Report è pienamente contraddetta dagli atti processuali da me resi pubblici, ove si legge: “Tribunale Ordinario di Roma, Sezione I Civile-G.U. dott. Rizzo- R.G.N. 83757/2004, Roma 30/6/2005: “Per tutto quanto argomentato la RAi-Radiotelevisione Italiana S.p.a. e la dott.ssa Milena Gabanelli chiedono che l’Illustrissimo Tribunale adìto voglia:…porre a carico del dott. Paolo Barnard ogni conseguenza risarcitoria…”.
Confermato di recente da: Tribunale Civile di Roma, Sezione Prima, Sentenza 10784 n. 5876 Cronologico, 18/5/2007: “la parte convenuta RAI-Gabanelli insisteva anche nelle richieste di cui alle note del 30/6/2005…”.
La generosa offerta della Gabanelli non esiste, e sarebbe comunque stata una vergogna, un tentativo di tacitare me mentre lei poteva di fronte ai suoi datori di lavoro mostrarsi pienamente in accordo con la loro sciagurata politica nei mie confronti. Che è quello che ha fatto e controfirmato in ogni atto processuale.
Milena Gabanelli scrive:
“Gli autori furono messi a conoscenza della questione e tutti decisero di continuare “l’avventura” con Report.”
Non è vero. Esistono redattori pronti a testimoniare di non aver mai sentito Milena Gabanelli pronunciare quell’avvertimento, soprattutto quando sollecitata a chiarire questioni in merito. Di sicuro non lo fece mai in mia presenza. Io non fui mai posto di fronte a una simile bivio, al contrario, mi fu sempre detto di stare tranquillo.
Milena Gabanelli scrive:
“E’ bene sapere che quando si va in giudizio ognuno risponde per la parte che gli compete: gli autori rispondono del loro pezzo, la sottoscritta per tutti i pezzi (in qualità di responsabile del programma), la rai in quanto network che diffonde la messa in onda. Qualora il giudice dovesse stabilire che c’è stato dolo da parte dell’autore, a pagare saranno tutti i soggetti coinvolti (la rai, la sottoscritta, l’autore).”
Che a pagare possano eventualmente essere tutti non è in discussione, signora Gabanelli. Che lei e la RAI tentiate di mandare al macello uno solo, cioè Paolo Barnard, l’anello più debole della catena, e che vi siate lungamente accaniti in ciò come dimostrano i documenti processuali sopraccitati, e che la RAI abbia addirittura tentato di rivalersi su di me anche fuori dal processo, è ben altra cosa. Lascio ogni giudizio sulla sua condotta ai suoi spettatori. E taccio qui sul dolore personale che ho subito. Non è questo il contesto.
Milena Gabanelli scrive:
“Certo, se su ogni puntata vieni trascinato in tribunale, alla fine può darsi che lasci la partita perchè non riesci più a reggere fisicamente. Ma questo non è colpa della rai di turno, bensì di un sistema giudiziario”
No, la RAI ha responsabilità pesanti, nell’abbandono dei giornalisti collaboratori che tanto hanno fatto per i suoi palinsesti, come nel caso in oggetto. Noi ‘esterni’ siamo quelli col coraggio, quelli che lavorano dieci volte gli altri, quelli senza stipendio, quelli che non confezionano le narrative false dei TG1, TG2, TG3, che non sono pagati mensilmente per “rendere plausibile l’inimmaginabile” presso gli italiani. Noi siamo quelli usati e cestinati al primo problema. Io sono giornalista e prima di ogni altra cosa punto il dito verso il mio editore e i miei capi, e ne pagherò i prezzi. Lei Milena Gabanelli dovrebbe fare la stessa cosa e pubblicamente, per il bene del giornalismo italiano, se lei ne avesse il coraggio.
Milena Gabanelli scrive:
“Paolo Barnard. E’ un professionista che stimo molto, ma purtroppo l’incompatibilità ad un certo punto era diventata ingestibile, e così a fine 2003 le strade si sono separate.”
Non è vero. La mia separazione dalla gente di Report fu a causa di una sordida storia di inumanità e di viltà che con questa mia denuncia non ha nulla a che fare. Mi addolora ancora di più che Milena Gabanelli la citi qui, del tutto fuori contesto.
Milena Gabanelli scrive:
“Il lavoro che io e gli altri colleghi di report abbiamo deciso fin qui di fare non ce lo ha imposto nessuno. E’ un mestiere complesso che comporta molti rischi, anche sul piano personale. Si può decidere di correrli oppure no, dipende dalla capcità di tenuta, dal carattere e dagli obiettivi che ognuno di noi si da nella vita. Il resto sono polemiche che non portano da nessuna parte e sottragono inutilmente energie.”
Come dire ‘Se Paolo Barnard non ha i cosiddetti, cambi mestiere e non ci faccia perdere del tempo’. Non mi risulta che Bernardo Jovene, Sabrina Giannini, Stefania Rimini o altri a Report siano stati abbandonati come me, che la RAI e Milena Gabanelli si stiano accanendo in un’aula di tribunale per scaricargli colpe non loro, che la RAI li stia minacciando con ulteriori accanimenti legali, e che Milena Gabanelli sia rimasta zitta per 4 anni di fronte a una vergogna simile perpetrata nei loro confronti.
Milena Gabanelli, con le sue righe, tipicamente sguscia da una situazione indecente senza prendere una posizione morale, senza quel ‘coraggio’ che l’ha resa famosa, avallando di nuovo ciò che lei stessa e la RAI mi stanno facendo. Avallando oltre tutto il peggior precariato nel giornalismo (sic).
In questo modo prolifera la censura da me denunciata, che così tanti colleghi finiscono per subire, una censura che sottrae a voi spettatori, a voi, il diritto di sapere quello che gli avvocati da una parte o dall’altra non vogliono che voi sappiate.
Ci sono cose, signora Gabanelli, su cui si deve prendere posizione, costi quel che costi. Io lo faccio qui e ora e le dico: Lei e la RAI siete responsabili di una condotta ignobile, troppo diffusa fra gli editori di questo povero Paese. Lei più della RAI, perché lei dovrebbe essere il volto del ‘coraggio televisivo’ per definizione.
