venerdì, agosto 07, 2009

Luttwak sul sud Italia




“Un grande sud? Solo se indipendente”. Parola di Edward Luttwak
C’era una volta il Sud, c’era una volta un re.
E già, perché è impossibile parlare dei meridionali senza dire dei loro re, ed anche delle loro regine.
Per grazia di Dio e volontà della nazione, i re del Sud non svegliavano con un bacio le belle addormentate, spesso non eran biondi né belli e sui cavalli bianchi ci stavano a malapena.
Avevano soprannomi non certo sacrali, anzi talvolta alquanto impertinenti. Non furono mai simboli ma persone, con tutti i pregi e le debolezze dei loro sudditi e perciò da essi furono molto amati, come gente di famiglia.
Calunniati fino ad oggi con pervicace furore, come nessun’altra dinastia, si sono conservati, dopo più d’un secolo dalla morte dell’ultimo re, un’istintiva nostalgia. I sudditi del più grande e più antico regno d’Italia, dei sedicenti liberatori che abitavano di là dell’Appennino toscoemiliano, non conobbero che gli editti autoritari dei generali con l’erre francese.
Le condanne a morte dei resistenti. I mandati di cattura dei renitenti alla leva piemontese e l’ordine di distruzione d’interi paesi, sospetti di simpatie per il legittimo Stato.
Del più bel regno d’Europa fu maledetta la memoria. Della più bella e vivace capitale del mondo, non rimase che il peggior folclore e lo sberleffo.
Dalla più bella reggia del mondo furono portate via anche le pentole della cucina.
Al cognato Granduca che gli magnificava i progressi del suo stato, Re Ferdinando, un secolo prima, faceva notare che: “pure, se di toscani se ne trovava in tutt’Italia, di napolitani non se n’era mai visti cercar la felicità fuori dal Regno”. Nel 1861, dai porti di Napoli e di Palermo, partirono 6000 emigranti, 6800 emigranti nel 1862, 7000 emigranti nel 1863, 9000 emigranti nel 1864, 11.000 emigranti nel 1865, 18.000 emigranti nel 1866, 21.000 emigranti nel 1867, 26.000 emigranti nel 1868, 32.000 emigranti nel 1869, 40.000 emigranti nel 1870. Prima di essere invaso, il Sud aveva 12 milioni di abitanti.
Fino ad oggi gli emigrati meridionali nel mondo sono 20 milioni senza contare quelli sparsi nel resto d’Italia. «Partene ’e bastimente pe’ terre assai luntane, cantene a bordo, sò napulitane»: oggi i meridionali non cantano nemmeno più. È rimasta solo la malinconia di non conoscere neanche il perché, un tempo, lo facessero tanto volentieri e il sospetto che, per un misterioso complotto, qualcuno gli abbia taciuto un profondo sopruso.
Eppure, dopo molte generazioni di emigranti, ovunque nel mondo, anche parlando lingue nuove, i meridionali si riconoscono sempre fra di loro.
Basta un’inflessione dialettale, un nome, un santo familiare perché si dichiarino «Paisà!»: sono ancora, a dispetto della falsa storia, che questa verità ha cambiato: una nazione. Si, perché il Sud, dal tronto alla Sicilia, è stata nazione per 700 anni e, nel regno dei Borbone, aveva raggiunto anche livelli d’eccellenza.
La conquista piemontese mise la parola fine all’indipendenza delle Due Sicilie, ma soprattutto al benessere dei meridionali. Benessere che non avremmo più recuperato.
Il Nord, per potersi industrializzare, trafugò tutti i macchinari utili del Sud, il resto fu distrutto con determinazione per creare una situazione di monopolio settentrionale. A sole ditte lombardo-piemontesi furono assegnati, guarda caso, tutti i lavori pubblici nelle “province” duosiciliane. Avvenuta la conquista di tutta la penisola, i piemontesi misero immediatamente le mani su tutte le riserve di denaro esistenti nelle banche degli Stati appena conquistati. La Banca Nazionale degli Stati Sardi, azienda di credito privata, divenne, dopo qualche tempo, la Banca d’Italia.
La solida moneta duosiciliana d’argento e d’oro fu rapinata e sostituita da quella cartacea piemontese. L’economia meridionale ebbe così un tracollo verticale e la disoccupazione si aggiunse al dramma della guerriglia. Il carico fiscale, inoltre, fu aumentato dell’87%, ma il denaro così drenato fu tutto speso al Nord, soprattutto quello tratto dallo sfruttamento dell’agricoltura meridionale che finanziò le nascenti imprese del Piemonte e della Lombardia.
Il tracollo dell’economia dell’Italia meridionale avvenne perché il Piemonte, per sdebitarsi con Inghilterra e Francia, non dovendo proteggere una sua produzione che ancora non aveva, impose una politica di libero scambio che mise in ginocchio le industrie del Sud. Dopo l’annessione, le terre demaniali ed ecclesiastiche furono concesse a quella borghesia che, mirando a questo, aveva collaborato con i piemontesi.
Nacquero così i latifondi, dai quali furono allontanati i contadini che, grazie agli “usi civici borbonici” quei terreni detenevano. I circa 600 milioni di lire incamerati con la vendita delle terre demaniali, quasi tutta la riserva liquida degli abitanti duosiciliani, fu trasferita nelle casse del neonato Stato “italiano” per finanziare l’agricoltura e l’industria del Nord.
Dopo la distruzione delle sue industrie, l’ex Regno Due Sicilie divenne un mercato per i prodotti del Nord, ed i suoi abitanti, utilissimi consumatori. E questo continua ancora: quanti di noi nell’acquistare un prodotto, si preoccupano di verificarne l’origine, preferendo i prodotti meridionali?
Così, dunque, è nata la cosiddetta “questione meridionale” che ci trasciniamo dietro da oltre un secolo e che dimostra, proprio per la sua secolare durata, come gli interessi dei conquistatori siano sempre rimasti inalterati. Una recente inchiesta dell’Accademia dei Lincei, infatti, ha dimostrato, tra l’altro, che, ancora adesso, contrariamente a quanto falsamente viene diffuso, il prelievo fiscale al Sud è maggiore di quello delle aree centro-settentrionali: la pressione tributaria è pari al 42% nel Sud e al 39,6% nel Centro- Nord.
Inoltre il Nord, che apparentemente sembra pagare più tasse, trasferisce il carico dei tributi sul resto del paese, scaricando le imposte sui prezzi dei beni e servizi che vengono venduti ai consumatori meridionali.
Tipico il caso della Fiat: per un’auto venduta a Palermo apparentemente l’IVA viene pagata a Torino, in realtà la paga l’acquirente siciliano.
Lo stesso avviene per gli oneri sociali: pagati al Nord, ma poi incorporati nei prezzi di vendita dei prodotti che il Sud, non avendo proprie produzioni, è costretto a comprare.
Allora quale via di uscita? Quale futuro per il nostro Sud?
Secondo alcune teorie, la panacea a tutti i nostri mali sarebbe il ritorno all’antica indipendenza o almeno il pervenire ad una forte autonomia.

