lunedì, gennaio 25, 2010

Dalla & De Gregori, che tristezza



Malcom Pagani per "Il Fatto"



"Voglio ringraziare sentitamente il sindaco di Novellara per l'ospitalità e per l'aceto balsamico che ci ha donato". Si suona invece a Nonantola, bassa modenese, tra torrioni silenziosi, bar di provincia in cui il rosso scorre dalle prime ore del pomeriggio e il lapsus di Lucio Dalla, qui riunito con De Gregori per un revival di "Banana Republic" è la nitida fotografia di una notte imperfetta. Un migliaio di persone assiepate in un club vintage. Poltrone rosse e nere, prosciutti, disimpegno. Nostalgici con figli al seguito, carabinieri spaesati in timida perlustrazione, colleghi più o meno entusiasti.

Antonacci, un irriconoscibile Luca Carboni, Ligabue che nei camerini abbraccia De Gregori: "Sei un modello, mi piacerebbe che venissi a vedere un mio concerto". Baci, saluti, promesse. Troppe per stendere la linea di difesa di un'operazione incerta. La gente, scissa tra il miracolo della riapparizione improvvisa e l' artistica brevità del tutto, riflette. C'è chi apprezza le "sporcature" della session, i suoni esitanti, il valore documentale di un incontro speciale e chi non riesce a capacitarsi della beffa. "Ho fatto 800 chilometri per ritrovare un pezzo di ciò che ero e non sono neanche riuscito ad ambientarmi".

In un angolo c'è Bobo Craxi. I figli non pagano mai le colpe dei padri e il Benedetto che "aveva gli occhi dello schiavo e lo sguardo del padrone", lo stesso che atteggiandosi a Mitterrand agiva peggio di Nerone, è un capitolo già ampiamente affrontato tra rivalutazioni postume e terrazze trasteverine in cui De Gregori e Craxi si incontravano, incrociando "voce di tuono" e chitarre.

Oggi Bobo, amico di entrambi, accende sigarette in zona proibita e come un ragazzino qualunque, fa ondeggiare il telefonino sulle teste per catturare le immagini di oggi e qualcosa delle storie di ieri che i due gli hanno regalato. Più Dalla e De Gregori allontanano il precedente, più quello riemerge. E' un'onda, fortissima. E' meglio rimanere attaccati ai ricordi, in questa sera frettolosa, strana e profonda, in cui sul palco le canzoni scorrono rapide, una dopo l'altra. Nessuna concessione al pubblico, battute avare, una corsa senza fermate o stazioni verso la fine.


Un'ora di concerto, un bis appena, 35 euro di ingresso e la giustificazione di Dalla (con De Gregori che lo spinge fisicamente lontano dal palco): "Ci dispiace, non abbiamo pezzi". E il non averne, ovviamente, significa non averli provati, perché come dice De Gregori: "Abbiamo una certà età e l'idea di chiuderci in clausura per due settimane non ci entusiasmava".


Quattro soli giorni dunque e si sentono. L' attesa messianica richiedeva uno sforzo di generosità. E la delusione (contenuta e sovrastata dagli applausi) di una platea che avrebbe fatto qualunque cosa per prolungare l'evento, indulgente nei confronti delle parole dimenticate e dell'atmosfera rarefatta, è una macchia che si poteva lavare facilmente. Ma c'è la conferenza stampa fissata per le 22.15, i giornali che devono chiudere, i camion da riempire, la linea della vita. I due lo ripetono fino alla noia.



"Work in progress" è la formula dietro cui celarsi per giustificare la fame che aggredisce gli ospiti appena alzati da tavola, l'incompiutezza che si fa dispiacere, le rare facce perplesse di chi è salito fin qui. Sul divano, lontani dai suoni, tra la smania di fuggire e la promessa di ripetere (suonando più a lungo) l'esperienza, Lucio e Francesco ripercorrono la loro amicizia, non misconoscono i contrasti.


"La diversità è preziosa", postulano la necessità di non perdersi di vista. L'innesto non è ancora una tournée, sette date secche tra Milano e Roma a maggio, ma la sensazione è che ‘Banana Republic' non tornerà più. Non è questione di talento. Il duo ha scritto (e in qualche caso continua a produrre) insieme con un'oligarchia composta da Conte, De Andrè, Battiato e Guccini, le più belle canzoni italiane del dopoguerra.

C'è altro, dietro la sensazione dolce-amara che, una volta usciti nel gelo di un'Emilia distratta, fa cercare il disco dell'epoca, per riascoltare quello che in questa staffetta a rispettare le scadenze prestabilite, si fatica a percepire. In un angolo, il volto affilato dell'organizzatore Michele Mondella, storico globetrotter del meglio della nostra canzone d'autore, si guarda intorno. "All' epoca fu un successo inatteso. Crebbe senza avviso."Repubblica" scrisse che interpretavo più ruoli, senza omettere che l'onore di portare a pisciare il cane di De Gregori, Ghera, toccava a me.

