domenica, dicembre 05, 2010

Bambole non c'è una lira


Fonte:espressonline

Questa riforma è da riformare

di Letizia Gabaglio e Daniela Minerva
I privati e la politica nei Cda. I professori in pensione. La meritocrazia che non decolla. I soldi che mancano. Ma si può cambiare così(03 dicembre 2010)La sintesi fulminante la fa Giorgio Parisi, forse il più blasonato degli scienziati italiani, il "quasi Nobel" come lo chiamano i colleghi, in forze alla Sapienza di Roma: "Alcune norme hanno impatto fortemente negativo sulle Università e le poche norme che avrebbero un possibile impatto positivo sono sterilizzate dalla mancanza dei fondi che servirebbero per applicarle". Vediamole.
Chi comanda in ateneo. Se, come dice il ministro, la riforma varata dalla Camera cancella l'università dei baroni, come mai piace tanto alla Conferenza dei rettori, ovvero dei baroni più baroni di tutti? Di fatto perché, mentre getta fumo negli occhi limitando a due i possibili mandati di un rettore e quindi suggerisce di volerne limitare l'influenza, mette nelle mani del Magnifico la regia della governance dell'ateneo, di cui faranno parte anche "forze esterne", espressione della politica e delle imprese che andranno a formare il 40 per cento dei consigli di amministrazione. Chi sono? Chi li sceglie? Il ddl non lo specifica. Ma incarica il rettore di proporre un direttore generale. "Sarà sempre il rettore a scegliere le personalità esterne all'ateneo? Se così fosse: non si darebbe troppo potere a una sola persona?", si chiede Maria Chiara Carrozza, direttore della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa.Questo ingresso dei privati nei Cda di fatto sancisce la necessità di avere relazioni con le imprese e il territorio che molti considerano requisito essenziale. Anche secondo il rettore del Politecnico di Milano, Giulio Ballio, sarebbe un'innovazione positiva se, così vagamente formulata, non finisse con "l'esporre gli atenei meno grandi e organizzati all'assalto dei poteri territoriali. Il rischio è che le università si facciano dettare dalla politica i nomi delle persone da inserire". E la faccenda non è banale visto che il Cda dovrà anche occuparsi di attivare o sopprimere "corsi e sedi". Con che criterio? Se a oggi non è piaciuto il criterio di attivare corsi e istituire sedi anche per piazzare allievi e parenti, potrà piacere ancor meno quello tutto territoriale che imponga lo studio di dialetti o storie locali risibili. O che dirotti le menti più brillanti dell'ateneo a risolvere quesiti di bottega degli imprenditori. Insomma, senza un forte incentivo all'eccellenza con conseguente finanziamento alla ricerca, che dovrebbe essere la cifra e l'obiettivo di un ateneo, l'ingresso del "territorio" nella governance potrebbe tradursi in un'ulteriore provincializzazione delle università. E nella lottizzazione politica del suo governo. 
Primo: centralizzare. Gli atenei italiani hanno fatto lievitare corsi, cattedre e sedi del tutto inopinatamente. Fino a contare 5.500 corsi di laurea e 170 mila insegnamenti. E Gelmini giustamente impone di razionalizzare, cancellando sedi distaccate create per pochi studenti e molti interessi del rettore, accorpando dipartimenti e razionalizzando le attività didattiche utili solo al proliferare delle cattedre. Lo scopo è quello di rendere la macchina efficiente ed evitare gli sprechi. E a governo dell'intero riassetto ci sarà l'occhio del ministro che ritiene inemendabile la norma per la quale gli atenei coi conti in disordine saranno commissariati.
Ma è poi vero che le università siano macchine mangiasoldi? A guardare i risultati di una ricerca della Bicocca di Milano condotta da Ugo Arrigo, sembrerebbe invece che la riforma Berlinguer abbia reso il sistema più efficiente, facendo diminuire il costo di ogni laureato per la finanza pubblica.