Verrò travolto dalle vostre querele, a tutela del vostro ‘buon nome’, ma ho deciso di mettermele alle spalle. Io prendo posizione di fronte a questa censura con cui lei Gabanelli è in palese collusione, e il mio coraggio è comunque una piccola cosa, perché c’è chi ha preso posizione di fronte a una camera di tortura in Cile o di fronte a un Merkava in Palestina. Il vero coraggio è loro, non mio.
Né lei né la RAI mi zittirete mai.
Paolo Barnard
Pornoreport?
Non conoscevo i perché della partenza di Paolo Barnard da Report.
Censura ‘legale’ - Paolo Barnard – 11 febbraio 2008
Cari amici e amiche impegnati a dare una pennellata di decenza al nostro Paese, eccovi una forma di censura nell'informazione di cui non si parla mai. E' la peggiore, poiché non proviene frontalmente dal Sistema, ma prende il giornalista alle spalle. Il risultato è che, avvolti dal silenzio e privi dell'appoggio dell'indignazione pubblica, non ci si può difendere. Questa censura sta di fatto paralizzando l'opera di denuncia dei misfatti sia italiani che internazionali da parte di tanti giornalisti 'fuori dal coro'.
Si tratta, in sintesi, dell'abbandono in cui i nostri editori spesso ci gettano al primo insorgere di contenziosi legali derivanti delle nostre inchieste 'scomode'. Come funziona e quanto sia pericoloso questo fenomeno per la libertà d'informazione ve lo illustro citando il mio caso.
Si tratta di un fenomeno dalle ampie e gravissime implicazioni per la società civile italiana, per cui vi prego di leggere fino in fondo il breve racconto.
Per la trasmissione Report di Milena Gabanelli, cui ho lavorato dando tutto me stesso fin dal primo minuto della sua messa in onda nel 1994, feci fra le altre un'inchiesta contro la criminosa pratica del comparaggio farmaceutico, trasmessa l'11/10/2001 ("Little Pharma & Big Pharma"). Col comparaggio (reato da art.170 leggi pubblica sicurezza) alcune case farmaceutiche tentano di corrompere i medici con regali e congressi di lusso in posti esotici per ottenere maggiori prescrizioni dei loro farmaci, e questo avviene ovviamente con gravissime ripercussioni sulla comunità (il prof. Silvio Garattini ha dichiarato: "Dal 30 al 50% di medicine prescritte non necessarie") e spesso anche sulla nostra salute (uno dei tanti esempi è il farmaco Vioxx, prescritto a man bassa e a cui sono stati attribuiti da 35 a 55.000 morti nei soli USA).
L'inchiesta fu giudicata talmente essenziale per il pubblico interesse che la RAI la replicò il 15/2/2003.
Per quella inchiesta io, la RAI e Milena Gabanelli fummo citati in giudizio il 16/11/2004(1) da un informatore farmaceutico che si ritenne danneggiato dalle rivelazioni da noi fatte.
Il lavoro era stato accuratamente visionato da uno dei più alti avvocati della RAI prima della messa in onda, il quale aveva dato il suo pieno benestare.
Ok, siamo nei guai e trascinati in tribunale. Per 10 anni Milena Gabanelli mi aveva assicurato che in questi casi io (come gli altri redattori) sarei stato difeso dalla RAI, e dunque di non preoccuparmi(2). La natura dirompente delle nostre inchieste giustificava la mia preoccupazione. Mi fidai, e per anni non mi risparmiai nei rischi.
All'atto di citazione in giudizio, la RAI e Milena Gabanelli mi abbandonano al mio destino. Non sarò affatto difeso, mi dovrò arrangiare. La Gabanelli sarà invece ampiamente difesa da uno degli studi legali più prestigiosi di Roma, lo stesso che difende la RAI in questa controversia legale.(3) Ma non solo.
La linea difensiva dell'azienda di viale Mazzini e di Milena Gabanelli sarà di chiedere ai giudici di imputare a me, e solo a me (sic), ogni eventuale misfatto, e perciò ogni eventuale risarcimento in caso di sentenza avversa.(4)
E questo per un'inchiesta di pubblico interesse da loro (RAI-Gabanelli) voluta, approvata, trasmessa e replicata.*
*( la RAI può tecnicamente fare questo in virtù di una clausola contenuta nei contratti che noi collaboratori siamo costretti a firmare per poter lavorare, la clausola cosiddetta di manleva(5), dove è sancita la sollevazione dell'editore da qualsiasi responsabilità legale che gli possa venir contestata a causa di un nostro lavoro. Noi giornalisti non abbiamo scelta, dobbiamo firmarla pena la perdita del lavoro commissionatoci, ma come ho già detto l'accordo con Milena Gabanelli era moralmente ben altro, né è moralmente giustificabile l'operato della RAI in questi casi).
Sono sconcertato. Ma come? Lavoro per RAI e Report per 10 anni, sono anima e corpo con l'impresa della Gabanelli, faccio in questo caso un'inchiesta che la RAI stessa esibisce come esemplare, e ora nel momento del bisogno mi voltano le spalle con assoluta indifferenza. E non solo: lavorano compatti contro di me.
La prospettiva di dover sostenere spese legali per anni, e se condannato di dover pagare cifre a quattro o cinque zeri in risarcimenti, mi è angosciante, poiché non sono facoltoso e rischio perdite che non mi posso permettere.
Ma al peggio non c'è limite. Il 18 ottobre 2005 ricevo una raccomandata. La apro. E' un atto di costituzione in mora della RAI contro di me. Significa che la RAI si rifarà su di me nel caso perdessimo la causa. Recita il testo: "La presente pertanto vale come formale costituzione in mora del dott. Paolo Barnard per tutto quanto la RAI s.p.a. dovesse pagare in conseguenza dell'eventuale accoglimento della domanda posta dal dott. Xxxx (colui che ci citò in giudizio, nda) nei confronti della RAI medesima".(6)
Nel leggere quella raccomandata provai un dolore denso, nell'incredulità.
