giovedì, gennaio 24, 2008

Schifo



Marco Travaglio per “l’Unità”
L’altra sera, a Ballarò, è andato in onda un istruttivo scambio di vedute tra il direttore del Corriere Paolo Mieli e il giudice Piercamillo Davigo (che, per inciso, i magistrati dovrebbero nominare rappresentante unico della categoria a vita, visto che quando parla si fa capire e restituisce un po’ di credibilità a una casta togata in piena decadenza). Mieli, facendo un torto alla sua intelligenza, sosteneva che i magistrati, con le inchieste su politici e uomini delle istituzioni, disturbano la politica e mettono a rischio la stabilità delle istituzioni.

Davigo, con la consueta aria stupefatta di chi è costretto a ripristinare la logica in manicomio organizzato, obiettava che, se i politici e uomini delle istituzioni tengono comportamenti che potrebbero essere reati, i pm sono obbligati a indagare. Ma le ricadute politico-istituzionali delle inchieste non dipendono dalle inchieste: dipendono dai partiti e dalle istituzioni. I quali si guardano bene dal rimuovere i personaggi chiacchierati, di dubbia moralità, anzi non cacciano neppure gli inquisiti e i condannati: insomma, dice Davigo, «li lasciano al loro posto finché non andiamo a prenderli noi».
Nel qual caso, è ovvio, le ricadute politiche delle indagini sono devastanti: se, viceversa, quando arrivano i giudici o i carabinieri, il politico inquisito fosse già stato prepensionato, la giustizia processerebbe un “ex” e le conseguenze sul sistema sarebbero pari a zero.

L’altro ieri Barack Obama e Hillary Clinton si sono accapigliati in tv lanciandosi accuse pesantissime (per gli standard etici degli Usa). Hillary: «Zitto tu che hai difeso un indagato». Obama: «Zitta tu che eri avvocato di una multinazionale». In Italia, a nessuno verrebbe in mente di rinfacciare a un avversario politico di aver difeso una multinazionale, né tantomeno di aver protetto un indagato, anche perché di solito l’avversario politico è lui stesso indagato (nei casi meno gravi) o condannato (nei casi normali). E, dopo la condanna, c’è pure il caso che festeggi perché poteva andargli peggio. Quando Previti fu condannato “solo” a 5 anni per le mazzette a Squillante, ma non per la Sme, si abbandonò a sfrenati baccanali insieme a tutta la Casa circondariale delle Libertà.

Ora Cuffaro brinda e s’ingozza di cannoli perché l’han condannato “solo” a 5 anni per favoreggiamento dei mafiosi, ma non della mafia tutta intera. E Mastella cita, a testimone del fatto che è un perseguitato politico, l’autorevole Andreotti, giudicato colpevole di associazione a delinquere con la mafia fino al 1980, ma salvo per prescrizione: «Andreotti dice che il mio caso è più grave del suo» (evidentemente Andreotti, per giudicare un’ indagine per concussione e abuso a carico di Mastella più grave del suo processo per associazione mafiosa, sa di Mastella qualcosa che noi ancora non sappiamo). E del resto, quando Mastella si difende col «così fan tutti» di craxian-berlusconiana memoria, confessa che sono i politici a mettersi in balìa della magistratura: perché, se così fan tutti, per i magistrati è facilissimo scoprirne qualcuno. Come pescare nella vasca delle trote.
Sempre a Ballarò, Mieli ha pensato di mettere in difficoltà Davigo citando il famoso invito a comparire per corruzione della Guardia di finanza spiccato contro Berlusconi il 21 novembre ’94, durante un vertice contro la criminalità. Floris, tanto per cambiare, non ha dato a Davigo il diritto di replica. Ma l’episodio non smentisce, anzi rafforza la tesi di Davigo. Berlusconi era ed è titolare della Fininvest, che era solita corrompere la Guardia di finanza durante le verifiche fiscali (al processo il Cainano è stato assolto per «insufficienza probatoria», ma i suoi manager corruttori e i finanzieri corrotti sono stati condannati).

Uno così, se non vuole rischiare un’inchiesta per corruzione della Finanza e di mettere a repentaglio il governo che presiede, deve evitare che i suoi manager corrompano la Finanza, o evitare di presiedere il governo: altrimenti, prima o poi, c’è il rischio che lo scoprano e che il governo ne sia travolto.

Ma non per colpa dell’indagine, bensì di chi corrompe la Finanza. Si dirà: ma lui è entrato in politica precisamente per impedire che emergessero i misfatti suoi e delle sue aziende. Esattamente come Mastella sperava di farsi amici i magistrati (e in parte ci era pure riuscito) perché chiudessero un occhio, anzi due, sui problemi suoi e della sua famiglia. Verissimo: ma che c’entrano allora i magistrati? Lo sanno anche i bambini che leggono Fedro: «superior stabat lupus», non agnus. E nemmeno Clemens o Silvius.

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