domenica, gennaio 04, 2009

Una corrispondenza da Israele

Non c’è niente da fare. Ci sono cose che non cambiano mai. Nemmeno le mie reazioni riescono ad essere più evolute di dieci, o cinque o due anni fa. Nemmeno di tre mesi fa. Arrivo all’aeroporto di Tel Aviv, con un volo Alitalia, come sempre in ritardo. Scendo, sono con un collega. Il sole filtra attraverso le grandi vetrate, c’è sempre un po’ di emozione a tornare in Israele. D’altra parte tutto è cominciato qui anche per me. Questo posto è stato lavoro, casa, amici, ho scritto i miei primi pezzi, ho raccontato le prime storie, ho visto persone morire, persone fuggire, persone scomparire. Ho conosciuto il dolore in questo posto. La rabbia. La rassegnazione. Mi sono imbattuta nella forza delle persone che affrontano la sofferenza, le loro vite fatte a pezzi. Quando vivevo a Gerusalemme, ho vissuto la sottile paura che ti accompagna quando sali su un autobus o ti fermi a fare uno spuntino in un bar. Ho imparato ad abituarmici come fa la gente che vive in situazioni estreme. Da una parte o dall’altra. Sono trascorsi anni e faccio a fatica a distinguere il dolore dei palestinesi da quello degli israeliani. Non riesco a essere di parte. Ricordo una ragazza di 19 anni che doveva sposarsi e invece è morta con il padre il giorno prima delle nozze, spazzata via da un kamikaze. Credo di non aver mai pianto tanto ad un funerale circondata dai parenti della ragazza che erano venuti per il matrimonio. “Tu sarai sempre la mia sposa”, disse il suo fidanzato mettendole l’anello sul panno di velluto che copriva il suo corpo devastato. Poche ore prima invece avevo visto morire un bambinetto palestinese colpito da un pezzo di cemento schizzato da una casa. Un carro armato israeliano stava sparando contro l’edificio per far uscire quattro militanti. Il bimbo che indossava una magliettina rossa è stato colpito in piena faccia. E’ rimasto un buco nero.

Insomma torno a oggi. Era solo per dire che questo è un posto che ho dentro. Con tutte le sue contraddizioni, con i suoi problemi, i suoi torti e le sue ragioni. Arrivo all’aeroporto, la ragazza del controllo passaporti guarda schifata il mio passaporto quasi nuovo. Ho solo tre timbri: Emirati Arabi Uniti, Afghanistan e Pakistan. Un attimo prima le ho chiesto con gentile fermezza di non mettermi il timbro israeliano. Altrimenti al mio ritorno dovrei rifare il passaporto, perché molti paesi arabi non ti lasciano entrare se hai un visto israeliano. Giusto o sbagliato che sia, questo è quanto. La ragazza, una ricciolina che vedrei meglio su un cubo in discoteca, che immersa nella sua divisa troppo stretta, chiama la sicurezza. Vorrei già cominciare a urlare. Arriva un poliziotto, mi accompagna in una stanzetta e si dimentica di me. Accanto ho un ragazzetto svizzero che ha la mamma israeliana e la sorella che l’aspetta fuori, più in là c’è una ragazza bionda, probabilmente russa e uno con una giacca rossa firmata Ferrari dai tratti somatici che sembrano arabi. “E tu che ci fai qui? Perché sei pericoloso?”, dico al ragazzo, che andrebbe punito solo per la bruttezza delle scarpe. “Ho il timbro del marocco, ci sono andato in vacanza un paio di mesi fa”. Annuisco. Cavoli, un israeliano che va in vacanza in marocco. Molto pericoloso. “E tu?” mi chiede lui. “Sono una giornalista, capita spesso, soprattutto perché ho tanti visti di paesi arabi”. “Eh già – dice lui – questa è la democrazia israeliana, ma bisogna anche capire”. Capisco sul momento, ma dopo due ore non capisco più. “Mi scusi?”, mi affaccio e chiamo una poliziotta. “Stia seduta e aspetti il suo turno non vede che sto parlando con qualcun altro?”. Comincio a pensare che invece di arrabbiarmi forse dovrei chiamare l’ambasciata. Poi penso, cavoli e il primo dell’anno, non possono tirarla tanto per le lunghe. Neanche quella poliziotta può essere maleducata e prepotente come quasi sempre accade. Ovviamente sono solo ottimista. Scalpito. Sbuffo. Fumo. (non una sigaretta, dalle orecchie). Una piccola tv manda le immagini di Gaza. Dovrei essere già essere in albergo e pensare al da farsi. Invece sto qui. Tiro fuori un libro, mi metto a leggere. Piano piano tutti se ne vanno, arrivano altri. “Venga”, mi dice una della sicurezza che mi porta in uno stanzino. “Dobbiamo farle qualche domanda”.