Interpello Milena Gabanelli, che si dichiara estranea alla cosa. La sollecito a intervenire presso la RAI , e magari anche pubblicamente, contro questa vicenda. Dopo poche settimane e messa di fronte all'evidenza, la Gabanelli tenta di rassicurarmi dicendo che "la rivalsa che ti era stata fatta (dalla RAI contro di me, nda) è stata lasciata morire in giudizio... è una lettera extragiudiziale dovuta, ma che sarà lasciata morire nel giudizio in corso... Finirà tutto in nulla."(7)
Non sarà così, e non è così oggi: giuridicamente parlando, quell'atto di costituzione in mora è ancora valido, eccome. Non solo, Milena Gabanelli non ha mai preso posizione pubblicamente contro quell'atto, né si è mai dissociata dalla linea di difesa della RAI che è interamente contro di me, come sopra descritto, e come dimostrano gli ultimi atti del processo in corso.(8)
Non mi dilungo. All'epoca di questi fatti avevo appena lasciato Report, da allora ho lasciato anche la RAI. Non ci sarà mai più un'inchiesta da me firmata sull'emittente di Stato, e non mi fido più di alcun editore. Non mi posso permette di perdere l'unica casa che posseggo o di vedere il mio incerto reddito di freelance decimato dalle spese legali, poiché abbandonato a me stesso da coloro che si fregiavano delle mie inchieste 'coraggiose'. Questa non è una mia mancanza di coraggio, è realismo e senso di responsabilità nei confronti soprattutto dei miei cari.
Così la mia voce d'inchiesta è stata messa a tacere. E qui vengo al punto cruciale: siamo già in tanti colleghi abbandonati e zittiti in questo modo.
Ecco come funziona la vera "scomparsa dei fatti", quella che voi non conoscete, oggi diffusissima, quella dove per mettere a tacere si usano, invece degli 'editti bulgari', i tribunali in una collusione di fatto con i comportamenti di coloro di cui ti fidavi; comportamenti tecnicamente ineccepibili, ma moralmente assai meno.
Questa è censura contro la tenacia e il coraggio dei pochi giornalisti ancora disposti a dire il vero, operata da parte di chiunque venga colto nel malaffare, attuata da costoro per mezzo delle minacce legali e di fatto permessa dal comportamento degli editori.
Gli editori devono difendere i loro giornalisti che rischiano per il pubblico interesse, e devono impegnarsi a togliere le clausole di manleva dai contratti che, lo ribadisco, siamo obbligati a firmare per poter lavorare.
Infatti oggi in Italia sono gli avvocati dei gaglioffi, e gli uffici affari legali dei media, che di fatto decidono quello che voi verrete a sapere, giocando sulla giusta paura di tanti giornalisti che rischiano di rovinare le proprie famiglie se raccontano la verità.
Questo bavaglio ha e avrà sempre più un potere paralizzante sulla denuncia dei misfatti italiani a mezzo stampa o tv, di molto superiore a quello di qualsiasi politico o servo del Sistema.
Posso solo chiedervi di diffondere con tutta l'energia possibile questa realtà, via mailing lists, siti, blogs, parlandone. Ma ancor più accorato è il mio appello affinché voi non la sottovalutiate.
In ultimo. E' assai probabile che verrò querelato dalla RAI e dalla signora Gabanelli per questo mio grido d'allarme, e ciò non sarà piacevole per me.
Hanno imbavagliato la mia libertà professionale, ma non imbavaglieranno mai la mia coscienza, perché quello che sto facendo in queste righe è dire la verità per il bene di tutti. Spero solo che serva.
Grazie di avermi letto.
Paolo Barnard
dpbarnard@libero.it
Note:
1) Tribunale civile di Roma, Atto di citazione, 31095, Roma 10/11/2004.
2) Fatto su cui ho più di un testimone pronto a confermarlo.
3) Nel volume "Le inchieste di Report" (Rizzoli BUR, 2006) Milena Gabanelli eroicamente afferma: "...alle nostre spalle non c'è un'azienda che ci tuteli dalle cause civili". Prendo atto che il prestigioso studio legale del Prof. Avv. Andrea Di Porto, Ordinario nell'Università di Roma La Sapienza , difende in questo dibattimento sia la RAI che Milena Gabanelli. Ma non me.
4) Tribunale Ordinario di Roma, Sezione I Civile-G.U. dott. Rizzo- R.G.N. 83757/2004, Roma 30/6/2005: "Per tutto quanto argomentato la RAi-Radiotelevisione Italiana S.p.a. e la dott.ssa Milena Gabanelli chiedono che l'Illustrissimo Tribunale adìto voglia:...porre a carico del dott. Paolo Barnard ogni conseguenza risarcitoria...".
5) Un esempio di questa clausola tratto da un mio contratto con la RAI : "Lei in qualità di avente diritto... esonera la RAI da ogni responsabilità al riguardo obbligandosi altresì a tenerci indenni da tutti gli oneri di qualsivoglia natura a noi eventualmente derivanti in ragione del presente accordo, con particolare riferimento a quelli di natura legale o giudiziaria".
6) Raccomandata AR n. 12737143222-9, atto di costituzione in mora dallo Studio Legale Di Porto per conto della RAI contro Paolo Barnard, Roma, 3/10/2005.
7) Email da Milena Gabanelli a Paolo Barnard, 15/11/2005, 09:39:18
8) Tribunale Civile di Roma, Sezione Prima, Sentenza 10784 n. 5876 Cronologico, 18/5/2007: "la parte convenuta RAI-Gabanelli insisteva anche nelle richieste di cui alle note del 30/6/2005...". (si veda nota 4)
mercoledì, febbraio 20, 2008
Notizie a confronto
USTICA, BONFIETTI SU COSSIGA: ALLUCINANTE CHE NESSUNO SI MUOVA…
(Agi) - "E’ allucinante, in un paese civile, che un ex Presidente della Repubblica, un ex presidente del Consiglio dica queste cose e nessuno si muova". E’ il commento rilasciato all’Agi da Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione Vittime della strage di Ustica, sulle dichiarazioni del Presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga circa l’ipotesi che il Dc d9 dell’Itavia - la cui esplosione in volo, il 27 giugno 1980, costo’ la vita ad 81 persone - possa essere stato abbattuto da un missile dei francesi.