Professori a perdere. Il ministro dice che vuole svecchiare il personale docente che è il più anziano dell'Ocse (solo il 15 per cento circa dei professori italiani ha meno di 40 anni). Così li manda in pensione due anni prima e entro dieci anni sarà a riposo il 60 per cento dei docenti. Che potrebbero lasciare spazio a forze fresche, se non fosse che, secondo i conti dell'astrofisico Francesco Sylos Labini, della Cattolica di Brescia (che tiene una discussione su www.scienzainrete.it
col blocco del turn-over confermato al 20 per cento il personale docente delle università italiane sarà quasi dimezzato. "I dati parlano chiaro", commenta Ugo Arrigo: "Questo governo non vuole rendere l'università più efficiente. Vuole ridimensionarla. E toglierle la funzione di ascensore sociale che fino a oggi ha avuto permettendo a molti giovani di estrazione medio-bassa di crescere socialmente".
Baroni per merito. Resta, però, il problema della qualità del personale docente. E a molti sembra che lasci a desiderare, per colpa dei concorsi locali e dei criteri non meritocratici che spesso hanno governato il reclutamento. Per questo, Gelmini ne cambia radicalmente la procedura. E parte dall'istituzione di un nuovo ruolo, del tutto simile all'anglosassone tenure track, ovvero quello di un ricercatore a tempo determinato per 4 o 5 anni, trascorsi i quali deve superare un concorso nazionale per avere accesso a una lista degli idonei. "La procedura va benissimo: ci deve essere una lista dei migliori e in quella ogni ateneo può pescare quello che è il profilo più adatto per le proprie esigenze. Ma è troppo lungo il periodo di precariato", commenta Giulio Ballio. Ma non è solo una questione di tempi. Nel mondo anglosassone, il sistema funziona perché chi intraprende una tenure track sa che in fondo c'è un posto disponibile: dal momento che prende un giovane, l'università ha già la copertura finanziaria per regolarizzarlo se sarà bravo. In Italia, invece, di copertura non se ne parla, come annota Sylos Labini: "Le università non sanno nemmeno quale sia lo stanziamento di bilancio per l'anno in corso".
Ricercatori rottamati. Con le procedure di arruolamento riformate, che fine fanno i circa 24 mila ricercatori in forze a oggi? Sono anziani (età media 45 anni) e spesso in media poco produttivi scientificamente, ma ci sono e svolgono circa il 50 per cento dell'attività didattica. Gelmini sembra assicurare la copertura perché 9000 di loro passino più o meno ope legis al ruolo di professore associato. E gli altri? Il ministro insiste sul fatto che uno dei punti non emendabili della sua legge è che i professori si dedichino alla didattica. Perché i ricercatori che oggi insegnano nessuno sa che fine faranno.
Onore al merito. Su un punto sono tutti d'accordo: l'università italiana ha bisogno di una svolta meritocratica. E il ministro dice che la sua è una riforma meritocratica. Ma non è chiaro come questa meritocrazia prenderà corpo. Sulla carta, legati al merito saranno sia il 7 per cento del finanziamento pubblico agli atenei, sia gli scatti di retribuzione del personale docente (previsti ogni tre anni dopo una valutazione del lavoro svolto). E questo, annota Maria Chiara Carrozza,"è un bene.

Peccato che nessuno sappia quali sono i criteri e gli indicatori che valgono al fine della valutazione. Il disegno di legge rimanda a una costituenda agenzia di valutazione. Ma dell'Anvur si parla da anni". Una legge che ha l'ambizione di trasformare in senso meritocratico gli atenei avrebbe dovuto per prima cosa definire chi, come e con che criteri fa la valutazione.
Senza soldi non c'è riforma. Gelmini prevede incentivi ai meritevoli, contratti, borse di studio. Ma senza soldi. I tedeschi investiranno nella riforma del loro sistema universitario 2,7 miliardi di euro entro il 2015, e la Francia ha destinato circa 20 miliardi al miglioramento dell'istruzione superiore e alla ricerca. Gelmini, invece, dopo aver tagliato il 10 per cento del fondo per il finanziamento ordinario (circa 700 milioni) procederà a limarne altri 26 proprio dal fondo Borse di studio che passerà dai 96 ai 70 milioni nel 2011.


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