lunedì, settembre 15, 2008

Lo squallido mondo culturale italiano

Massimiliano Parente


Posto la dolorosa lettera di un autore che io amo molto (ma si sa sono ignorante) su di un personaggio che detesto, uno dei personaggi più sopravvalutati del secondo dopoguerra. Non so se ci sia del vero. Conoscendo dall'interno lo squallido mondo dell'editoria italiana (dove devi aspettare un anno per essere pagato), sono propenso a credere che le accuse di Parente siano vere. Se verrà dimostrato il contrario io posterò l'altra campana. Ho dubbi che ciò avvenga.

Lettera dello scrittore Massimiliano Parente a Dagospia

Questo è un atto di denuncia pubblica contro il mio editore, contro un sopruso, contro un’umiliazione e una corruzione a cui non voglio e non posso sottostare. Questo è un atto d’avanguardia, un avvenimento nella palude di bon ton e finte scaramucce dei letterati italiani. Questo è un atto postumo, senza precedenti per uno scrittore vivo. Perché la mafia è molto più vicina di quella di cui parla qualche autore da classifica di vendita. Perché è troppo facile, come fanno molti scrittori oggi, ritenersi indipendenti parlando male di Berlusconi o di Veltroni, lo può fare chiunque e si è sempre al sicuro, quando hanno accettato una prigione ben più meschina.

Io sono uno scrittore, e ci sono cose che “non si fanno” neppure per uno scrittore, questo diranno di me nel paese delle marchette politiche, televisive, salottiere, burocratiche e sì, anche editoriali. Ma uno scrittore è colui che scrive e dice ciò che non si può dire e scrivere, questo è l’impegno, non certo la ribellione politica che si appaia sempre bene con la gastronomia e le buone frequentazioni.

Molti mi daranno del pazzo, ma forse qualcuno, almeno uno, capirà cosa c’è dietro quello che sto per dire, perché è tutto davanti. Chi non capirà avrà altre ragioni, perché la cultura non conta niente, perché è inutile mandare i propri figli a scuola, perché se un chirurgo contasse quanto uno scrittore vi ribellereste ritenendo in pericolo la vostra vita, mentre leggere libri di merda, pensare pensieri di merda, avere idee di merda non fa male a nessuno, almeno così credete. Come se nell’arte non esistesse un’oggettività disarmante. Per cui vi racconto una storia. Una storia privata ma anche pubblica, privata per diventare pubblica perché nessuno scrittore può avere una vita privata.

L’editoria che conta funziona per cooptazione di autori accondiscendenti, è una mafia di salotterie che ammettono soltanto il simile e l’innocuo. Non bisogna temere di usare le parole. È una mafia di mediocrità e di carriere. Lo scrittore è ormai una figura impiegatizia e trattata come tale, costretto al margine di ogni potere, soprattutto del potere della parola. Il nemico non è politico, è editoriale, è la solidarietà del conformismo. Vale per qualsiasi campo, ormai, ma per uno scrittore è peggio.

Elisabetta Sgarbi





Mi ribello a questa corruzione, a questa condizione di irrilevanza. Mi ribello al fatto che se non accetto un tentativo di corruzione intellettuale di Vittorio Sgarbi io debba essere estromesso gelidamente da Bompiani, diretta dalla sorella di Vittorio Sgarbi. “Hai presente il tuo libro su Proust che dovevamo fare insieme? Non si fa più”, fine della discussione, e a fronte di un contratto con un’opzione di dieci anni su tutte le mie opere future. E dovrei abbassare la testa, e dire signorsì, perché così è se vi pare. Invece un cazzo, a me non pare.

Non mi è mai capitato di essere trattato con tanto disprezzo, con tanta supponenza, da quando ho fatto il mio ingresso in Bompiani, da quando la Bompiani ha deciso di pubblicare uno dei miei romanzi più importanti ritenendomi forse addomesticabile, corrompibile, salottizzabile. Elisabetta Sgarbi, in seguito alle proteste di Antonio Scurati, piccolo autore incapace di difendersi da solo ma capace di andare dalla mamma per lamentarsi dei miei interventi, mi ha imposto fin da subito di tacere perché non ero più un “battitore libero” ma un suo autore. Facciamo un “patto fra gentiluomini”, mi disse. Cosa? “Altrimenti sei fuori”.

Eppure ho acconsentito perché la mia opera conta più di me e immensamente più di una mia opinione su Scurati e gli altri oscurati dalla storia futura, che amministrano un potere e il salto nel buio del talento e di una missione letteraria. Così per un anno ho taciuto, non sono intervenuto, ho rifiutato articoli e interventi e recensioni su questo autore che ricorre alla mamma, ma tutto ha un limite. Paradossalmente c’è più democrazia nei giornali che nell’editoria. Lo scrittore ormai è senza alcuna dignità, o fa il servo oppure è ridotto all’emarginazione. Sono scorrettezze che accadono normalmente ma stanno tutti zitti perché hanno paura o perché chissenefrega. Quindi non servirà a niente quello che sto per scrivere, ma resti agli atti, che sia anche questo effrazione alle regole, opera, avanguardia.

Mi hanno messo in un angolo fin da subito, fin da quando Edmondo Berselli, su L’Espresso, scrisse di sua spontanea volontà una recensione di Contronatura per dire che si trovava “finalmente di fronte a un’opera d’arte fondamentale”. Ne rimasi sorpreso anche io perché non conoscevo Berselli e non mi aspettavo niente dalla critica italiana, e anche Wlodek Goldkorn, capocultura dell’Espresso, mi dichiarò la sua sincera stima, al di sopra di ogni sospetto, tenuto conto che collaboro stabilmente su un giornale di altra sponda politica.

Da parte dell’editore è scattato invece un odio in più, un’emarginazione ulteriore, con buona pace di Berselli e altri che erano anzi sorpresi che uscisse un romanzo indiscutibilmente eversivo, fuori dal coro, per mole strutturale, filosofica, per imponenza stilistica e forza artistica. Contronatura è uscito a maggio, ma sono stato tenuto lontano dal salone del libro di Torino, mi sono state fatte saltare deliberatamente molte partecipazioni a trasmissioni televisive da me organizzate, non sono stato chiamato alla Milanesiana della stessa Bompiani, niente mi è stato chiesto per Panta, la rivista letteraria della Bompiani, contesti dove però erano incastonati, tra i Nobel, discorsini sul film della medesima Sgarbi “regista” con scritti di Scurati e di Sgarbi, e non è stato organizzato niente a Mantova, si è fatto finta che non esistessi, né è stato speso un euro di promozione, anzi sono stato esplicitamente, deliberatamente insabbiato, nascosto.

Contesti dentro cui sarei stato intollerabile perché la letteratura è intollerabile, perché avrei detto cose intollerabili. Ne sono rimasti sorpresi in molti, della mia esclusione, critici, giornalisti e lettori, perfino un giovane autore Bompiani, che mi ha chiamato per dirmi “ma hanno capito chi sei?”. Delizioso e ingenuo.

Non sono l’unico, ce ne sono mille altri, ma nessuno protesta perché ognuno si sottopone alle regole del salotto buono, e perché quelli che hanno un’opera da difendere sono molto meno di quelli che puntano a una carriera. È sempre stato così, quindi poco conta. Invece è sempre stato così, quindi conta molto lanciare un sasso contro l’ipocrisia, l’ignoranza e l’abuso. Io sono la mia opera, non posso scindermi, non posso distinguermi, e anche questo fa parte della mia opera, della mia responsabilità civile. Perché su queste logiche e modi di fare si reggono le terze pagine, i premi letterari, le conventicole, i dibattiti culturali.

In Italia l’intellettuale scomodo è quello che ha accettato al massimo di sedersi sul bracciolo del salotto buono, di accamparsi con la tenda nel giardino di corte. A Aldo Busi piacerebbe essere l’Innominabile del suo racconto contro il potere appena uscito sempre da Bompiani, ma il potere non sono Berlusconi o Veltroni, e lui, di cui reputo capolavori molti romanzi, è fin troppo nominato e introdotto per parlare da innominato, i nemici, Aldo, sono quelli che ti invitano a cena, il vicino di poltrona, non c’è bisogno di andare così lontano.

Il culmine, nel mio caso, è stato toccato quando Vittorio Sgarbi, fratello di Elisabetta, mi ha chiesto di firmargli un articolo, scritto da se stesso, dove avrei dovuto sponsorizzarlo per fargli dare un posto al Ministero, da Sandro Bondi. Ritenendomi un suo sottoposto perché sua sorella è il mio editore, adombrando un ricatto se avessi rifiutato. Gli ho detto di no, e sono stato insultato e minacciato, e avrei dovuto tacere, perché certe cose non si dicono, non si fanno.

Invece ho pubblicato i suoi sms di insulti, né più né meno che se fossi stato un imprenditore a cui si chiedesse una tangente, perché sottostare a simili proposte e ricatti per uno scrittore è l’analogo della corruzione in politica. Come risposta indiretta Bompiani ha chiuso i ponti con me, rendendosi prima irreperibile per due mesi, e poi comunicandomi burocraticamente, infidamente, lapidariamente, che il mio saggio su Proust, fino al giorno prima tra i libri da pubblicare, consegnato in casa editrice a dicembre dell’anno scorso, “non avrà spazio presso Bompiani”.

Bene. Ma nessuno della Bompiani disse niente quando un mese prima uscì un’anticipazione su Libero dove se ne annunciava l’uscita, e un’altra, due settimane dopo, sulla rivista Primo Amore di Antonio Moresco. Ancora non avevo rifiutato la marchetta al fratello dell’editore, pur sempre nell’angolo c’era spazio per Proust, subito dopo no.