Cossiga, come riporta oggi Libero, spiega che furono i servizi segreti italiani, quando lui era Presidente della Repubblica, ad informarlo assieme al sottosegretario Giuliano Amato, che erano stati i francesi, con un aereo della Marina, a lanciare un missile non a impatto, ma a risonanza. Obiettivo, mancato, abbattere l’aereo di Gheddafi che si salvo’ perche’, subito dopo il decollo, l’areo col leader libico torno’ indietro informato dal generale Santovito del Sismi.
FIORELLO: KATIA NOVENTA? ERA MIA VALLETTA A KARAOKE…
(Ansa) - ’Katia Noventa? Era la mia valletta al karaoke. Ora si’ che comincio a intravedere un futuro per il nostro Paese’: Fiorello ha scherzato oggi in studio con Nanni Moretti, ospite a ’Viva Radio2’, sulle ipotesi di candidature per il Pdl. Lo showman, che per tutta la puntata ha usato parole misurate per non alimentare altre polemiche, ha esclamato, tra il serio e il faceto: ’ognuno candida chi gli pare’, prendendo spunto dalla notizia della presunta ’discesa in campo’ della sua ex valletta nelle fila del Popolo della Liberta’.
Largo ai giovani!
Incredibile performance di Ciriaco De Mita che lascia il PD. Quest uomo ha 80 anni (è nato nel 1928), ma ancora non vuol farsi da parte. Un'altra ragione, l'ennesima, per dimostrare come il paese non sia maturo.
Pd, De Mita: "No a mia lista ma non è addio alla politica"
Nessuna lista 'De Mita', né un avvicinamento alla 'Rosa bianca'. Ma nemmeno un "addio alla politica". Semplicemente, un "addio al Pd". Così Ciriaco De Mita lasciando il coordinamento nazionale del Pd, dove ha preso la parola per annunciare, in dissenso sulle regole per la selezione delle candidature, il suo abbandono al partito. Ma non è un addio alla politica. "Come diceva un poeta spagnolo - spiega -, 'Quando moriro' morirò con la chitarra in manò, io dico che quando morirò farò l'ultimo discorso elettorale".
Pd, De Mita: "Vittima dell'età. Mi ribello e vi lascio"
"Nell'applicazione dello statuto sono vittima dell'età. Mi ribello e vi lascio". Così l'ex segretario Dc Ciriaco De Mita, prendendo la parola all'inizio della direzione del Pd, ha protesta,secondo quanto riferito, per l'esclusione della sua candidatura. "Non sarò con voi - avrebbe aggiunto De Mita - ma contro di voi"
domenica, febbraio 17, 2008
Guti pizzicato
Il settimanale scandalistico "Cuore" sotto al titolo «El carinoso» (L'affettuoso n.d.r.» documenta la fine di una cena di Guti con un altro uomo, quando tra i due scatta un bacio che la rivista definisce «appassionato». Il gossip è stato subito ripreso con ampia eco da numerosi siti spagnoli. Tutto ciò, secondo il settimanale spagnolo, non sarebbe stato gradito dalla moglie del 31enne calciatore, la presentatrice tv Arancha de Benito, che stanca delle uscite notturne del marito avrebbe fatto sapere di essersi presa una "pausa di riflessione".
Ma quale nuovo cinema italiano?
In Italia vengono celebrati come grandi capolavori dei filmetti simpatici. Uno di essi è "Caos Calmo", che infatti da Berlino è tornato a mani vuote. Ma quando smetteremo di raccontarci ch produciamo opere d'arte? Noi da anni, aldilà dei film di Boldi e de Sica non abbiamo prodotto nulla né degno di essere ricordato e tantomeno che si sia dimostrato un successo al botteghino. Sono opere girate male, sciatte, opere interpretate da gente che non sa recitare. Muccino (grande) è stato furbo ed ha girato un film ruffiano che agli americani è piaciuto. Ma da qui a dire che "la ricerca della felicità" sia un'opera d'arte ce ne passa.
La cronaca di Repubblica (certo non un giornale di destra) , dalla Berlinale
Berlino, il brasiliano "Tropa de elite" conquista da outsider l'Orso d'oro. Violenza e realismo nell'opera dell'esordiente José Padilha Il film di Michel Gondry chiude la 58esima edizione del Festival.
- E' andato al duro e spietato film brasiliano Tropa de elite l'Orso d'oro alla 58ma edizione della Berlinale. Il premio per la migliore regia è stato assegnato a Paul Thomas Anderson per Il petroliere (There will be blood). Migliore interpretazione maschile all'iraniano Reza Najie, allevatore di ostriche nel film Avaze Ginjeshk-ha (La canzone dei passeri). Migliore interpretazione femminile alla britannica Sally Hawkins, protagonista del film di Mike Leigh, Happy go lucky in cui interpreta un'insegnante inguaribile ottimista. Orso d'argento per la miglior musica a Johnny Greenwood, chitarrista dei Radiohead, autore della colonna sonora del film Il Petroliere. Orso d'argento-Gran Premio della giuria all'americano Errol Morris per il documentario sulle torture nel carcere di Abu Ghraib Standard operating procedure (Una proceduta standard).
Come si poteva prevedere dopo aver letto le critiche dei giornali tedeschi e aver colto gli umori degli osservatori, non ci sono stati premi per Caos Calmo di Antonello Grimaldi. Nelle ore successive alla presentazione in concorso del film, qualcuno aveva sperato almeno in un riconoscimento per Nanni Moretti attore, che aveva avuto critiche discrete.
Il film brasiliano Tropa de elite, firmato dall'esordiente José Padilha, era molto piaciuto a Berlino, sia alla critica che al pubblico e soprattutto agli acquirenti internazionali. Costruito come un thriller d'azione dal montaggio nervoso e dallo stile quasi documentaristico, ispirato a fatti e personaggi della cronaca nera brasiliana, il film è stato a lungo e a sorpresa campione d'incasso in Sud America negli ultimi mesi del 2007 ed era arrivato a Berlino da autentico outsider ma con la forza immediata di un cinema realistico che mancava da tempo sulla scena mondiale.
Tra incursioni tra i trafficanti di droga e vere battaglia all'arma bianca sullo sfondo dei disordini delle favelas più povere delle grandi metropoli come Rio de Janeiro, le scene di violenza nel film hanno scatenato polemiche sulla stampa tedesca. In un'intervista al quotidiano Tagesspiegel Padilha ha difeso la sua scelta artistica nel mostrare "in maniera molto diretta la violenza e la corruzione della polizia" di Rio de Janeiro. "I conflitti violenti in ogni società sono la regola e non l'eccezione" aveva detto il regista contestando l'equazione tra povertà e violenza, poiché "in molte città del mondo c'è più povertà che a Rio e a San Paolo, ma meno violenza. Lo scorso anno i poliziotti brasiliani hanno ammazzato più di mille persone, negli Stati Uniti i morti sono stati 200, ma con una popolazione di 300 milioni di persone".
Violenza e realismo anche nel film di Errol Morris che ha conquistato il Gran premio della giuria, nato dall'orrore per le conseguenze dell'intervento americano in Iraq. Durante la conferenza stampa di presentazione del documentario accolto per la prima volta in concorso in un festival internazionale, il regista era stato esplicito: "A motivarmi - aveva detto - è stato l'orrore per la politica estera americana. C'è qualcosa di pazzesco, quando in una democrazia le torture vengono definite una cosa normale". Tra le scene più disarmanti del film ci sono le interviste con le tre ex soldatesse protagoniste di quelle torture, l'allora ventenne Lynndie England e le altre due giovanissime colleghe, Sabrina Harman e Megan Ambuhl. "Quando sono arrivata ad Abu Ghraib - ricorda la England nel film - le sevizie dei prigionieri si praticavano già. All'inizio mi sembrò sbagliato, ma la realtà era quella".
Dopo la consegna degli Orsi al Berlinale Palast, il festival chiude il sipario con la proiezione dell'ultimo film del regista visionario francese Michel Gondry, Be Kind Rewind. L'autore francese, affermato regista di videoclip e di film quanto meno originali come Human Nature, Se mi lasci ti cancello, L'arte del sogno, si presenta a Berlino con la surreale storia di un uomo, Jerry (Jack Black) che, nel tentativo di sabotare una centrale elettrica, si ritrova con il cervello magnetizzato. Il campo magnetico così creato cancella tutte le videocassette del videonoleggio del suo amico Mike (Mos Def) e, per non deludere i pochi clienti, i due si vedono costretti a rigirare tutti i classici da videonoleggio. Lo faranno con l'arte dello "sweding" (reinventare con ciò che si ha a disposizione quello che si ama, dal cinema alle scarpe da tennis) reinterpretando così Ghostbusters, A spasso con Daisy, passando, fra gli altri, per il Re Leone, 2001: Odissea nello spazio, Rush Hour, Quando eravamo re, Robocop. Incredibilmente i film conquistano i clienti del negozio e pian piano diventano popolari, tanto che i loro concittadini iniziano a farsi coinvolgere dal progetto. Tutto fila liscio finché un avvocato rampante (Sigourney Weaver) cita le due novelle star locali per violazione dei diritti d'autore.
sabato, febbraio 16, 2008
Parola di Silvio: "Biagi lasciò per soldi".
Berlusconi: Biagi lasciò per liquidazione
Le figlie: «Ignominia. Lasci stare i morti»
La versione del Cavaliere: «Prevalse il suo desiderio di poter essere liquidato con un compenso molto elevato». Polemiche
MILANO - «Mi sono battuto perchè Enzo Biagi non lasciasse la televisione, ma alla fine prevalse in Biagi il desiderio di poter essere liquidato con un compenso molto elevato». Lo ha detto Silvio Berlusconi,
Silvio Berlusconi durante la registrazione di Tv7 (Ansa)nel corso di Tv7. Il leader del Pdl, Silvio Berlusconi, è tornato o a parlare del cosiddetto «editto bulgaro». «Io non ho detto "cacciate Biagi e Santoro" - ha aggiunto - ma mi sono sempre scagliato contro l’uso improprio della tv. Se le forze dell’ordine hanno delle armi, queste servono per garantire l’ordine, se poi si spara alla gente è farne un uso improprio».
«LASCI STARE I MORTI» - Una «ignominia», una «falsità» contraddetta da carte che possono documentare tutto: così Bice e Paola Biagi, le figlie di Enzo, hanno commentato le dichiarazioni di Silvio Berlusconi, dicendosi «letteralmente indignate» «La moralità di nostro padre non si può discutere - dicono all'unisono Bice e Paola - è documentata. È stato un partigiano che ha avuto la schiena dritta dal '45, e non solo con il signor Berlusconi, e per questo ha pagato. Berlusconi deve farla finita, deve stare zitto e non strumentalizzare un morto che non può rispondere per la sua campagna elettorale». Le due figlie di Biagi, che proprio stasera festeggiano i vent'anni di due loro nipoti, («e a tutto pensiamo - dicono - tranne che a Berlusconi, grazie a Dio»), aggiungono poi di voler «seguire il consiglio del presidente Napolitano, che era amico di nostro padre, e che invita a smorzare i toni. Continueremo con la stessa discrezione che abbiamo avuto finora ma Berlusconi deve smetterla di dire falsità. Piuttosto dovrebbe istruirsi un pò e leggere per esempio "Le mie prigioni" così da capire che ad attaccare un morto si fa un danno soprattutto a se stessi». Proprio Paola in queste settimane sta curando il carteggio del padre: «quando sarà pubblico - conclude - si vedrà chi ha ragione e chi si è sempre comportato con dignità e moralità».
da corriere.it
Riprendono i viaggi della disperazione
Esattamente come accadeva 50 anni fa.
«Le prenotazioni per la legge 194 sono esaurite. Riprenderanno il 19 febbraio dalle 11 alle 12». Così la segreteria telefonica dell’ospedale Macedonio Melloni, tra i più importanti di Milano. Inutile meravigliarsi. Prendere un appuntamento per interrompere la gravidanza è solo l’inizio dell’odissea che le donne devono affrontare per abortire oggi in Italia. Un percorso a ostacoli tra ambulatori aperti solo un’ora alla settimana, accettazioni a numero chiuso, colloqui, visite ginecologiche ed ecografie che costringono ad andare in ospedale anche quattro volte, liste d’attesa che superano i 15 giorni almeno in un caso su due, l’insistenza dei volontari del Movimento per la vita in corsia, umiliazioni emblematiche come il cartello con la scritta «Interruzioni di gravidanza» appeso ai lettini delle donne in procinto di abortire al Niguarda, eliminato solo dopo l’intervento dei sindacati dell’ospedale milanese. L’irruzione della polizia al Federico II di Napoli dopo un aborto terapeutico è la punta dell’iceberg di un fenomeno che spinge sempre più donne a rivolgersi a cliniche estere. In fuga dall’Italia per abortire.