Parlare di questo può sembrare, ai più, un azzardo, un’utopia. Benché al nord-Italia non si aspetti altro. La Lega Nord di Bossi è diventata un grande partito unificando varie leghette (veneta-ligure etc) attorno all’idea della Padania—nazione -in contrapposizione al sud- e, soprattutto, a Roma ladrona.

Il successo elettorale ricevuto è davanti ai nostri occhi. Una grande forza parlamentare che ha spostato ancor di più -come già non bastasse- il baricentro economico verso il Nord del paese, la terra della quale sono espressione, il punto di partenza e di arrivo del loro programma politico.

Un partito autonomista è un partito territoriale. Del proprio territorio, e solo di quello, cura gli interessi. Chissà perché, però, parlare di partito autonomista nel meridione d’Italia genera meraviglia, ilarità, se non commiserazione. Discernere di un sud autonomo è un’argomentazione da pazzi che suscita a volte anche scandalo. Come è possibile mettere in dubbio l’unità nazionale?
Fin quando lo fanno i leghisti va anche bene, ma noi no. A noi sta bene subire e magari continuare, in eterno, ad emigrare. Fermiamo qua il discorso. Vediamo quel che avverrà nei prossimi anni. Ad opera della Lega di cui sopra.

Nel frattempo riprendiamo i passi salienti di un’intervista rilasciata da Edward Luttwak. Edward Luttwak è membro del CSIS Center for Strategic and International Studies di Washington, politologo esperto di problemi italiani.
In questa intervista vengono trattati alcuni aspetti che riguardano il Sud Italia.
La posizione di Luttwak è particolarmente interessante, ed in alcuni versi addirittura controcorrente.

