sabato, agosto 08, 2009

Zelaya? Quien?




Sono un giornalista, sono stato in Honduras l'anno scorso e ho visto il comportamento della cosiddetta sinistra laggiù. Zelaya l'ho anche intervistato. Su di lui sono state dette troppe inesattezze. Non è un eroe e, forse, dovrebbe vedere il sole a scacchi. È un latifondista di destra che si è scoperto a sinistra quando gli è convenuto. L'Honduras ha enormi problemi, ma non sarà certo Zelaya a poterli risolvere. Se ne vada in Svizzera o in Spagna e si faccia da parte.

Un ottimo reportage da Tempi una rivista ai miei antipodi politici, ma che pubblica anche cose valide.

Honduras, cronache da un golpe tv. A parlare di colpo di Stato sono solo i media oltranzisti e i giornalisti venezuelani. Mentre la gente già non ne può più delle esibizioni e delle bravate del presidente che volle farsi Chávez

di Rodolfo Casadei

Meglio, molto meglio, una sopa de mariscos. Calda, profumata, succulenta. Coi tranci di gamberi e di aragosta, i bocconi di caracol semimmersi nel vellutato brodo di latte di cocco. Dentro allo schermo appeso sopra la testa dei camerieri del bar dell’Hotel Continental di Tegucigalpa, non lontano dalla residenza presidenziale, innumerevoli giornalisti sudano, si spintonano, agitano i microfoni tutt’intorno a un omone che porta in testa uno Stetson bianco da 500 dollari. È il deposto presidente Manuel Zelaya che per la seconda volta in quattro settimane mima di voler rientrare nel paese da cui è stato deportato, stavolta attraversando il confine di terra fra Nicaragua e Honduras. «Momento storico ed emozionante», lo definisce l’inviato del canale in lingua spagnola della Cnn. E invece no, ha ragione chi sta qui a sorseggiare una birra Imperial, sui divani del locale rivestito di tek massello, in un vai e vieni di magnifiche mulatte, immergendo cucchiaio e forchetta nei vapori della sopa. Perché i film comici vanno goduti in tutta comodità, non certo sgomitando per un posto fra le comparse, e basta aver trascorso tre giorni nella capitale honduregna incontrando e intervistando giornalisti e analisti, esponenti della società civile, ministri, ex ministri e funzionari dello Stato che hanno lavorato al fianco di Zelaya per rendersi conto di che razza di istrione manigoldo sia l’ex presidente, quanto enorme sia la cantonata che la comunità internazionale ha preso offrendogli una solidarietà incondizionata ed etichettando come golpista il governo che gli è succeduto, e quanto parziale e approssimativa sia stata la copertura che, almeno nelle prime tre settimane, i media mondiali hanno offerto della crisi. Tutti errori da rettificare quanto prima se si vuole evitare che questo rilassante film comico di serie B si trasformi inopinatamente in una tragedia che trascinerebbe con sé tutta l’America centrale, riportandola agli indimenticati orrori degli anni Ottanta, quando centinaia di migliaia di esseri umani, per lo più indios e campesinos poverissimi, pagarono con la vita le logiche della Guerra fredda: sono in agguato avvoltoi che rispondono ai nomi di Hugo Chávez, presidentissimo bolivariano del Venezuela, Daniel Ortega presidente sandinista del Nicaragua, Raúl e Fidel Castro di Cuba.

Chi ha stracciato davvero la Costituzione
Alle 15.30 ora locale la Cnn annuncia al mondo che Zelaya ha messo piede sul suolo honduregno senza essere arrestato. Ma non è esatto: l’ex presidente è entrato nella parcella honduregna di territorio smilitarizzato dentro alla terra di nessuno fra i due paesi. Si avvicina al cartello “Bienvenidos en Honduras” e lo abbraccia, ma si guarda bene dal fare un passo oltre: le truppe speciali che stazionano a 25 metri da lì lo catturerebbero e lo trasporterebbero in elicottero in una prigione militare in Miskitia, la regione più remota dell’Honduras. Zelaya, che non ha la vocazione del martire, fa marcia indietro e per oggi il cinema è finito. A Tegucigalpa un migliaio di suoi simpatizzanti ha organizzato una manifestazione di solidarietà con l’ambasciata venezuelana, cui il governo Micheletti ha notificato un decreto di espulsione. Duemila si sono scontrati con esercito e polizia a El Paraiso, vicino alla frontiera col Nicaragua, dove in teoria Zelaya sarebbe dovuto transitare se fosse entrato davvero: due feriti fra i manifestanti, tre fra i poliziotti. A San Pedro Sula, la capitale industriale del paese, 30 mila sostenitori del governo ad interim hanno manifestato a favore del nuovo esecutivo e contro il ritorno di Mel (così è soprannominato il leader deposto). Cioè contro il ritorno del presidente latifondista che tanto ha fatto per i poveri che ne ha aumentato il numero; che ha attuato una gestione talmente trasparente degli aiuti internazionali da causare le scandalizzate dimissioni della Svezia da presidente del coordinamento dei donatori; che governava senza aver approvato nemmeno la legge finanziaria, in esercizio provvisorio da sette mesi, per poter gestire a capocchia tutti i soldi dello Stato premiando, punendo e ricattando sodali e avversari; che ha fatto gestire quasi tutte le risorse del programma contro la povertà a Red Solidaria, l’ente presieduto da sua moglie; che nominava uomini di sua fiducia in tutte le istituzioni di garanzia, per esempio un alcolista al posto di una rispettata professoressa universitaria a capo dell’ente di vigilanza sugli istituti bancari; che si è fatto consegnare dalla Banca centrale 50 milioni di lempiras (quasi 2 milioni di euro) in banconote di piccolo taglio per pagare gli attivisti che avrebbero dovuto montare da cima a fondo la famosa “encuesta ciudadana”, sorta di referendum che gli avrebbe spianato la strada delle rielezione perpetua – iniziativa sanzionata come illegale da una raffica di sentenze della magistratura e da un voto del Parlamento (vedi Tempi del 9 luglio). È proprio quest’ultima storia che ha innescato il cosiddetto golpe del 28 giugno.
Strano colpo di Stato, quello. Il capo del regime, che gli oppositori locali e la stampa internazionale subito prendono a motteggiare come “Pinocheletti”, è un presidente ad interim che non potrà presentarsi alle elezioni per il rinnovo della carica il 29 novembre prossimo, e che ha manifestato la sua disponibilità a dimettersi anche prima se Zelaya rinunciasse ufficialmente alle sue pretese. Nelle carceri non c’è nemmeno un detenuto politico, benché i manifestanti abbiano devastato tre locali pubblici nei pressi della casa presidenziale e ogni giorno si dedichino in piccoli gruppi a vergare scritte di protesta sui muri (spesso minacciose, che poi vengono cancellate dai simpatizzanti del nuovo governo), fare blocchi stradali, occupare temporaneamente edifici pubblici: i pochi arrestati vengono rilasciati in giornata. La stampa pro-Zelaya ha sofferto censure e restrizioni nei primi tre giorni dopo il cosiddetto golpe, le televisioni venezuelane sono state estromesse dal paese, ma attualmente pubblicano o emettono in piena libertà giornali, radio e tv pro-Zelaya. L’ultimo numero del periodico El Libertador titola a tutta prima pagina “Dictadura!” e copre di contumelie Óscar Rodríguez Maradiaga, il cardinale arcivescovo che insieme a tutti i vescovi del paese prima ha condannato come illegale il tentativo di Zelaya di cambiare la Costituzione, poi ha giustificato la sua deposizione, limitandosi a criticare la deportazione del capo dello Stato dal paese, chiara violazione dell’articolo 102 della Carta fondamentale.
Fra i quotidiani Mel sta messo piuttosto male, tre dei quattro principali fiancheggiano apertamente il governo, e l’unico a lui favorevole (Il Tiempo, di proprietà della potente famiglia Rosenthal) ha cominciato a pubblicare anche commenti a lui contrari. L’ex presidente si rifà con le radio e le tv: su Canal 7 impazza Eduardo Maldonado che staffila i golpisti, Canal 36 e Canal 66 Maya Vision suonano la stessa musica. Fra le radio alcune sono ai limiti e oltre della legge: Radio Guanchi invita genericamente alla ribellione, Radio Globo sabato scorso suggeriva agli ascoltatori di saccheggiare i supermercati del centro. Le forze dell’ordine continuano a usare mano leggera per non innescare la spirale repressiva a cui gli avversari del governo anelano. E perché la tattica dei contestatori è politicamente suicida: i blocchi stradali, i continui scioperi nella scuola (i sindacati degli insegnanti sono fedelissimi di Zelaya), l’occupazione di strutture sanitarie con conseguente blocco delle attività stanno esasperando ogni giorno di più la popolazione.

Ma dove sono finiti i militari?
Strano golpe davvero questo, che non solo mantiene data e candidati già decisi delle elezioni presidenziali, ma che vede confermata la partecipazione di due concorrenti della sinistra radicale pro-zelayista: l’indipendente Carlos Reyes e l’esponente del Partito di unificazione democratica César Ham. Ma soprattutto un golpe senza stellette. «Non c’è postribolo senza prostitute, non c’è golpe senza militari», declama Juan Ramón Martínez, brillante editorialista politicamente vicino alla Democrazia Cristiana, che qui è un partito di centrosinistra. «Bene, quanti militari vede lei qua dentro?», chiede agitando la pagina con la “galería de golpistas” del giornale Resistencia, organo del Fronte nazionale contro il colpo di Stato. Le 24 foto tessera della pagina mostrano politici, imprenditori, giornalisti (fra cui lo stesso Martínez) e un solo militare, il capo di Stato maggiore Romeo Vásquez Velásquez. Nell’Honduras post-28 giugno non c’è nessun militare al governo e tutti gli organi istituzionali (Corte costituzionale, Tribunale elettorale, Procura generale della Repubblica eccetera) continuano a funzionare con gli stessi vertici di prima. Regna però un clima malsano che Martínez spiega così: «Zelaya fomenta la lotta di classe, alimenta l’idea che la povertà degli uni è conseguenza del benessere degli altri, disprezza l’iniziativa intelligente dei privati nella creazione di ricchezza, instilla nei poveri l’odio contro i ricchi, facendo credere che i secondi saranno spogliati dei loro beni a vantaggio dei primi, che finalmente saranno felici». Il tutto con l’assistenza di consiglieri venezuelani e attingendo alle finanze dello Stato come fossero soldi suoi personali.

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