I viaggi dell’aborto
«Are there a lot of italian women coming here? », «Yes. Lately even more». Alla domanda se ci sono numerose italiane che prendono un appuntamento, la centralinista della Leigham Clinic non ha dubbi: «Si. Ultimamente sempre di più». La clinica a sud di Londra è diventata uno dei punti di riferimento delle donne che con 780 sterline possono interrompere la gravidanza nel giro di una settimana. Un numero che non ha eguali in Europa. Lo dimostrano le statistiche del ministero della Salute inglese. Con l’arrivo in Gran Bretagna di una donna ogni due giorni, l’Italia è in cima alla classifica dei viaggi per abortire, seconda solo all’Irlanda (dove le Ivg sono illegali ameno che non siano in pericolo la vita e la salute della donna). Avverte Vicky Claeys, direttore per l’Europa dell’International Planned Parenthood Federation, il network mondiale per la tutela della maternità e della salute sessuale con sede a Bruxelles: «Il clima che si respira in Italia è preoccupante. La legge c’è. Il problema è la sua esecuzione: abortire sta diventando quasi impossibile ». Due le conseguenze dietro l’angolo, almeno secondo Bruxelles: «Chi ha i soldi va all’estero, le altre rischiano di tornare agli aborti clandestini». Tra i medici contattati spesso dall’Italia, ginecologi famosi come il londinese Kypros Nicolaides e il parigino Yves Ville. Le donne prendono il volo verso Londra e Parigi soprattutto per le interruzioni terapeutiche di gravidanza (quelle dopo i tre mesi, qui vietate di fatto dalla 24ma settimana). Ma sono in crescita anche quelle che si dirigono in auto in Svizzera per prendere la pillola Ru486 non ammessa in Italia e ottenibile in Canton Ticino con 400 euro. «Ne arriva almeno una a settimana solo da noi—ammette il ginecologo ostetrico Jürg Stamm, balzato spesso all’onore delle cronache per la sua attività al centro di fertilità che guida all’ospedale «La Carità » di Locarno —. Io di solito aiuto le donne che vogliono un figlio e non riescono ad averlo. Ma l’Ivg non è un reato: perché, dunque, negare alle pazienti la possibilità di abortire senza entrare in sala operatoria? ».
Anti-abortisti in corsia
Tra i motivi che spingono ad andarsene, anche le difficoltà con cui spesso deve fare i conti chi si rivolge agli ospedali. Al San Paolo di Milano gli appuntamenti per le Ivg vengono presi un’ora alla settimana il venerdì, dalle 13.30 alle 14.30. Al Buzzi di via Castelvetro gli sportelli sono aperti il mercoledì e il venerdì alle 7.30, ma la segreteria telefonica avvisa già: «Vengono accettate le prime 16 donne». Altra città, nuove situazioni. Agli ospedali Riuniti di Bergamo la sede del Movimento della vita è all’interno del reparto di Ostetricia e Ginecologia guidato dal 2000 da Luigi Frigerio (vicino a Comunione e Liberazione). Al San Matteo di Pavia se n’è appena andato via anche l’ultimo non obiettore: gli aborti li fanno due giovani con borsa di studio. A Desenzano c’è un solo medico che esegue le Ivg (quando è malato o in vacanza ne deve arrivare uno da fuori). Stesse scene anche fuori dalla Lombardia. Al Ca’ Foncello di Treviso c’è un solo ginecologo su 15. E, proprio in Veneto, è atteso a settimane l’arrivo in consiglio regionale del progetto di legge di iniziativa popolare che prevede, tra l’altro, la presenza di volontari antiabortisti negli ospedali. Il consigliere di Alleanza Nazionale, Raffaele Zanon, ha chiesto di mettere in discussione la proposta subito dopo l’approvazione del Bilancio 2008. Ancora. «In Basilicata la percentuale di camici bianchi che non praticano aborti è vicina al 93%, anche se i dati del ministero della Salute, fermi al 2005, li danno al 42%—denuncia il radicale Valerio Federico —. All’ospedale San Carlo di Potenza raggiungono la quota del 95%».
Le liste d’attesa
In Italia, insomma, in media sei ginecologi su dieci sono obiettori, con punte del 70% al Centro. «Così hanno più chance di fare carriera e diventare primari, ma i tempi di attesa per le pazienti si allungano», fanno notare al Ced, uno dei principali consultori laici di Milano. Per almeno una donna su due trascorrono più di due settimane tra il certificato del medico e la data dell’intervento. Il 25% deve aspettare fino a 15 giorni. E adesso con la fuga all’estero per le Ivg si rischia un déjà vu di quanto già successo con la fecondazione assistita (a quattro anni dall’approvazione della legge 40, «I viaggi per la provetta» sono al centro proprio oggi di un convegno organizzato da SOS Infertilità allo Spazio Guicciadini di Milano). Non finisce qui. C’è chi teme che mentre negli ospedali pubblici si moltiplicano le difficoltà per abortire, nelle cliniche private prendano piede le interruzioni di gravidanza clandestine. Mascherate da aborti spontanei. Da codice penale.