Domanda: In caso di decentramento, o al peggio di separazione, che ne sarebbe del Sud? Verrebbe sempre più abbandonato o, potendo produrre a più bassi costi, rifiorirebbe?

Luttwak: È evidente che il sistema Italia, negli ultimi 50 anni, ha favorito il Nord molto più del Sud. Regalando un mercato protetto, quello appunto meridionale, dove si possono vendere macchinette scassate a alto prezzo.
È vero che lo Stato ha anche assicurato massicci trasferimenti di soldi dal Nord al Sud, ma quando l’oro estratto al Nord viene filtrato attraverso una rete politica di clientele ciò che arriva a destinazione è soltanto acido corrosivo, peggio, fango: perché anziché favorire lo sviluppo provoca un ulteriore deperimento.
Un meccanismo malefico che ha scoraggiato gli imprenditori meridionali dall’assumere rischi, e li ha trasformati in clientes, collettori di quei fondi settentrionali che in cambio di consenso politico Roma smistava al Sud.
Quindi è logico pensare che se il Sud venisse lasciato a sé stesso, e per sopravvivere fosse quindi obbligato a sfruttare le proprie risorse, le cose per i meridionali andrebbero molto meglio. Sono convinto che un Sud indipendente, abbandonato dalla Padania, riuscirebbe a camminare bene con le sue gambe. Progredirebbe anzi molto più del Nord.


D.: E i mercati internazionali assisterebbero imperturbabili allo scollamento?

L.: Conoscendo la psicologia degli operatori internazionali, si sprecherebbero le interpretazioni ironiche. Si parlerebbe di spirito da operetta. Ma, al fondo, l’enfasi dei discorsi cadrebbe sulle continuità.
Sulla certezza che la proprietà sarebbe salvaguardata. Dopotutto l’Italia è forse l’unico paese in Europa che non ha mai conosciuto rivoluzioni, dove ancora molta gente nasce, vive e muore nella stessa città, se non addirittura nella stessa casa degli antenati.
Certo, come avviene in tutti i cambiamenti, ci sarebbe uno scotto da pagare. Ma non sarebbe troppo alto. Se si pensa che negli ultimi anni l’Italia non abbia avuto governi democratici ma tecnocratici.


D.: Il Nord è otto volte più ricco del Sud. Al di là dei dibattiti sul federalismo e delle sue virtù terapeutiche a lungo raggio, cosa si può fare al momento per ridurre queste abissali distanze?

L.: Il concetto di Sud è diventato un’astrazione che non tiene assolutamente conto della realtà. Ci sono zone in Puglia, per esempio, che come capacità produttiva e livello di reddito competono con le aree del Nord. E allora?


D.: Ma perché allora i fallimenti vengono imputati anche alla presunta pigrizia delle popolazioni meridionali?

L.: Il motivo è politico. Tutte le problematiche italiane più affascinanti sono concentrate al Sud. È lì che crollano gli alibi della Prima Repubblica. È proprio li, dove lo Stato ha cercato di essere più attivo, che anziché il progresso si è prodotto il massimo dello scempio.


D.: C’è una corrente della cultura italiana, il meridionalismo, che ha prodotto fior di dibattiti accademici. È mai possibile che tutti questi intellettuali non abbiano mai partorito un’idea valida?

L.: L’ingegno meridionale ha avuto felici applicazioni fuori dal Sud. Ma lo Stato non ha mai permesso che trovasse sbocchi in casa propria. Lo Stato non aveva alcun interesse a valorizzarle, perché il progresso avrebbe distrutto la rete del clientelismo e gli avrebbe quindi impedito di controllare il territorio.


D.: Sull’arretramento ha però influito anche la prepotente espansione della malavita.

L.: Prima c’è il sistema di corruzione politica e poi c’è la malavita. Se il corpo è sano, i parassiti possono esercitare addirittura una funzione positiva.
Al sud-Italia la delinquenza organizzata è solo il frutto dell’abbandono dello Stato in 150 anni di falsa unità del paese. C’era una volta un paese felice e sembra una favola.
Gli uomini meridionali, dicevano i viaggiatori, son fieri, generosi, cordiali, contenti della loro vita. Le donne avevano vestiti dai colori sgargianti, pendagli d’argento e collanine di corallo. Rancore, diffidenza, omertà sono rimasti oggi nei paesi desolati. Le nostre donne per più d’un secolo non han vestito che di nero.

Giuseppe Marino da Preappennino Oggi

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