“ok”

“Vedo che è stata tante volte qua”

“Seguo questa zona”

“Ah si?”

“già”

“E conosce persone suppongo”

“qualcuna, sa faccio la giornalista”

“e per chi lavora? E da quando? E quanto resta, e dove andrà?, ha un tesserino? Non ne ho mai visto uno così”. Lo so, il tesserino dell’ordine dei giornalisti è un po’ ridicolo, ma è quello che passa il convento, per il resto, rispondo come posso, nel modo più vago possibile. “In quali paesi arabi è stata?”.

“Tutti”

“Tutti quali?”. Sciorino un elenco, non mi ricordo neanche cosa ho mangiato ieri, figuriamoci dove sono stata catapultata negli ultimi anni.

“Conosce qualcuno in quelle zone?”. “No parlo con le piante”.

“Intendo se ha amici”. “Non ho amici. Sono antipatica e asociale”. Mi chiede dove abito, il mio numero di telefono. “Sono qui solo per raccontare questa storia”. Quale storia? “Quello che sta succedendo a Gaza”. “Ah - dice lei – e ha intenzione di entrare?”. Quando apriranno entrerò con tutti i colleghi del resto del mondo. “Non lo sa che è zona militare e non si può entrare?”. Lo so, ma prima o poi apriranno. “Non credo”. Strabuzzo gli occhi. Ammetto di essere esausta. Ho fame. Le vetrate non filtrano più il sole, è buio. “Va bene può andare”. Mi alzo e aspetto la poliziotta maleducata che mi deve riportare il passaporto. “Va bene la lasciamo andare”, mi dice venendomi incontro. “naturalmente”, le rispondo io. “Naturalmente? Possiamo anche rispedirla indietro se vogliamo”. Fatelo. Rispeditemi. Invece mi volto e vado verso l’uscita. Prendo un taxi, chiamo i miei amici israeliani per salutarli, chiamo i miei amici palestinesi per salutarli. Non voglio parlare di politica, voglio solo sapere come stanno. Arrivo a Gerusalemme, il tassista non è molto pratico, fa un giro lungo, non gli dico niente, mi godo la vista, mi lascio avvolgere dalla bellezza della Città Vecchia. Le guglie delle mura nascondono un tesoro di viuzze. Mi piace anche la parte ovest quella israeliana, da qualche parte c’è la mia vecchia casa. Arrivo in albergo. Non ho ancora cominciato a lavorare e già sto dando di matto. Meno male che Gerusalemme mi calma. Amo questa città. I visi conosciuti di quelli dell’albergo mi accolgono come una vecchia amica. “Appena abbiamo visto il casino, sapevamo che saresti arrivata, ma ci verrai mai qui una volta che non succede niente?”. Chissà se non succederà mai niente in questo posto. Chissà se si potrà morire di noia, di vecchiaia e di gentilezza? Da una parte e dall’altra.
http://schiavulli.blogautore.espresso.repubblica.it/2009/01/01/benvenuta-in-israele/

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