Benedetta Argentieri, Simona Ravizza
da Corriere.it
«Le prenotazioni per la legge 194 sono esaurite. Riprenderanno il 19 febbraio dalle 11 alle 12». Così la segreteria telefonica dell’ospedale Macedonio Melloni, tra i più importanti di Milano. Inutile meravigliarsi. Prendere un appuntamento per interrompere la gravidanza è solo l’inizio dell’odissea che le donne devono affrontare per abortire oggi in Italia. Un percorso a ostacoli tra ambulatori aperti solo un’ora alla settimana, accettazioni a numero chiuso, colloqui, visite ginecologiche ed ecografie che costringono ad andare in ospedale anche quattro volte, liste d’attesa che superano i 15 giorni almeno in un caso su due, l’insistenza dei volontari del Movimento per la vita in corsia, umiliazioni emblematiche come il cartello con la scritta «Interruzioni di gravidanza» appeso ai lettini delle donne in procinto di abortire al Niguarda, eliminato solo dopo l’intervento dei sindacati dell’ospedale milanese. L’irruzione della polizia al Federico II di Napoli dopo un aborto terapeutico è la punta dell’iceberg di un fenomeno che spinge sempre più donne a rivolgersi a cliniche estere. In fuga dall’Italia per abortire.
I viaggi dell’aborto
«Are there a lot of italian women coming here? », «Yes. Lately even more». Alla domanda se ci sono numerose italiane che prendono un appuntamento, la centralinista della Leigham Clinic non ha dubbi: «Si. Ultimamente sempre di più». La clinica a sud di Londra è diventata uno dei punti di riferimento delle donne che con 780 sterline possono interrompere la gravidanza nel giro di una settimana. Un numero che non ha eguali in Europa. Lo dimostrano le statistiche del ministero della Salute inglese. Con l’arrivo in Gran Bretagna di una donna ogni due giorni, l’Italia è in cima alla classifica dei viaggi per abortire, seconda solo all’Irlanda (dove le Ivg sono illegali ameno che non siano in pericolo la vita e la salute della donna). Avverte Vicky Claeys, direttore per l’Europa dell’International Planned Parenthood Federation, il network mondiale per la tutela della maternità e della salute sessuale con sede a Bruxelles: «Il clima che si respira in Italia è preoccupante. La legge c’è. Il problema è la sua esecuzione: abortire sta diventando quasi impossibile ». Due le conseguenze dietro l’angolo, almeno secondo Bruxelles: «Chi ha i soldi va all’estero, le altre rischiano di tornare agli aborti clandestini». Tra i medici contattati spesso dall’Italia, ginecologi famosi come il londinese Kypros Nicolaides e il parigino Yves Ville. Le donne prendono il volo verso Londra e Parigi soprattutto per le interruzioni terapeutiche di gravidanza (quelle dopo i tre mesi, qui vietate di fatto dalla 24ma settimana). Ma sono in crescita anche quelle che si dirigono in auto in Svizzera per prendere la pillola Ru486 non ammessa in Italia e ottenibile in Canton Ticino con 400 euro. «Ne arriva almeno una a settimana solo da noi—ammette il ginecologo ostetrico Jürg Stamm, balzato spesso all’onore delle cronache per la sua attività al centro di fertilità che guida all’ospedale «La Carità » di Locarno —. Io di solito aiuto le donne che vogliono un figlio e non riescono ad averlo. Ma l’Ivg non è un reato: perché, dunque, negare alle pazienti la possibilità di abortire senza entrare in sala operatoria? ».
Anti-abortisti in corsia
Tra i motivi che spingono ad andarsene, anche le difficoltà con cui spesso deve fare i conti chi si rivolge agli ospedali. Al San Paolo di Milano gli appuntamenti per le Ivg vengono presi un’ora alla settimana il venerdì, dalle 13.30 alle 14.30. Al Buzzi di via Castelvetro gli sportelli sono aperti il mercoledì e il venerdì alle 7.30, ma la segreteria telefonica avvisa già: «Vengono accettate le prime 16 donne». Altra città, nuove situazioni. Agli ospedali Riuniti di Bergamo la sede del Movimento della vita è all’interno del reparto di Ostetricia e Ginecologia guidato dal 2000 da Luigi Frigerio (vicino a Comunione e Liberazione). Al San Matteo di Pavia se n’è appena andato via anche l’ultimo non obiettore: gli aborti li fanno due giovani con borsa di studio. A Desenzano c’è un solo medico che esegue le Ivg (quando è malato o in vacanza ne deve arrivare uno da fuori). Stesse scene anche fuori dalla Lombardia. Al Ca’ Foncello di Treviso c’è un solo ginecologo su 15. E, proprio in Veneto, è atteso a settimane l’arrivo in consiglio regionale del progetto di legge di iniziativa popolare che prevede, tra l’altro, la presenza di volontari antiabortisti negli ospedali. Il consigliere di Alleanza Nazionale, Raffaele Zanon, ha chiesto di mettere in discussione la proposta subito dopo l’approvazione del Bilancio 2008. Ancora. «In Basilicata la percentuale di camici bianchi che non praticano aborti è vicina al 93%, anche se i dati del ministero della Salute, fermi al 2005, li danno al 42%—denuncia il radicale Valerio Federico —. All’ospedale San Carlo di Potenza raggiungono la quota del 95%».
Le liste d’attesa
In Italia, insomma, in media sei ginecologi su dieci sono obiettori, con punte del 70% al Centro. «Così hanno più chance di fare carriera e diventare primari, ma i tempi di attesa per le pazienti si allungano», fanno notare al Ced, uno dei principali consultori laici di Milano. Per almeno una donna su due trascorrono più di due settimane tra il certificato del medico e la data dell’intervento. Il 25% deve aspettare fino a 15 giorni. E adesso con la fuga all’estero per le Ivg si rischia un déjà vu di quanto già successo con la fecondazione assistita (a quattro anni dall’approvazione della legge 40, «I viaggi per la provetta» sono al centro proprio oggi di un convegno organizzato da SOS Infertilità allo Spazio Guicciadini di Milano). Non finisce qui. C’è chi teme che mentre negli ospedali pubblici si moltiplicano le difficoltà per abortire, nelle cliniche private prendano piede le interruzioni di gravidanza clandestine. Mascherate da aborti spontanei. Da codice penale.
Benedetta Argentieri, Simona Ravizza
da Corriere.it
venerdì, febbraio 15, 2008
Follie per un minuto!
Rai multata per un episodio di Lost - "Troppa violenza per i minori"
Nella puntata un bambino viene obbligato a uccidere, ma suo fratello lo fa al suo posto
Il Garante: "Nessuna segnalazione che mettesse in guardia le famiglie"
ROMA - Centomila euro di multa per una puntata di Lost (RaiDue) trasmessa in un orario non adeguato ai minori. La sanzione è stata inflitta alla Rai dall'Autorità garante per le Comunicazioni, per un episodio "al cui interno si sono rilevati contenuti di violenza". Mandato in onda alle 21.51 del 13 marzo 2007, al margine (21.52) della fascia oraria cosiddetta di "televisione per tutti". Fenomeno tv di culto creato da J. J. Abrams, Damon Lindelof, Jeffrey Lieber, vincitore di un Golden Globe e di un Emmy Award, il serial è ambientato su una misteriosa isola tropicale sulla quale si ritrovano i superstiti di un incidente aereo. Negli Usa dal 2004, in Italia è stato trasmesso prima da Fox (Sky) poi da RaiDue, un debutto con ascolti record che si sono stabilizzati con uno zoccolo duro di appassionati. Che saputo della sanzione hanno scatenato il dibattito sui blog.
L'episodio in questione si intitola Salmo 23. Il passaggio incriminato è quello in cui alcuni guerriglieri nigeriani obbligano un bambino, in un villaggio, a sparare a un uomo anziano; il bambino non ne ha la forza e suo fratello (poi si scoprirà essere Eko), più grande, impugna la pistola e uccide l'uomo. Nel provvedimento dell'Authority si legge che la sequenza "per caratteristiche presentate e collocazione oraria, appare di forte impatto emotivo per un pubblico di minori". Tuttavia la Rai "non ha adottato alcun sistema di segnalazione iconografica (la "farfallina" rossa, ndr) che avrebbe consentito alle famiglie l'espletamento della propria funzione educativa" come previsto dal "Codice di autoregolamentazione tv e minori".
La Rai ha contestato le accuse, scrivendo nelle sue memorie di aver analizzato l'episodio preventivamente e di averlo mandato in onda senza segnalazione"circa la sua non idoneità per i minori (come del resto negli altri Paesi del mondo ove è diffuso) in quanto privo di immagini cruente e/o efferate e di elementi di violenza tali da arrecare pregiudizio allo sviluppo psichico, fisico e morale dei minori".
Nell'episodio, scrive la Rai, si distingue "nettamente la sfera del bene da quella del male", la sequenza "trasmette in maniera forte e inequivocabile il valore dell'amore fraterno laddove il maggiore dei due si sostituisce volontariamente al fratello più piccolo nel compimento del gesto drammatico". E la puntata è stata trasmessa alle 21.51 circa, orario in cui "si presume che i più giovani all'ascolto siano supportati dalla presenza di un adulto". Giustificazioni che l'Authority non ha accolto. Per una lunga serie di ragioni, fra cui il fatto che nella scena sono coinvolti minori, che è "crudamente realistica" e "non preceduta da idonea argomentazione che ne agevoli la comprensibilità" in quanto collocata a inizio episodio.
Fra i blogger il dibattito è aperto. Sono centinaia le community animate dai cultori di Lost. Lostmania, ad esempio. "Vogliamo parlare di Beautiful, degli ovuli di Brooke, delle scene quasi sadomaso di Centovetrine? Vergogna, Lost al confronto è un idillio" (Valentina). "E' una cosa assurda - scrive Claudio - vanno in onda i particolari della strage di Erba, il sangue, si parla delle feci nell'appartamento della povera ragazza di Perugia, poi ci si scandalizza per una fiction, come se i ragazzi non capissero la differenza fra realtà e fantasia". "L'altra sera al Tg1 hanno fatto vedere la strage al mercato di Baghdad... Molto meglio Lost" (Sherazade).
"E C.S.I. allora? E le casalinghe? Ma anche Medium può impressionare. Perché non trasmettere solo il Grande Fratello, così educativo..." (Marxetto); "Lost viene multato quando tutte le domeniche alle 14 ci sono donne nude su Canale 5" (ceci_bogno). E ancora, da Telefilm Central Forum: "In Heroes c'era Sylar che apriva le teste e Claire su un letto d'obitorio col petto squartato e non hanno detto niente, poi si lamentano per Lost" (AcRobat). "Secondo voi - scrive FigliodiOdino su Lostpedia - cos'è più damnoso per un bambino, un po' di finzione in cui si vede Charlie bucato da una freccia o gli attori dei reality che vengono spiati dalle telecamere mentre fanno sesso? E i servizi di modelle nude di Studio Aperto? Ma và là..."
da Repubblica.it
Gli imbecilli a sinistra
Dalla stupida che parla con una persona puntandogli il megafono in faccia, agli idioti che invece di illustrare i motivi della manifestazione esasperano i cittadini non spiegando bene le ragioni di una manifestazione sacrosanta, ecco il peggio di una certa sinistra fatta di sfigati, veterofemministe e gente che si diverte più che altro a provocare. Questi alla causa fanno più male che bene.
giovedì, febbraio 14, 2008
Solo in Italia
Ferrara: "Farò il test per la sindrome Klinefelter"
"Mi sottoporrò alle analisi del sangue perchè penso di avere la sindrome di Klinefelter": lo ha detto il direttore de Il Foglio Giuliano Ferrara, intervistato da Maurizio Belpietro su mattina 5, facendo riferimento alla donna che ha abortito nei giorni scorsi al Policlinico di Napoli alla quale era stato diagnosticata una malformazione del feto legata alla sindrome di Klinefelter. Questa sindrome, dice Ferrara, è dovuta a un difetto dei cromosomi che determina tra l'altro un'alterazione degli organi sessuali; "e siccome ho testicoli piccoli e grandi mammelle - ha aggiunto - farò le analisi".
Un fatto che dimostra ancora una volta l'assoluta amoralità di Giuliano Ferrara che peraltro non capisce che il suo problema non si riferisce alla pochezza (come egli stesso afferma) del suo apparato genitale, quando alla, pressoché assoluta mancanza, di altri due muscoli, uno nella cassa toracica, l'altro nello spazio fra le due orecchie. Però dimostra ache che si può vivere senza i due. Magari non benissimo, ma si può comunque arrivare ad essere ministri per i rapporti con il Parlamento. Solo l'Italia può considerare intellettuale uno così e vedere queste stupidaggini come "amenità" o provocazioni intellettuali facendole peraltro passare in tv senza contradditorio.
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