Io sono l’innominabile di cui parla Busi, che invece è fin troppo nominato. Per esempio sfido chiunque a mettere a confronto, proprio sul piano dell’arte, della rilevanza artistica, un libro di Pulsatilla, un libro di Scurati, un libro di Lucrezia Lerro, su cui l’editore investe in presentazioni, premi e pubblicità, con Contronatura, che per una logica inversa diventa immediatamente un problema per il suo stesso editore, insieme al suo stesso autore.

Sfido chiunque di voi che mandate i vostri figli a scuola a studiare l’importanza della letteratura a negare l’evidenza, perché l’arte è evidente e è la buccia di banana storica su cui scivoleranno i tacchi a spillo della signora Sgarbi e i mocassini tirati a lucido di suo fratello ricattatore.

Sfido chiunque a dire “avresti dovuto soggiacere al ricatto”, e allora se vale per la letteratura vale per tutto il resto, nella pubblica amministrazione, in politica, nella vita. Dovrei essere umile? Dovrei tacere perché così va il mondo? Un cazzo. Confrontare la mia opera con Scurati o Pulsatilla è come confrontare la Recherche con Guido da Verona o Liala. Ma oggi la parola è molle, equivalente. Basti confrontare anche le lettere, non sempre idilliache, che si scambiavano Proust e Céline con Gallimard.

Mai una volta l’editore ha mancato di rispetto ai suoi scrittori non certo facili da gestire, perché ne capiva la grandezza. Qui invece se Berselli scrive “ci troviamo di fronte a un’opera d’arte fondamentale” l’editore si preoccupa di non oscurare gli altri, gli Scurati e gli oscurabili, i vendibili perché venduti. Le lettere ricevute da Elisabetta Sgarbi, a fronte del mio rifiuto di corruzione nei confronti del fratello, ma anche in fase di editing, quando mi sono opposto a qualsiasi intervento normalizzante sul libro, sono sprezzanti e agghiaccianti, e meriterebbero di essere pubblicate, le mie e le sue. Se fossi stato un impiegato qualsiasi avrei ricevuto più delicatezza nel mettermi alla porta, ma essendo ogni scrittore il sindacato di se stesso ho tenuto duro mentre le chiacchiere sul mio “carattere” attraversavano i corridoi di via Mecenate.

È una commistione penosa di scambi di favori e umiliazioni date per scontate, accettate comunemente. Nessuno si accorge, tanto per dirne una, che Antonio Scurati, autore mediocre di cavallo di punta della scuderia Bompiani, riceve ottantamila euro dall’assessore alla cultura di Milano Vittorio Sgarbi, e appena il Comune di Milano licenzia Sgarbi la Bompiani annuncia la pubblicazione di un pamphlet contro la Moratti.

Così anche per me, come per un imprenditore a cui si presenti un deputato per chiedere il suo obolo di tangente, venne il medesimo Sgarbi, il fratello dell’editore e non più assessore, ora ansioso di un posto al Ministero. L’episodio è risibile, nella sua portata, perché io non ho alcun potere politico, e di certo Sandro Bondi non avrebbe dato un posto a Sgarbi perché lo chiedevo io. Il mio rifiuto è stato netto e violento per evidenti ragioni, e dopo due mesi, certo, sono fuori da Bompiani.

Se al mio posto ci fosse stato Céline avrebbe sfondato il portone della Rcs in Via Mecenate con un caterpillar, cosa che minacciava di fare con Gallimard per molto meno. Ricordo che Elisabetta Sgarbi mi ha intimato, insieme al suo compagno Eugenio Lio, prima dell’uscita del libro, che se avessi “sgarrato” sarebbe stata “implacabile”, deve essere un vizio di famiglia. Cosa mi farà mai adesso? Non so, aspetto i bravi di Don Rodrigo sotto il portone di casa. Perché scrivo questo? Tanto Bompiani troverà mille scuse, le scuse del potere.

Lo dico lo stesso perché il mio compito è dire l’indicibile e scrivere quello che non si deve scrivere. Ho fatto della mia opera il mio corpo, e farò del mio corpo la mia opera contro l’ipocrisia e i patti scellerati dell’editoria. È una partita impari, me ne rendo conto, e non come sembra adesso: io ho davanti i millenni, lei, Elisabetta Sgarbi, e suo fratello Vittorio, e gli altri amministratori privati dei salotti pubblici, solo qualche decina d’anni, finché durano gli incarichi e le poltrone su cui siedono la loro arroganza e ignoranza.

2 commenti:

Danx ha detto...

Grazie per avermi fatto conoscere meglio questo sgarbato individuo!

Anonimo ha detto...

La ringrazio per intiresnuyu iformatsiyu