Non era vero. Facevo molto altro, ma il guinzaglio del cane di Francesco, non lo agitavo io". Ride e si capisce, mentre strizza gli occhi, che per i presenti, facce e voci che si frequentano da anni, il pregio dell'evento risieda proprio nell'esserci ancora. Nell' inseguire un pezzo di esistenza cancellato dal riflusso. Il paragone impossibile. Il senso dell'irrecuperabile che va trasformato, salvandolo dalla trappola nostalgica. La ricerca di affinità elettive o di similitudini con l'originale, un lusso per chi ha tempo da perdere. In fondo, lo sapevano anche allora, quando avevano giurato, d'accordo con Venturi e Ballandi, i rispettivi manager, che sarebbe finita lì, senza riesumazioni o accanimenti terapeutici.

"E' una cosa irripetibile. Costa troppa fatica psicologica, finanziaria, musicale". Hanno cambiato idea, ne hanno diritto. Desiderio di dividere lo spazio scenico. Uno istrione, l'altro riottoso a interviste e giornali: "L' ultimo rifugio dei vigliacchi, la comunicazione". Allora, nel 1978, il tour partì quasi per caso. De Gregori sulla terrazza del Gianicolo, aveva inventato i primi versi di "Come fanno i marinai".

Il suo amico Lo Cascio, fermò il momento sulla pagina. "Creò senza preparazione. Cantavamo e battevamo i talloni in aria, alla maniera di Popeye". Poi Francesco affinò il testo con Dalla e mise tutto in un 45 giri in vendita a febbraio (doppio lato, "Ma come fanno i marinai" e "Cosa sarà"). Infine, dopo una tappa romana allo stadio Flaminio, messa in piedi dalla Fgci, con Veltroni in prima fila, 40.000 persone sugli spalti e i due sul palco, l'intuizione si fece tour. De Gregori tradusse un pezzo, magnifico, di Steve Goodman, Banana Republic. Partirono.

Il biglietto d'ingresso a 1.500 lire. L'inflazione al 22%, le elezioni appena archiviate, l'Italia che va in vacanza ma prima di stipare il bagagliaio, decide di affollare gli stadi. A Nonantola (minimalità pretesa), niente dell'organizzazione dell'epoca, delle 400.000 copie vendute che confinarono nelle retrovie i Supertramp di "Breakfast in America". Nulla del palco appositamente offerto dalla Rca o dell'impianto da 36.000 watt che cullò la benevola invidia di Venditti (presente all'esordio savonese).

"Belle le casse, penso possano andare bene anche per me, magari ci scriviamo il mio nome sopra", degli accendini che commuovevano Lucio: "Una sera mi voltai per mettere a posto la chitarra e osservai migliaia di luci". Qui, a Nonantola, dove il tempo si è fermato e i due cantano vicendevolmente le creazioni dell' altro, scorre un fluido differente. Sorrisi, calembour di Dalla, fumo negli occhi necessario a coprire lacrime e impreparazione. Del giro d'Italia a tappe di allora rimangono sul palco pezzi di vetro.

"Viva l'Italia", interpretata da Dalla al piano, "Com'è profondo il mare" (notevole approccio di De Gregori), i marinai che invecchiati hanno imparato a leggere le rotte e "Santa Lucia", la canzone che Dalla invidia a De Gregori. Quel che Francesco non concede, lo offre a fine concerto, con un inedito "scritto in pochi giorni", di oggettiva poesia. Lo firmano entrambi ma le influenze di Francesco (qui ai livelli di capolavori come ‘Bene' o ‘Festival') sono evidenti.


Si intitola "Non basta saper cantare", parla con dolorosa cognizione del presente ed è la perla che interroga sul perché il resto della collana, viri a nero. Stavolta, a guardare nei ricordi non sembra ancora ieri. Mancano indizi persino sulla competizione di coppia, che De Gregori non cancella e che fu alla base delle tante leggende raccontate solo in seguito. Fin dalle prove che precedettero il peregrinare confuso tra una città (per cantare) e l'altra. Il tour fu pieno di tensioni, gelosie tenute a freno, equivoci.

Un giorno L'espresso mandò Bocca e Zanetti, editorialista e direttore, a cercare di capire ragioni e conseguenze di quel filo prodigioso. Che spingeva per strda, dopo un decennio di lutti. Cercarono per primo Dalla e De Gregori si incupì. Così a cena con le penne d'oro finì Lucio e De Gregori, allora 29enne, restò a guardare le stelle dalla finestra di un anonimo albergo. Poi i litigi tra George Sims e Dalla, l'abbandono prematuro della tournée del chitarrista, la fisicità di Dalla che occupa l'immaginario e il pudore di Francesco, nascosto sotto il Panama.

Non hanno smesso di essere diversi, ma si sono voluti bene. Oggi, se possibile, rafforzati dalla distanza, si riconoscono senza barriere. Come ai tempi in cui a cena per vedere il risultato filmico dell'avventura (un documentario omonimo al disco) a un' attonita moglie di De Gregori, Dalla disse d'un fiato: "Guarda quanto è bravo, ti rendi conto di chi abbiamo sposato?".

Adesso che i caratteri hanno incontrato la quiete dell'età e le diffidenze perdono il confronto con l' adrenalina della ripetizione, chiedersi mentre si sale in macchina e Lucio indossa una giacca leopardata che rimanda a se stesso, al cucciolo Alfredo e ai ‘70, se ne sia valsa la pena, è inutile. Chi c'era non ha avuto ragione, chi è rimasto fuori, non riesce a sommare i torti. Equilibrio. E' quasi giorno, quasi casa, quasi amore.

Nessun commento: